FIABA

Maglietta verde e gonna blu,
i tuoi passi lenti sulla pietra grigia
di una banchina di stazione.

Il fischio di un treno per musica,
come il grido di dolore dell’anima,
cupa di nostalgia della terra madre.

Occhi color terra che sapevano d’oriente,
sguardi che parlavano di mistero,
chiome di giaietto che dicevano di meridione
un nasino che s’alzava a settentrione,
labbra disegnate dal pittore dei tramonti rossi.

Un volto che induceva al sogno
illanguidì occhi verdi e anima bollente.
Gambe tornite da sante mani,
mani morbide dalle dita sottili e lacca rossa
come un fuoco bruciarono un cuore giovane.

Cominciò così la fiaba.
La narrano ancora il vento e l’erba verde,
or che la neve del tempo imbianca le chiome
e i furori di gioventù son vividi ricordi,
gerla leggera di un’età dal passo lento.


SABRA E CHATILA

Tremano le lamiere della baracca
al rombo del mostro che porta la stella.
Ruota la torretta e le fiamme balenano
dalle canne stellate. Stella di David,
che portò la vita. Nel campo,
che porta la morte.
I primi singhiozzi di un bimbo
che non può implorare la patria perduta,
ma la vita. Sente la paura,
ché la morte è amara anche
per i dolci occhi di un bimbo.
Tende la mano all’uomo che
parla sempre di Auschwitz e Treblinka.
Ma spara a Sabra e Chatila.
E la mano del bimbo si contrae,
rapita dalla raffica di morte.
Il ghigno dell’uomo che viene
da Treblinka illumina sinistramente
la scena. È la vendetta di chi non aveva patria,
condannato dal Dio degli eserciti,
verso chi una patria aveva e l’ha persa,
rapinata dai maledetti da Dio.
Shalom,Yerushalayim, il tuo dio
ti guida nel calpestio degli uomini
che nulla pretesero se non
una patria di figli che fu dei padri.
È un dio perverso, che discende
dal giallo vitello delle falde del Sinai.
Shalom,Yerushalayim, la tua mano
è guidata da un altro regno stellato
che fece are al dio Danaro.
La tua mano blasfema, che seppe
soffrire l’olocausto di morte,
ripaga di sangue chi colpe non ha.
Salam, donna di Sabra, che stringi
nel tuo grembo il pallido figlio
vittima della stella di morte.
Salam, madre dolente di Chatila:
il ludibrio del tuo corpo stuprato
dall’uomo di Haifa lo marchia.
Nuovamente. Come era a Treblinka.
E su questo marchio non vivrà di rendita.


A GAZA LA MORTE

Tacete, se avete solo fiato da soffiare
sul triste destino dei figli di un deserto.
Zittite, se avete un braccio monco della forza
da prestare alle genti della Striscia.

Mezzo secolo di parole in libertà,
etti di bava e chili di facezie
non hanno mutato il destino amaro
delle genti di un deserto di pietre.

Riempitevi la bocca di polvere di Jaballa,
bevete a garganella il sangue di Abasan.
Ingoiate la carne che brucia a Gaza.
Ingollate la pelle che arde a Rafah.

Ma tacete, ipocriti d’anima tiepida.
Zittite, uomini d’umana viltà.
Non saranno le vostre giaculatorie
a riempire i crani aperti dei figli di Palestina.

Fermate le vostre orazioni.
A Gaza non possono sentirvi.
Volgete lo sguardo altrove.
A Rafah non possono vedervi.

Non labbreggiate salmi di convenienza.
A Jaballa non possono ascoltarvi.
Non mormorate inani preghiere.
Ad Abasan non possono udirvi.

Non possono, nella Striscia di Gaza.
Han da prestare ascolto al fischio
della morte, che cavalca spavalda
su cavalli d’acciaio ed aquile di ferro.

La sabbia s’impasta, l’aria s’impregna,
l’acqua ribolle, la vita si spegne.
Il mondo blatera, la politica traccheggia,
nella Striscia di Gaza si muore di scheggia.

Noi fummo di ciance, noi fummo di ciarle.
Alle sirene di guerra che ululavano parde
opponemmo chitarre che suonavano tarde.
A Gaza la morte. A casa le torte.

Vile giovinezza, figlia dei padri,
inginocchiati innanzi al sangue di Gaza.
Laggiù si sogna e si muore
per un granello di sabbia.

Codarda gioventù che suoni la chitarra,
compi un atto che riscatti le paterne viltà.
Arma il tuo braccio e porgilo al fratello,
lava il disdoro di una vecchia gioventù.