LA MIA VOCE … CHIUSA NEL SILENZIO  di Evelina Rei

Oggi è il mio primo giorno di scuola e la mamma è venuta a svegliarmi con un sorriso.

– Dove andiamo stamattina? – mi ha chiesto quasi abbracciandomi.

– A scuola!! – ho risposto assonnata.

Ma era terribilmente presto e faceva freddo. I termosifoni, come al solito, erano spenti perché la

padrona di casa è cattiva e non vuole consumare per noi inquilini. Così ho fatto fatica ad alzarmi,

ma soprattutto a lavarmi con l’acqua gelida.

Ora poi, questa cartella mi pesa terribilmente sulle spalle. Però ne sono orgogliosa, perché è rossa

con dei riporti in pelle morbidissima: pelle di mucca. Nessuno ci crede, ma la mia cartella è fatta di

pelle di mucca. Me l’ha detto mio padre!

Eccoci davanti alla scuola elementare. Siamo un bel gruppo di bambini, ognuno con la propria

mamma. Ma si vede già che la mia mamma è più bella delle altre e anche la più elegante. Con i suoi

lunghi capelli rossi si riconosce da lontano e molti la osservano, specialmente gli uomini. Ormai

sono abituata: non c’è uomo che non le faccia un complimento o che non s’incanti a guardarla. A

volte avverto lo sguardo delle altre donne in modo strano, quasi ostile, come se io non piacessi o

come se la mamma non piacesse loro.

Ecco che suona la campanella ed entriamo nella scuola.

La nostra aula è bellissima, grandissima e c’è un tale trambusto!

Io amo il trambusto, perché la sera, quando vado a letto, mi addormento con i rumori della strada e

il vociare continuo della gente. La mia cameretta si affaccia sotto i portici, nella via del centro. Lì ci

sono parecchi bar e negozi e il mercato due volte la settimana. Di sera, poi, c’è sempre gente.

Per me tutti questi rumori sono vita!

Ecco che fra poco le mamme se ne andranno e noi bambini resteremo da soli con le maestre. La

mamma mi saluta di nuovo con un bacio. Non mi ha mai baciato così tanto come oggi. E’ già la

seconda volta da stamattina. Bèh, ma oggi è un giorno importante, perché la mia vita cambia: vado

a scuola!

Le classi vengono divise e ci presentano la nostra maestra. Si chiama Maria e per me è bellissima

perché ha il viso pulito, senza trucco e una voce dolcissima.

La maestra Maria inizia l’appello chiamando ognuno per nome e cognome. Allora avverto una

stretta al petto, perchè so che arriverà anche il mio turno e immagino già che cosa dirà. Devo solo

aspettare che succeda.

– Viusna Conte!

Alzo la mano: – Sono io!

– Che nome è? – mi chiede gentilmente .

– E’ un nome russo.

– Ma come mai? Hai parenti in Russia?

– No, ma a mia mamma non piacciono i nomi italiani, così ha scelto questo.

La maestra mi fa un sorriso comprensivo, ma io so già che cosa pensa. Tutti i miei compagni mi

guardano in modo strano ed io mi sento diversa. Non c’è un’altra bambina che si chiama come me,

ma ormai sono così abituata che non potrebbe essere diverso. Sono unica: figlia unica, perché non

ho fratelli e sorelle, unica perché non ho un’amica con il nome come il mio, unica perché mia

mamma, truccatissima e bellissima non è come le altre. In pratica sono sola! Mi riconoscono subito

per il nome, mi riconoscono subito per la mamma. Sono sempre al centro dell’attenzione.

Ma la mamma dice sempre: “ Meglio far invidia che pietà !”, e mia bisnonna ogni volta mi ripete:

“ L’occhio piange ma il labbro sorride. Mai piangere davanti agli altri. Mai!”

E infatti, ora che tutti mi guardano, io sorrido. Sono persino contenta di essere così diversa. Sorrido,

sorrido e sorrido. Ma ogni tanto ingoio qualcosa che mi stringe la gola in modo fastidioso e in quel

momento odio la dolcevita che sono obbligata a indossare.

Ma la maestra Maria per fortuna va avanti e la mattina vola.

A mezzogiorno ecco di nuovo la mamma fuori dalla scuola, luminosa come il sole. Non vedo l’ora

che sia l’indomani. Ho già fatto amicizia con altre bambine e ne sono felicissima.

Mentre torniamo a casa, chiacchieriamo. Mio padre oggi non c’è perché lavora ed io e lei siamo

sole. Mi dispiace un po’, perché quando c’è papà la casa sembra diversa ed io sono felice.

Il pranzo è già a tavola e la mamma inizia a mangiare leggendo il libro. Io la guardo e sfoglio il mio

Topolino che ancora non so leggere. C’è silenzio in casa. Il pendolo scandisce le ore e a me non

piace molto.

Dopo pranzo è tempo di compiti. La mamma si strucca gli occhi e mi guarda il quaderno,

aiutandomi a capire le cose più difficili. Poi va a riposare.

Io inizio a scrivere e sono contenta perché oggi è il mio primo compito e voglio farlo bene. Inoltre

la mamma è proprio brava: mi sorride sempre e mi spiega le cose con calma.

