ALFREDO NULLI E LA PROBABILITA’

Alfredo Nulli ha insegnato analisi matematica all’Università di Camerino, nel corso di laurea in Chimica. Agli esami è sempre stato molto severo ed esigente, attirandosi sentimenti vicini all’odio da parte degli studenti. Ora è un uomo segaligno sui 70, capelli grigi a spazzola e occhi azzurri raggelanti, la durezza dei quali è accentuata dagli antiquati occhiali a pince-nez che mette quando legge. Quando si sedeva davanti a lui, un esaminando doveva provare la stessa sensazione di un topo in trappola di fronte allo sguardo gelido di un grosso gatto. Alfredo ama poco parlare di sé; solo la buona cena preparata dalla moglie di Romano, nostro comune amico, e diversi bicchieri di un ottimo verdicchio prodotto nella zona di Camerino riescono a sciogliere la sua lingua:
– Fin da piccolo sono stato affascinato dal mondo dei numeri. La matematica è pura Filosofia e alcune espressioni matematiche sono molto vicine alla Poesia. Il mio cognome in qualche modo mi ha segnato. Semanticamente Nulli è il plurale di nullo, zero. Vale a dire sempre zero, comunque lo si moltiplichi per un numero finito. Per molto tempo gli antichi Romani hanno girato attorno al concetto di zero, che non è un vero numero ma un insieme vuoto. Mi seguite? …
Schiarisco la voce e timidamente accenno uno stentato sì. Il nostro comune amico mi ha parlato di Alfredo e delle sue vicende familiari. Quando aveva tre anni suo padre, un medico affermato di idee socialiste, era stato condannato, innocente, per l’omicidio del cognato. All’epoca si era trattato di un fatto di rilevanza nazionale, sul quale si erano buttati a pesce molti giornali. Un quotidiano cattolico, in particolare, aveva intinto il biscottino nella oscura e controversa vicenda, che coinvolgeva un “radicale socialista senza Dio”: uscivano tre edizioni al giorno per aggiornare i lettori sui particolari del delitto, perpetrato con un veleno, il curaro, e sugli sviluppi dell’indagine; era già bello e pronto un autentico feuilleton, al quale far appassionare i lettori. Alfredo aveva contratto un’irresistibile repulsione per la medicina e la chimica, che inconsciamente riteneva responsabili della rovina della famiglia: suo padre era medico e l’arma del delitto una sostanza chimica naturale, iniettata con una siringa. Sentendosi portato per gli studi scientifici, la scelta di Alfredo era stata la Matematica.
– Matematica e Filosofia – abbozzo – sono accomunate dal ragionamento scientifico e dalla costruzione di teorie e di strumenti per spiegare la realtà …
– Giusto. E perché dico che è anche Poesia, quella con la p maiuscola? Ve lo spiego subito – ormai Alfredo ha preso il via e adesso chi lo ferma è bravo -. Avete mai osservato con attenzione le onde del mare che giungono a riva su una spiaggia? Il movimento dell’acqua disegna curve bellissime che è possibile descrivere matematicamente con l’espressione delle catenarie, le stesse curve che si generano quando si agita una catena appesa ai punti estremi. Non lo trovate poetico? E le nuvole? Quante forme possono avere le nuvole, per di più mutandole continuamente, sottoposte come sono ai vettori del vento? Eppure qualsiasi sia la loro forma è possibile ridisegnarle quasi perfettamente con i frattali: in pratica è quello che fa una comune macchina fotografica digitale; la retina dell’occhio invece opera in modo analogico. Personalmente trovo le nuvole e i frattali che le descrivono molto poetici. Prendiamo una cosa apparentemente prosaica, come un coltello che affetta cipolle o zucchine: il processo con i piccoli incrementi assomiglia all’operazione di derivata. Se i tagli sono ben fatti ed equidistanti, un piccolo miracolo si compie: finché teniamo ferma ai due lati la cipolla, abbiamo l’integrale dell’ortaggio, appena liberiamo le fettine, ecco la derivata necessaria per un ottimo e sublime soffritto. Se questa non è Poesia … Tutto chiaro?