Ecco che squilla il telefono e io vado in salotto a rispondere. Non so chi è, ma mi sembra la voce di

un uomo. Chiede della mamma. Io la sveglio e poi ritorno ai miei quaderni. Ma dalla cucina sento la

sua voce alterarsi e rispondere male. “Chissà chi è!”, penso. “Speriamo che non l’abbia fatta

arrabbiare.” Ma un suo urlo mi fa sobbalzare e so che ormai è fatta. La mamma è proprio

arrabbiata. Sbatte il telefono e viene verso la cucina. I suoi passi sono veloci e il rumore dei

“patin”* sul pavimento mi ricorda con ansia quello degli schiaffi sul viso.

Faccio finta di niente. Lei si beve il caffè senza parlare, accende una sigaretta e poi viene alle mie

spalle. Sento il suo silenzio, il rumore delle unghie sulla tazzina del caffé, la tosse da fumo. Il mio

cuore accelera i battiti. Immagino il suo sguardo fisso sulla mia testa perché so che sta guardando il

compito. Avverto la sua rabbia. In quel momento non è più la mia mamma.

“Che fare? Che posso dire? Oh, perché c’è stata quella telefonata? Adesso se la prenderà con me!”

Sto a testa china cercando di non fare niente, sperando quasi di essere invisibile.

– Che lettera è questa? – mi domanda secca.

– A – rispondo sottovoce.

– E si scrive così la “A”?

Io non rispondo e guardo la “A”.

– Te l’ho già spiegato prima. Non lo vedi che questo è un segno diverso?

– Sì.

– E allora perché non lo fai?

La sua voce diventa stridula. Non ho il tempo di rispondere perchè la sua mano si abbatte

violentemente sulla mia testa. Cerco di ripararmi, ma so che non si fermerà più. La mia mente dice

“Scappa!”, ma so che potrebbe prendermi e dopo sarebbe peggio.

“Oh, mamma perché fai questo?” Ma non posso dirlo, non posso urlare. Posso solo proteggermi con

le mani e pregare che smetta. Ma so che ancora non smetterà. Cado dalla sedia e lei continua a

darmi addosso con tutta la sua furia. Poi mi prende per i capelli e mi sbatte la testa contro il muro

più volte.

– Basta, ti prego mamma, basta!

– Ti ho detto mille volte come si scrive!!! Hai capitooo?

– Sì sì!

Ormai conosco il dolore bruciante degli schiaffi e il tonfo sordo dei calci.

– Basta, ti prego!

– E allora perché non lo fai?

– Sì sì lo faccio. Mamma ti prego!!!

Non so quanto dura, ma lei ad un tratto si ferma, mi guarda e se ne va. Io rimango lì a terra,

tremante. Raccolgo lentamente le mie cose e a fatica mi rialzo. Mi sento tutta indolenzita, ma mi

sforzo di sedermi di nuovo. Riprendo in mano i quaderni e tra i singhiozzi cerco di trovare la pagina

che stavo completando. Sento il sapore salato delle lacrime sulla lingua e macchio il foglio. Ma

subito lo asciugo con la manica.

Dopo un po’ lei ritorna in cucina e quando mi passa accanto d’istinto mi copro la testa con le mani.

– Hai finito i compiti? – mi chiede con voce grigia, senza colore.

– Quasi, – rispondo, sperando di dire una cosa giusta.

– Véstiti ché andiamo da nonna!

Dopo un po’ mi alzo e ripongo i quaderni nella cartella. La mamma si trucca e mi porge il vestito

che devo indossare. Il suo tono ora è più calmo ed io so che la bufera è passata. Ma so che potrà

ritornare in qualsiasi momento e prego Dio, prego Gesù che non ritorni più.

Io voglio bene alla mia mamma. Per me è bellissima, ma vorrei che fosse dolce come il miele e che

mi amasse quanto la amo io.

– Vieni qui, Viusna, – mi dice dopo un po’.

Io mi avvicino e lei mi abbraccia.

– Scusami, scusami. Ti ho fatto male?

Io piango.

– No, non piangere. Non lo faccio più, te lo prometto. Mi è scappato.

Io le credo. Ogni volta dice sempre la stessa cosa ed ogni volta spero che sia vero.

– Mi prometti che non lo dici a papà? – mi chiede dolcemente.

Io accenno con la testa e tiro su con il naso. Con la testa sul suo collo il mio cuore riprende a battere

e in quel momento so che le voglio bene.

Oh, come vorrei che la mamma fosse calma come il sole e che quei brutti momenti non esistessero

più! Ma ora sono più tranquilla. Tutto è passato.

“Andiamo dalla nonna”, penso. “Forse mi ha fatto le frittelle che mi piacciono tanto!”

Con la nonna è diverso. Mi vizia, mi coccola, mi abbraccia. A volte la mamma mi lascia là per

interi pomeriggi, così io posso raccontarle tutto quello che succede in casa. So che la nonna non

dirà nulla, perché anche lei ha paura della mamma, ma soprattutto del nonno che è peggio della

mamma. E così io e la nonna ci raccontiamo tutti i nostri dispiaceri.