– Non proprio, però è affascinante interpretare onde e nuvole come poetici fenomeni matematici – interviene Chiara, la moglie di Romano -. E poi mi piace sapere che quando cucino faccio qualcosa di così complicato, pur essendo completamente negata per la Matematica.
– E io mi inchino a questa sapienza femminile: complimenti per la cena – continua Alfredo -. E’ noto che la Musica e le Arti figurative sono traducibili in espressioni matematiche. Prendiamo le funzioni matematiche: aprono riflessioni e panorami insospettati. Ad esempio le funzioni discontinue possono esistere solo in campi limitati: appaiono e scompaiono nella realtà matematica come un fiume carsico. Se un uomo avesse una vita a funzione discontinua, potrebbe attraversare epoche diverse; trovarsi ad esempio a nascere nell’epoca dei faraoni, poi dopo millenni a vivere la maturità attorno all’anno 1000 e infine la vecchiaia ai nostri giorni.
– Una specie di Highlander – interviene Romano.
– Non proprio così. Highlander nasce a un certo momento e da allora è immortale: una funzione discontinua inesistente prima della nascita dell’ipotetico uomo e che si prolunga poi all’infinito …
Fatico un po’ a seguire i ragionamenti di Alfredo; oltre la teoria degli errori, che ricorreva in diversi esami ricordo poco la Matematica dell’Università; mi affretto a prevenire il monologo poco comprensibile che si profila, ponendo una domanda:
– Mi piace il modo in cui ha reso accessibili con esempi quotidiani i concetti di derivata e di integrale. Personalmente non sono mai riuscito ad afferrare bene la teoria di Heisenberg, il principio di indeterminazione, secondo il quale la probabilità di trovare un elettrone all’interno dell’atomo, vale a dire nella nuvola elettronica, è massima sul nucleo. Ma se l’elettrone è sul nucleo, si annichila.
Alfredo sorride e metaforicamente mi bacchetta sulle mani:
– E’ solo una costruzione, un artificio. Si spiega il probabile con l’impossibile, o viceversa. L’elettrone non esce dal guscio atomico: in una nuvola elettronica sferica, la probabilità di trovarlo a distanza superiore al raggio atomico è zero e cresce progressivamente fino ad arrivare al 100% di probabilità sul nucleo. E’ chiaro?
– Non molto.
– Le spiego con un aneddoto, un episodio della vita di un mio amico, Giorgio. Eravamo studenti e Giorgio preparava da tempo una tesi sul calcolo probabilistico; era quasi diventata un’ossessione. Per lui il verificarsi di ogni evento era da ricondurre alla probabilità; eseguiva su tutte le cose un numero impressionante di congetture e di calcoli: “Oggi – diceva – alla mensa universitaria come primo piatto troveremo pasta e fagioli o gnocchi al sugo. Scommettiamo?”. Puntuale: c’era pasta e fagioli, o in subordine quantità più limitate di gnocchi. Alla richiesta di spiegarmi come aveva fatto, rispondeva solo con un sorrisino soddisfatto ed enigmatico. Ovviamente mi guardavo bene dallo scommettere con lui. Una volta, all’inizio di carnevale, in un gelido pomeriggio pieno di neve, per sfuggire al freddo implacabile delle nostre stanze in affitto, siamo andati a ballare in uno dei circoli cittadini. Per un giorno niente studio, con qualche rimorso per gli esami imminenti; potevamo conoscere qualche ragazza e far flanella. Fare sesso all’epoca era impensabile nel piccolo centro: tanti occhi ti vedevano, tante bocche facevano chiacchiere. A me andò bene: una studentessa di farmacia rotondetta fece quasi coppia fissa con me, permettendomi furtive carezze e qualche bacio. Giorgio si invaghì della più carina, una di fuori, scortata dalla madre, una dama sussiegosa e attenta come un rapace. Ogni invito di Giorgio andava a vuoto: qualcuno aveva già prenotato il ballo successivo; non rimaneva che ripiegare a malincuore su qualche ragazza bruttina che faceva tappezzeria, senza azzardare alcuna advance, che pure sarebbe stata ben accetta. Non riuscì mai, quella sera, a ballare con la sconosciuta, alla quale però doveva essere risultato gradito. “ Mi trova simpatico – aveva detto al termine della serata infruttuosa -; l’ho capito da come mi guardava …”. “Perché non ci hai parlato?”. “Aveva sempre troppa gente attorno; e quella implacabile madre …”. “Non sai né il nome, né dove abita? Come fai a ritrovarla?”. Mi ero già accorto, infatti, che la faccenda pareva seria. “Non so niente. Ma la incontrerò di nuovo. Basta che mi ci metto …”. Bene, per farla breve, applicò appunto il principio di indeterminazione di Heisenberg cercandola per ogni dove nel piccolo centro e nei paesi limitrofi, ma lasciando perdere l’occasione più ovvia che si presentò il sabato successivo: un veglione nel medesimo circolo. Io ci andai: la ragazza, inarrivabile anche questa seconda volta, c’era. Giorgio optò per un altro circolo, frequentato dalla ricca borghesia e più costoso. Quando glielo dissi, si rabbuiò. “E’ come l’elettrone sul nucleo – disse tra sé e sé -, non può essere. Mi prendi in giro.”. “Ti dico che c’era.”. Nei mesi successivi Giorgio passò tutto il suo tempo libero alla ricerca della ragazza, sempre facendo innumerevoli calcoli sui pochi elementi che aveva. A luglio si laureò e tornò alla sua città natale. Anni dopo Giorgio si era sposato e aveva tre figli. All’uscita del lavoro nella sua città si imbatté nella donna, sola, davanti a un ristorante. La figura di lei era appena appesantita, ma gli occhi e il modo di sorridere erano gli stessi. Dopo una serie di lunghi sguardi Giorgio aveva trovato il coraggio di tornare indietro per presentarsi: era proprio lei. Sposata con tre figlie femmine, abitava nella stessa città, neanche tanto distante da casa di Giorgio. Il fatto che lei si ricordasse di lui, confermò che qualcosa in quel gelido pomeriggio di carnevale era scoccato tra loro. La percentuale del 99 virgola nove periodico non è mai 100, anche se questo è il limite a cui tende la funzione probabilità. Manca sempre un epsilon piccolo a piacere …
Alfredo finisce il bicchiere di vino, lasciandoci appesi ad attendere il seguito della storia.
– E poi? – azzarda alla fine Chiara, completamente catturata dal racconto.
– E poi niente. Non c’è stato nessun seguito. Giorgio ha smesso di credere nella potenza del calcolo delle probabilità. Qualche volta anche la Matematica fallisce, perché si è trascurato un fattore nel problema.

Qualche giorno dopo la cena incontro Romano e Chiara e mi complimento di nuovo per la bella serata passata a casa loro. Alfredo era stato una scoperta: un po’ astruso, ma divertente.
– E’ vero – mi risponde Romano -. Anche io lo trovo sempre molto stimolante. A proposito: conosco abbastanza Alfredo per poter dire, sempre a meno di un epsilon piccolo a piacere, che Giorgio, l’amico di Alfredo, non esiste. E’ matematico: Alfredo raccontava la sua storia.