Ma quando la mamma non è arrabbiata è la mamma più brava del mondo e anche la più intelligente.

Legge tantissimo e scrive poesie e mi insegna tante cose. Insieme cantiamo, ridiamo, scherziamo e

parliamo. Poi mi compra tanti vestiti, mi manda a scuola di nuoto, di sci e di chitarra.

Io però vorrei cantare e ballare e sogno sempre un tutù e due scarpette rosa da ballo. Ballo sempre e

canto tutte le operette che mi insegna la bisnonna. Ma non posso dire niente perché in queste cose

comanda mio padre, che dice che il canto e il ballo sono solo per ricchi e noi non lo siamo. Ma

dentro di me penso: “ Perché allora io e la mamma abbiamo la pelliccia? Non è anche quella una

cosa da ricchi?”. Ma non posso rispondere perché sennò si arrabbia. Così tutti dicono che sono

proprio una brava bambina, perché sono educatissima e parlo poco.

Mia madre ha un carattere difficile, lo so. Lo so anche se ho sei anni. Se non picchia me, litiga con

mio padre e sono tante, ma proprio tante le notti che li sento bisticciare. A volte cerco di fargli fare

pace e quando vedo che mi posso avvicinare, corro da una camera all’altra a pregarli di smettere.

Ma non serve mai a niente.

E allora rimango chiusa nella mia stanza, sola, a pensare che vorrei tanto una madre dolce e gentile,

un nome diverso e un padre forte.

Ma so che ci sono bambini che stanno peggio di me, che non hanno niente da mangiare e forse

neanche i genitori. Io ho tutto: una casa, una scuola, una famiglia, due nonne, un nonno e due

bisnonne. Vado all’oratorio tutti i giorni a imparare tante cose. Le suore ci insegnano a cucire, a fare

l’uncinetto, a pregare e soprattutto a giocare. Partecipiamo a tutti i giochi della gioventù con altri

oratori e facciamo molte gite. Inoltre recitiamo a teatro con costumi veri e io mi diverto a cantare e

ballare, perché dicono che ho una voce bellissima e la musica nel sangue.

D’estate, poi, vado al mare con mamma, fino a quando non ci raggiunge papà per le ferie. Un mese

però lo passo in montagna, da sola in colonia, perché mio padre dice che è bene imparare la

disciplina.

Ma a volte preferirei non avere niente da mangiare, niente di tutte queste cose, ma avere due

genitori gentili.

La scuola mi piace tantissimo perché sono tutti buoni con me e ci vado volentieri.

Dopo il primo giorno ho imparato ad andare da sola ed ora so anche attraversare la strade. Ce ne

sono tre prima di arrivare, ma sono vicine e un vigile aiuta sempre noi bambini. La cosa più

divertente poi è la focaccia che compro in panetteria, unta di olio e sale da far venire l’acquolina in

bocca. Spesso mio padre mi obbliga a prendere il Buondì Motta, ma a me non piace e mi sembra di

non aver mangiato nulla. Vorrei essere grande per poter fare qualcosa che piace a me.

Ma nella mia classe c’è una bambina che forse, dico forse, sta peggio di me.

Io, per esempio, non racconto a nessuno di quello che succede in casa, perché la mamma me l’ha

proibito. Se parlassi si arrabbierebbe da morire. Laura invece lo racconta, ma solo a me e a Simona.

L’altro giorno ha raccontato che sua madre le ha fatto fare i compiti tutto il pomeriggio senza

permetterle di alzare la testa dal quaderno. Non l’ha lasciata uscire fuori nel cortile neanche per

mezz’ora e non l’ha lasciata muovere dalla sedia perché non poteva sporcare il pavimento.

E questo le capita tutti i giorni! Neanche lei può parlare ed io la capisco. Anche mia madre mi

picchia tutti i giorni e se non proprio tutti, quasi o per qualsiasi cosa capiti. Poi però, quando siamo

con gli altri mi abbraccia e mi difende anche davanti agli altri bambini.

E’ così strana la mia mamma. Per esempio, io devo essere la prima della classe, perché quando

incontriamo qualcuno possiamo dire che vado bene a scuola e che faccio molte cose. E così le

signore anziane che non mi conoscono e mi vedono per la prima volta mi dicono: – Oh tesoro, ma

che bella bambina, così brava poi …! E’ vero che vuoi diventare dottoressa?

Ecco … io in quei momenti vorrei non esserci.

L’altro giorno la maestra Maria mi ha chiamato. Mi ha visto triste e mi ha domandato che cosa

avessi. Ma non potevo parlare, anche se avrei voluto tanto. Avevo la lingua legata e il cuore gonfio.

Non potevo dire niente e mi dispiaceva anche per lei, perché era sinceramente preoccupata per me.

In quel momento io le stavo dicendo una bugia. Mi ha chiesto che cosa succedeva in casa ed io sono

stata zitta. Oh, come avrei voluto dirglielo e fuggire da quell’inferno! Perché io so e LO SO che i

bambini non si picchiano e i grandi sbagliano quando lo fanno.

Io LO SO dentro di me, ma non so dirlo.

Oggi è lunedì.

Ieri era domenica e noi dovevamo fare una gita. Sembrava andasse tutto bene, poi invece i miei

genitori hanno litigato. Mio padre all’improvviso ha fermato l’auto su una piazzola e mi ha fatto

scendere. Mia madre ha urlato e siamo stati in mezzo alla strada per parecchio tempo. Loro

litigavano ed io li guardavo. Le auto passavano, rallentavano e poi ripartivano. Mamma ha ordinato

a papà di mettersi in ginocchio, minacciando di fare autostop. Io pregavo che lui lo facesse, così ce

ne saremmo andati via presto. Ma anche lui urlava e bestemmiava e non si capiva niente. Alla fine

si è messo in ginocchio e le ha chiesto scusa. Così finalmente siamo ripartiti.

La gita è stata bruttissima, ma alla sera hanno fatto pace e in auto abbiamo persino cantato.

A cena però hanno di nuovo litigato. Mia madre ha sbattuto a terra la tovaglia dal tavolo

apparecchiato e ha rovesciato tutto. Del pavimento non si vedeva più nulla, solo piatti e bicchieri

frantumati, avanzi di cibo e acqua e vino a volontà. Io mi sono nascosta nell’angolo vicino alla

porta con il cuore che batteva all’impazzata. Avrei voluto chiamare qualcuno ma avevo troppa

paura. Mio padre allora ha perso la pazienza e si è avventato sulla mamma. Non era mai capitato,

così ho pensato con terrore che volesse ucciderla. Allora gli sono volata addosso per fermarlo: -No

papà ti prego!! No!!! – Lui si è dominato a forza, con i pugni chiusi e l’ha fissata in un modo

terribile.

– Ringrazia che c’è la bambina! – ha detto.

Per la prima volta ho letto la paura sul volto di mia madre. Ma subito ha alzato il mento e se n’è

andata in salotto. Io e mio padre abbiamo ripulito la cucina in silenzio, interrotti solo dallo scandire

del pendolo.

Finalmente sul tardi siamo andati a dormire. Ero molto stanca, però contenta che tutto fosse passato.

Ma mi sbagliavo. A notte inoltrata papà è venuto a svegliarmi avvisandomi che ce ne saremmo

andati. “Veramente?”, ho pensato. Mi sono alzata e vestita di corsa, sperando di andare il più

lontano possibile, anche in collegio se necessario. Invece poi è ritornato e mi ha ordinato di

svestirmi perchè saremmo rimasti a casa. Delusa, mi sono infilata di nuovo nel letto pensando a

quanto sarebbe stato bello vivere da qualsiasi altra parte.

Ed ora sono stanchissima. Non riesco a stare sveglia qui in classe e non ho voglia di parlare con

nessuno. Poggio la testa sul banco, ma c’è la maestra che mi chiama, quella maestra tanto gentile

che ci legge le favole in classe. Vado da lei.

– Che cos’hai stamattina, Viusna? Non ti senti bene?

– Niente, – rispondo.

– Perché te ne stai così in silenzio?

– Non lo so, forse sono stanca.

– E’ successo qualcosa?

– No.

– Sicura?

– Mmm. Non ho dormito.

– Vieni qui.

Io mi avvicino e lei mi prende la mano. – Sai, ho visto i disegni che fai. Sono molto belli. Ti

piacciono tanto le principesse?

– Sì.

– Il tuo album è pieno di principesse e di castelli.

– Mmm! Vorrei essere una principessa e vivere in un castello.

– E casa tua non ti piace?

Io non rispondo e guardo fuori dalla finestra. Lei sfoglia il mio album e sorride perché le

principesse sono tutte uguali e anche i castelli.

– A casa ci sono mamma e papà. Nel castello ci sei solo tu.

Io traggo un respiro profondo, ma non so che dire. “E se lo scopre?”, penso. Ho il cuore che batte

come un tamburo. A volte penso che potrebbe uscire dal petto e andarsene per i fatti suoi.

“Forse anche stando zitta potrebbe scoprirlo?” Ora mi sento terribilmente in colpa. Dovrei dire

qualcosa per far passare questo momento, ma che cosa? Ho un buco nello stomaco che non so come

colmare. Le mani sono sudate e improvvisamente non mi sento bene. Ma cerco di reggermi in piedi

e di sforzarmi di essere normale.

Oh come vorrei abbracciare la maestra e piangere sul suo seno!! Potrebbe lei togliermi da

quell’inferno? Immagino come sarebbe diverso se potessi parlare, ma poi penso a mamma e alla

promessa che le ho fatto.

E allora la mia voce, che vorrebbe tanto urlare, flebile come un sussurro si nasconde in fondo al

cuore. E lì rimane, chiusa nel suo silenzio.

 Pantofola (in piemontese)


 

Brano tratto da “La ragazza della collina” di Evelina Rei.

Diego aveva l’aspetto di uno spettro, le guance profondamente scavate, l’abito penzolante sul corpo

smagrito. Sembrava l’ombra dell’uomo di un tempo.

«Puzzi come un caprone» lo rimproverò lei, aprendogli la porta. «Quando la finirai di comportarti

così?».

«Taci, donna! Non osare parlarmi».