DARIO Silver BELLO

Dario Bello, detto Silver, per la sua passione per collanine, catenine, medaglioni, anelli di argento, è un vispo sessantaduenne, che in vita sua ha fatto cento mestieri, nessuno tanto remunerativo da dargli una sicurezza del domani, ma neanche tanto male da fargli mancare vitto e alloggio. E’ un single di ferro. La sua dote migliore è l’intuito. Riesce subito a ricavare da chi incontra qualcosa che gli sarà utile subito o in seguito. Assomiglia un po’ a quella ragazza, personaggio di un film di Nanni Moretti, che alla domanda “Cosa fai nella vita?” risponde “Mi muovo, vado in giro, vedo gente … “.
– Soprannomi ne ho avuti tanti – racconta a me e a mia moglie, sprofondando il corpo ossuto e minuto nel divano di casa mia; in mano ha il bicchiere di grappa, e si liscia soddisfatto la pancia arrotondata dall’ottima cena – : alle medie mi chiamavano Johnny Teschio, un personaggio dei fumetti tutto pelle e ossa. E poi nella compagnia, dopo l’uscita del film ‘Il buono, il brutto e il cattivo’, mi chiamavano il Brutto. Non avevano tutti i torti, ero proprio brutto, a dispetto del cognome. E poi finalmente Silver, sai, per la mia mania degli oggetti di argento. Però Giulio er Pantera, te lo ricordi?, diceva che Silver mi stava proprio bene, perché mi chiamavo Dario e somigliavo al regista Dario Argento. Anche il regista era così brutto che non si poteva guardare due volte …
– Me lo ricordo. E’ vero; una certa somiglianza col regista c’è tuttora.
– E’ per come porto i capelli: a secchiata d’acqua. E poi ho i denti aguzzi come lui e il viso scarno. Tanti anni fa ho avuto un’avventura che sembra proprio un film di Dario Argento. Avevo anche pensato di scrivere una traccia per un soggetto cinematografico da proporre proprio a lui. Ma poi non ne è uscito niente. Non so scrivere.
– Che avventura? – chiede mia moglie Carla, incuriosita da Silver, che ha appena conosciuto.
– E’ una storia un po’ sconclusionata, anche perché il ricordo a tratti è confuso. Mi rollavo almeno una canna al giorno all’epoca. Se avevo i soldi per procurarmela, s’intende. Era il ’68 e avevo convinto i miei a mandarmi a Londra una intera estate. La versione ufficiale era che andavo lì per imparare bene l’inglese; ma quello che mi attirava là era la swingin’ London. Le ragazze, il fumo, la libertà. A sedici anni cosa si può desiderare di più?
– Non sapevo che sei stato a Londra. Ma i tuoi ti hanno dato i soldi per stare là tre mesi? – gli chiedo.
– Seeee! Mi hanno dato i soldi del viaggio e poi lì ho lavorato. Lavapiatti a Soho in un ristorante indiano, venditore ambulante di collanine, cameriere in un caffè italiano, all’inizio addetto solo al lavaggio di tazzine e piattini, e poi promosso a banchista perché sapevo far funzionare bene la macchina del caffè. E poi ho rassettato letti e camere nel bed & breakfast dove abitavo, a Waterloo.
– Ma se lavoravi tutto il tempo, non avevi tante possibilità di girare per la città.
– Macché. Tu sai che dormo pochissimo, sempre un’ora o due ogni tanto durante il giorno, ma la notte sto sempre ad occhi aperti. E allora vado in giro.
– Perché non dormi mai la notte? – chiede Carla, senza rendersi conto di aver toccato un tasto delicato.
– Dario – le spiego, un po’ imbarazzato – ha avuto una brutta storia da bambino. Una sera d’estate è scoppiato un nubifragio in città. Una ridda di tuoni e fulmini che sembrava un fuoco d’artificio. Alle 10 con una scusa inventata è piombato in casa di Dario un tizio fuori di testa, un amico dei suoi genitori: ha immobilizzato padre e madre e lo ha rapito. –
Conoscevo la storia, perché Dario me l’aveva raccontata diverse volte, con grande dovizia di particolari.