Entrò barcollando, imprecando e biascicando le parole in modo confuso. Si voltò fissandola, col

luccichio tipico degli ubriachi. «Allora, quanti sono stati, eh? Dimmi almeno un numero, una cifra…».

«Piantala» rispose lei secca, mettendolo a sedere. «Guarda che razza di animale sei diventato».

Lui si scrollò le sue mani di dosso con stizza. «Dai, dimmi una cifra! Così, per sapere… Quanti ti hanno

assaporato, eh?Quanti?».

Lei gli diede la schiena infastidita, iniziando a spazzolarsi i capelli davanti allo specchio.

«Ti ho già detto che è stato un caso. Mi sono solo spogliata. L’ho detto anche a Elena. Non ho mai

fatto nulla», mentì. «Volevo solo i soldi per la profumeria».

«Allora sei vergine!» dichiarò lui, alzandosi.

«Non mi toccare!»

«E perché? Sono diverso dagli altri, forse? Non sono di tuo gusto? Ma tu sai quante donne verrebbero

con me, eh lurida colombella?».

«Via! Sei ubriaco». Lo allontanò da sé, assestandogli un sonoro schiaffo sul viso.

Diego non si scompose e l’afferrò per i polsi, minaccioso.

«Quello che non ho fatto allora… lo faccio adesso!». La sbatté con violenza sul letto, sbottonandosi i

pantaloni. «Mi sono consumato per resistere. Ho passato giorni d’inferno per non violare la tua intimità,

per non lacerare la tua verginità».

Rimase in slip. «La tua verginità?! Ah ah ah, che barzelletta!»

Abbassò anche quelli e fu nudo di fronte a lei, con tutta la prepotenza della sua virilità. La ragazza

trattenne il fiato. Aveva sempre pensato che fosse impotente. Ora dovette ricredersi. E ormai poteva

dire di intendersene, di uomini!

Per un attimo desiderò essere sua. Ma lui la stava trattenendo per i polsi e le faceva male. Era un dolore

insopportabile, quanto i lunghi anni trascorsi ad aspettare che lui decidesse per entrambi, per poi

rifiutarla nel modo più umiliante.

Diego non perse tempo e gli si mise sopra. La ragazza si dibatteva, ma lui riusciva a tenerla a bada

facilmente. Lo sguardo allucinato era carico di dolore.

«Ho passato notti insonni a torturarmi per resisterti. Sono passato da un letto all’altro per non violarti.

Solo non sapevo cosa stavi combinando tu!…». Rise.

«Mi ci hai costretta! Tu mi hai sempre respinto».

«Sgualdrina! Sgualdrina, io ti ho rispettata».

«Del rispetto non me ne faccio niente», lo schernì lei.

«Ah, del rispetto non te ne fai niente? E allora ti faccio vedere io come si comporta un uomo quando

non rispetta».

Le assestò un ceffone sulla guancia.

«Lasciami, lasciamiii!».

«Sta’ ferma!»

Cercò di farsi spazio tra le gambe serrate e la vestaglia strappata. Ma quando distolse gli occhi dal viso,

per posarlo sulla pelle, bianca come quella di una vergine, gli venne in mente una mattina di tanti anni

prima, sulla sponda del fiume.

«Eri una bambina» mormorò «solo una bambina».

Livia continuava a dibattersi come una furia. Lui le assestò un altro ceffone così forte che la ragazza

non ebbe più il coraggio di muoversi.

«Sta’ ferma» le ordinò.

Indugiò sul suo corpo, contemplandolo come aveva fatto allora. Con tenerezza, le sfiorò i seni morbidi

fino alla linea sinuosa dei fianchi, arrivando a toccare la coscia forte e ben tornita.

«Una vergine…» mormorò con voce strozzata. «Una vergine pura, intatta… da non violare. Ecco cos’eri

per me». D’un tratto allentò la presa sui polsi e la coprì con i lembi della sottana. «Una bambina… e lo

sei ancora adesso.

Si ritirò come in trance, rimettendosi in piedi.

«Non ti ho mai avuta…» sussurrò, con il corpo nudo, ancora teso per l’eccitazione. «Ma non ti voglio.

Non ti voglio più… ora!».

Infilò i pantaloni con calma innaturale, si allacciò la cintura lentamente e senza dire una parola uscì.

Livia rimase sdraiata sul letto, stordita, con il cuore in gola.

Percepì una dolorosa sensazione di solitudine, accompagnata da un terribile presentimento. Allora in

fretta si rivestì e cercò di raggiungerlo per le scale.

Ma Diego era già sparito. E allora, solo in quel momento, si rese conto con amarezza di quello che era

diventata.


 

IL PASTORELLO di Evelina Rei
Capitolo tratto da “Shakira, regina della Stella Juppiter”

– Lasciami, lasciami andare! – urlò il bambino in preda al panico.

– Piccolo foruncolo macilento! Vieni qui! Adesso vediamo se sei ancora capace di rubare.

– Lasciami andare, animale! Lasciami!

Ma il pastore non mollava la presa. Con uno strattone violento lo scaraventò a terra, pronto a

colpirlo. Il bambino immaginò con terrore il pugno abbattersi sul suo viso; poi, individuato un varco

tra le sue gambe, sgusciò via come uno scoiattolo.

– Acc…! Ma dove… ?! Grrr… !!! Non la passerai liscia questa volta! – urlò furente il ragazzo.

Ma ormai il bambino era lontano e lui, con la sua gamba zoppa, non sarebbe riuscito a raggiungerlo.

Cercò di colpirlo con una pietra, ma anche quella andò a vuoto nel fossato.

Il pastorello correva a perdifiato, il pezzo di burro in mano che scioglieva a contatto della pelle. Più

basso della sua età, magro, sporco e scalzo, non si curava delle spine che gli laceravano i piedi,

spinto solo dal folle desiderio di sfuggire alla furia del figlio del suo padrone. Le ultime botte che si

era preso l’avevano lasciato curvo per una settimana.

Shakira camminava lenta nella direzione opposta. Non si accorse di nulla, fin quando non si ritrovò

qualcosa di strano fra le gonne.

– Ma cos’è? Ahaaaa, ha… haaaaa… il solletico!

Il pastorello, nella sua corsa sfrenata, le era finito addosso. E pensando di trovarsi nel buio di una

grotta, si dimenava selvaggiamente tra le sottane in cerca dell’uscita. Quando poi finalmente vide la

luce, si ritrovò appeso per il collo tra le braccia robuste di una vecchia. Il suo aspetto spaventoso lo

terrorizzò oltre ogni misura.

– Ahaaaaa… aiuto! – urlò. Con uno scatto improvviso riuscì a sgusciare via correndo di nuovo nella

direzione da dove era venuto.

– Ma… cosa? Perché? – balbettò Shakira.

– Aha, ahaaaa! – ridacchiò Papigal.- Non si può certo dire che sei una bellezza.

– Taci! – ordinò la maga risentita. – E rincorrilo piuttosto. E’ il primo essere umano che vediamo.

Non me lo voglio far scappare proprio adesso.

Il figlio del pastore, intanto, ritornava a casa rassegnato. Ma quando rivide il bambino, non credette

alla propria fortuna. Quel piccolo foruncolo macilento gli cadeva dritto tra le braccia come una pera

cotta.

– Ahhhh! Sei di nuovo qui! – esclamò, afferrandolo al volo. – Questa volta non mi sfuggi.

Il bambino era di nuovo in trappola. – Aiuto, aiuto!- urlò disperato.

– Zitto, mostriciattolo. Chi vuoi che ti senta?! – E si preparò a colpirlo.

– Fermo! – urlò una voce stridula.

– Eh?!

– Fermo!

Shakira avanzò sulle gambe malferme, ma le braccia poggiavano decise sul bastone. L’aspetto

terrificante aveva un qualcosa di soprannaturale. Il pastore fece per darsela a gambe trascinandosi

dietro il bambino, ma Papjgal gli volò intorno gracchiando e lo bloccò.

– Chi… chi sei? – balbettò il pastore.

– Te lo dico solo se sarà il caso. Ora lascia immediatamente questo bambino!

Per contro il ragazzo rafforzò la stretta sulla camiciola. Poi, vedendo che era solo una vecchia anche

se alquanto strana, un lampo di malizia lampeggiò nel suo sguardo.

– No! Lui mi appartiene e ne faccio cosa voglio.

– Ti appartiene? – domandò Shakira incredula. – Lascialo immediatamente, bruto! Nessun essere

umano appartiene ad un altro.

– Lui sì! – rispose cocciuto il ragazzo. – L’ha pagato mio padre con due sacchi di fagioli e una tanica

di olio. E visto che io sono suo figlio posso farne cosa voglio.

Il bambino strabuzzò gli occhi dal terrore. Cercò di divincolarsi, ma il ragazzo serrò la presa e fece

di nuovo per colpirlo.

– Fermo! Non puoi fare questo! – urlò Shakira.

– Certo che posso. Io posso fare cosa voglio. E poi chi sei tu per dirmi cosa posso fare? Sei solo una

brutta vecchiaccia senza denti.

La maga lo fissò con i suoi occhi iridescenti.

– Noooo, guardami bene! Io non sono solo una vecchia.

– Eh?! – Il pastore pensò di avere le traveggole perché a poco a poco quell’orribile vecchia si

trasformò in una magnifica ninfa dalle ali d’argento e i capelli color miele.

Gli occhi erano limpidi come un lago di montagna.

Il ragazzo sentì un brivido freddo per tutto il corpo.

– Adesso mi ascolti, allora?

Come in trance il pastore mollò la presa. Il piccolo non tentò neanche di fuggire e insieme si

inginocchiarono davanti alla maga.

– Chi sei? – chiesero all’unisono.

Lei fece loro cenno di alzarsi. – Sono la Dea della Pace, regina della Stella più bella dell’Universo.

I due ragazzi ascoltavano rapiti quella voce dolce come il profumo delle violette in primavera.

– Tutto ciò che fai è molto grave, sai? – rimproverò Shakira, rivolgendosi al pastore.

– Nessun essere umano appartiene ad un altro. Dio vi ha dato la vita su questa Terra e la libertà di

viverla. Quello che tu fai oggi determinerà il tuo futuro domani.