– Oh, quel tipo non mi ha fatto nulla! Mi ha riportato a casa dopo un’ora, in stato confusionale. Ripeteva a mio padre e a mia madre: “Scusatemi, scusatemi, ho flippato …”.
– E che vuol dire? – chiede Carla.
– Ma, niente: che era uscito di testa. Aveva una scimmia sulla spalla da paura: Era sempre strafatto. Non è stato denunciato. Ma da quel giorno non ha messo più piede in casa nostra. E io non riesco più a dormire la notte, a meno che non ci sia qualcuno vicino a me di cui mi fido ciecamente.
– E i tuoi, con quella brutta storia passata, hanno avuto il coraggio di mandarti da solo a Londra, quando avevi appena sedici anni?
– Avevo dato loro prova di saper badare a me stesso. Si fidavano di me.
– Scusa, Carla – faccio io -, non interrompere Dario, se no non riesce a raccontarci la sua avventura.
Dario sprofonda un po’ di più nel divano, si schiarisce la voce, guarda il suo bicchiere vuoto e dà una sbirciata alla bottiglia di grappa. Metto la bottiglia sul tavolino davanti a lui, che si versa subito una dose generosa di liquido incolore. Finalmente riprende:
– Allora dove eravamo rimasti? Ah, ecco: è quasi fine agosto. A fine mese devo tornare a casa. E’ già cominciato l’autunno. Sempre più spesso piove a lungo e le giornate con quelle nuvole nere sembrano cortissime. Inutile dire che sono entrato in uno stato di tensione. Quasi non tocco il letto al bed & breakfast. Tanto so che mi sveglierò appena cala il buio. – Dario trangugia un sorso di grappa, lasciandoci appesi al suo racconto con una lunga pausa
– E poi?
– E poi la sera comincio a prendere un autobus, una circolare che fa un giro lunghissimo toccando diversi quartieri periferici di Londra. Ogni tanto sonnecchio sui sedili, per tempi che mi sembrano lunghissimi, ma che non devono durare più di uno o due minuti. Dopo diversi giorni passati su quel bus che si prende al volo, di corsa, scendendo al volo quando rallenta, comincio a fissare alcuni punti di riferimento: una casa di colore particolare, un negozio, un’insegna, un lampione … Misuro il tempo che ci vuole per quel certo ponticello o per quella determinata salita. Una sera, al termine di uno di quei pisolini brevissimi, mi trovo seduto accanto un signore sui 50 anni, con l’impermeabile tutto bagnato, con tanto di bombetta in testa e un grande ombrello gocciolante in mano. Mi chiede se sono stanco. Lì per lì non capisco. Con gentilezza ripete la domanda parlando lentamente. “Sì, sono stanco; ho lavorato tutto il giorno” gli rispondo, tacendo il fatto che avevo fumato un bel po’ di marijuana poche ore prima. “Hai mangiato? Hai fame?” mi chiede. “Ho mangiato, ma l’appetito non manca mai.” rispondo. “E allora, dai, scendi con me tra due fermate, ti invito a cena. Ti piace la carne?”. “Caspita, se mi piace! Ne vado matto. Adoro il roast beef.”. Quando scendiamo il temporale aumenta di intensità. Mr. John Frankill, così si era presentato, apre l’enorme ombrello che ci ripara tutti e due. Non mi disturba tanto la pioggia, quanto i tuoni e i lampi che per due minuti si susseguono quasi ininterrotti. Svoltiamo diverse stradine in quel quartiere anonimo e perdo completamente il senso dell’orientamento. Tiro un sospiro di sollievo quando nelle mani di John appaiono le chiavi di casa. Siamo di fronte al portoncino di una casetta bassa a un piano incastrata tra altre due a due piani. “Ecco, siamo arrivati”. Nel vestibolo c’è un attaccapanni con due impermeabili identici a quello indossato da John: di colore nocciola con la cinta. John appende impermeabile e bombetta, infilando l’ombrello in una grossa giara, a fianco della quale c’è una pila di grossi barattoli di latta senza nessuna etichetta. “Togliti le cose bagnate, ti trovo qualcosa di asciutto da mettere. Sei più o meno della mia taglia.”