– Non capisco quello che dici, – rispose intimorito il ragazzo. – Io sono solo il figlio di un pastore e

mio padre mi ha detto di raddrizzare questo… questo…

Shakira lo interruppe con un gesto. Si rivolse invece al bambino che era ammutolito dalla

meraviglia.

– E tu chi sei?

Il piccolo abbassò gli occhi e tirò su di naso.

– Mi chiamo Costantino. Mia madre mi ha venduto al mio padrone quand’ero piccolo.

– Quanti anni hai?

– Dodici.

– Dodici? Ne dimostri cinque o sei. Sei così piccolo!

– Non lo so, non so contare. So solo che loro mi fanno lavorare dal mattino alla sera e mi menano

quando rubo da mangiare! Ma io ho fame e loro mi danno gli avanzi, sempre sputati.

– “Sputati”?

– Ah, non gli dia retta, non è vero! – intervenne il pastore imbarazzato.

– Dimmi, che significa “sputati”?– insistette Shakira.

– Significa che quando mangiamo … ecco …

– Avanti, non aver paura, parla.

– Ecco… quando mangiamo, loro mangiano e poi c’è il fratello del padrone che ha dei baffi

grandissimi.

– E allora?

– Lui mangia più di tutti. Prende la polenta con le mani e se la mette in bocca e poi rimette le mani

sporche nella polenta e rimangia. E quando ha il naso sporco tutte le caccole del naso vanno nella

polenta e siccome loro sono più veloci di me avanzano sempre i rimasugli con le caccole dello zio

ed io devo mangiare quello, sennò non avanza più niente. E sempre mangio e rimetto quello che ho

mangiato.

Shakira deglutì più volte, reprimendo un conato di vomito. – Scusa, ma gli altri come fanno?

– Sono furbi. Mangiano sempre prima di me e prima che arrivi lo zio. Ma siccome io devo servire a

tavola, non riesco mai a mangiare pulito e tutto quello schifo mi rimane sullo stomaco e il giorno

dopo vomito. E’ più quello che vomito che quello che mangio.

– Non mi stupisce che tu sia così magro, – osservò la maga tristemente.

– Non è come dice lui, signora, – lamentò il pastore. – Noi non ne abbiamo neanche per noi. Gli

adulti mangiano di più perché lavorano di più e poi se io non lo meno, mio padre poi mena me.

– Tuo padre deve essere un mostro. Perché non andarsene allora? Perché non siete fuggiti, non avete

cercato aiuto da qualche parte?

– L’ho fatto, signora – rispose pronto il piccolo. – Sono andato alla polizia, ma loro mi hanno riso in

faccia. Hanno chiamato mia madre che quando mi ha visto si è arrabbiata moltissimo e si sono

messi d’accordo per un altro sacco di fagioli. E così mi hanno riportato qua.

Shakira aveva ora le lacrime agli occhi.

– Che triste storia! – commentò. – Una grave storia. Ridurre in schiavitù un bambino è un peccato

gravissimo. Tua madre dovrà scontare molto se ha avuto il coraggio di fare quello che ha fatto.

Ricorda, – ammonì, rivolgendosi al pastore, – il male che tu fai oggi, lo riceverai domani, Solo il

bene può guarire l’uomo. Il bene salva tutto. Bene più bene, uguale bene. Male più male, uguale

male.

– Ma come faccio, io? – lamentò il ragazzo, indicando il bambino. – Che cosa dirò a mio padre, se

non glielo riporto a casa?

– Sei adulto, ormai. Tira fuori il coraggio, puoi decidere la tua strada. E l’unica strada è il bene.

– Ma non so fare nulla … .

– Imparerai, come tutti quelli che hanno deciso di essere grandi. Imparerai e cambierai il tuo

destino.

– E io? – chiese il bambino emozionato.

Shakira lo accarezzò teneramente, come una mamma.

– Per tutto quello che hai patito, sei già grande. E io ti dono la libertà di scegliere come un adulto.

Illuminò l’indice e lo trasformò in un elegante adolescente. Il pastorello si guardò incredulo.

Superava di una spanna il figlio del pastore ed era vestito di tutto punto. Persino i suoi capelli, al

tatto, erano morbidi come la pelliccia dei coniglietti.

– Uhauuu! – esclamò. – Sono sempre io? Hallo? Je suis? Uhauuu, parlo anche inglese… e francese

… e so tutto … la storia, la geografia … Sì, so di sapere, sono intelligente!

– Sì tesoro, sei istruito. Ed ora, con la tua cultura potrai occupare anche tu un posto nel mondo da

uomo libero. Ah, dimenticavo!

Tirò fuori dalle mani tre fogli perfettamente conservati.

– Questa è la tua carta d’identità, questo … il nome della banca dove è depositato il denaro che ti

servirà per le spese e questa … una lettera di presentazione per l’Università che sceglierai.

– Università? – Il ragazzo impallidì. – Co … come faccio a scegliere? Non so niente di scuola …

– Oh non è così difficile, – rispose la maga alzando le spalle. – Segui solo il tuo cuore, vedrai che

arriverai a quella giusta. Ah, a proposito … c’è una pensione nei dintorni di Roma, si chiama???….

Ah sì, Casa dello Studente! Là chiederai della signora Eleonora, una vecchiaccia brontolona. Si

prenderà cura di te come una mamma, vedrai.

– Ma tu come fai a conoscerla?

– Ragazzo, le strade della magia sono infinite. Ma ricorda! Non fare mai del male, sennò ogni cosa,

così come ti è stata data, ti sarà tolta. Impegnati nel bene e avrai una vita ricca di amore e

soddisfazioni.

– E io che devo fare? – lamentò il pastore colto all’improvviso da una forte invidia.

Shakira gli rispose con estrema dolcezza.

– Purtroppo il male che hai fatto non mi ha permesso di darti altro, ma solo di aprirti il cuore al

bene. Il resto te lo dovrai conquistare da solo, perché ora conosci la verità. Ma … aspetta …

Mosse la mano e un’altra lettera comparve nelle sue mani.

– Anche per te c’è una lettera di presentazione. Vediamo!? – La lesse velocemente.

– Sì, Liceo Classico! Perfetto, così impari il significato di onore, educazione ecc …. Ecco, puoi

presentarti lì!

– Ma non so né leggere né scrivere, non so nulla di scuola!?

– Beh, imparerai! Così come hai imparato a coltivare, imparerai la scuola. Ma attento, se sprechi

questa opportunità ritornerai ad essere un poveraccio come ora, condannato a vivere la vita di tuo

padre.

– Ma tu … lei.. pensa che io ce la farò a studiare? Io studiare!!!???

– Volere è potere! – rispose Shakira, tirando fuori una banconota. – Questa ti servirà per cambiarti

d’abito quando ti presenterai. Ah, c’è un’ultima cosa.

– E cioè? – esclamarono i due ragazzi allibiti.

– Prima di andarvene dovrete abbracciarvi, perdonarvi e volervi bene, affinché il male non vi

perseguiti.

I due, ormai coetanei, si guardarono con diffidenza, poi si avvicinarono riluttanti, facendo piccole

smorfie. Infine si abbracciarono. E come d’incanto, ogni rancore sparì dal loro cuore e là dove

prima c’era l’odio, ora trionfava l’amore.

– Grazie per quello che hai fatto! – disse Costantino con le lacrime agli occhi. – Sei una fata

splendida. Ed io che non credevo alle fate! Ma cosa abbiamo fatto noi per meritarci tutto questo?

– Ah, non dire così: se mi avete incontrata è perché eravate già pronti al cambiamento.

– Grazie! – aggiunse di cuore il pastore. – Non dimenticherò mai questo giorno.

Tentò di abbracciarla, ma in quell’attimo si ritrovò di fronte la vecchietta di poco prima.

– Eh?!

– Ehhh! Purtroppo anch’io ho un destino! – si giustificò Shakira imbarazzata, riassestandosi le vesti

sgualcite. – Ma non fateci caso: è solo apparenza. Dentro, – e si toccò il cuore, – è tutto vero.

Li salutò e si allontanò con il suo pappagallo parlante, seguita dallo sguardo meravigliato dei due

giovani.

La regina era euforica. Aveva ancora molto lavoro da svolgere sulla Terra e non poteva perdere

neanche un minuto. Papjgal era al settimo cielo. La sua signora aveva iniziato la missione e non si

lasciava più prendere dallo sconforto.

– Ben fatto, mia regina! Ben fatto! – gracchiò, svolazzandole intorno. – Rimarranno incantati sulla

Stella quando sapranno.

Lei lo zittì sollevando il bastone.

– Taci, Papjgal! Possibile che devi sempre urlare? Non lo sai che mi fanno male le orecchie?

Piuttosto indicami la strada. Sono così stanca! Dobbiamo percorrere in lungo e in largo la Terra e

chissà quanto tempo ci vorrà.

– Forse è la tua età che ti stanca così, mia signora.

– Può darsi. Ma hai visto com’erano diversi da me quei due ragazzi? Chissà se ci sono vecchie come

me, sulla Terra! Quanti anni avrò, mio fedele?

– Secondo la mia millenaria esperienza. . ., hmm… non credo meno di. . . cinquemila anni! Se l’età

funziona come da noi, ovviamente.

– Sì, lo credo anch’io, Papjgal. Devo avere cinquemila anni, non di più. Al massimo cinquemiladue

o tre, ma non di più.

Poi alzò il bastone minacciosa, ghignando terribilmente e il pappagallo fece uno scarto all’indietro

per la paura.

– E allora sta attento! – urlò. – Potrei superare la tua millenaria esperienza con la mia età!!! – E menò

colpi a destra e a manca colpendo l’aria con incredibile energia.

– Ah ah ah! – rise. – A momenti te la facevi sotto dalla paura, eh, vecchio cornacchione? Ah ah ah!

Papjgal, offeso, si mise a distanza di sicurezza. – Ma non avevi detto di essere stanca, mia regina?

– Sì, mio fedele. Ma è il bene che mi dà tutta questa carica. Sono quasi felice. Mi credi?

– Come no?! D’ora in poi saprò come regolarmi quando sei così felice, mia regina!