. Solo allora mi accorgo che John è magro come me e piccolo di statura. Sull’autobus mi era sembrato molto più alto; ma forse dipende dal fatto che sta sempre così impettito. Mi sfilo la camicia bagnata e sto decidendo se è il caso che mi tolga anche i jeans inzuppati e resi rigidi dalla pioggia; mi incuriosisce il fatto che c’è un televisore nell’ingresso, cosa piuttosto insolita e incongrua. John torna con una camicia a quadretti blu e verdi e un paio di jeans scoloriti. Me li dà e gli sono grato perché nota il mio imbarazzo; mi volta le spalle mentre mi cambio, dicendo che va a preparare qualcosa. Chiedendomi ancora come mai c’è un televisore nell’ingresso, entro nella sala varcando una porta a vetri; l’arredamento è ridotto ai minimi termini: un lungo tavolo, con due sole sedie ai capi, un mobile basso e lungo a destra con un televisore sopra e sette o otto pile di scatole di latta identiche a quelle viste nell’ingresso, un solo lampadario di vetro a sei lampade, nessun quadro alle pareti. Mentre John mi dice che non beve vino, ma ha un’ottima birra, la Guinness, la mia preferita, scoppia un tuono fortissimo e va via la luce. In una frazione di secondo il buio improvviso, come mi capita sempre, mi scatena il panico. Dopo un tempo che mi sembra interminabile, ma non dura più di pochi secondi, John riappare sorridente con una candela in mano. Torna subito la luce e lui soffia sulla fiamma; si scusa dicendo che in quel quartiere le interruzioni di corrente sono frequenti durante i temporali. “Per questo ho sempre un’infinità di candele a portata di mano.”. Ride soddisfatto e sembra quasi un ragazzino che ha trovato il giusto compagno di giochi. Eppure deve essere sui 50, mi dico, avrò pescato un buon samaritano?
“Vieni, ti mostro la casa”. Non c’è molto da vedere. Una camera da letto disadorna, con un letto a una piazza e mezza, un solo comodino e un armadio, e poi l’immancabile televisore su una specie di trespolo tra la porta e la finestra che si deve affacciare sul retro. Un bagno minuscolo con la doccia e i sanitari; qui il televisore non c’è. Una ampia cucina con un enorme tavolo con il piano di marmo sormontato da una panoplia con almeno trenta coltelli e arnesi da far invidia al negozio di un macellaio. La macchina del gas è in fondo davanti all’acquaio. Davanti al tavolo una grossa credenza a fianco della quale c’è una sedia con sopra …
– Un televisore! – azzardo.
– Proprio così. E lì a fianco, a terra diverse pile di grosse scatole di latta. Qua e là candele, intere e a mozziconi, e varie scatole di fiammiferi. Niente altro. C’è pure un frigorifero, è vero, ma non vedo traccia di frutta, verdura o pentole e padelle che in genere gremiscono le cucine degne di questo nome. “Ok, mi dice, vai pure di là a vedere la Tv, che io mi organizzo.”. Torno nella sala e accendo il televisore; mi siedo sulla sedia più lontana, perché lo schermo qui nella sala è molto grande e stare troppo vicino mi dà fastidio alla vista. Sto sempre a una certa distanza da tutti i televisori, che mi ispirano una certa diffidenza. Non riesco a vedere mai un film intero alla televisione. Mi piace troppo il cinema, nonostante il buio in sala. A un certo punto il televisore fa le bizze e mi alzo dalla sedia per regolarlo. Deve essere colpa del temporale, mi dico. John torna nella sala con una scatola di latta aperta in mano. La poggia sul tavolo e con un coltello tira fuori dalla scatola di latta una massa vischiosa rosso scuro. “E’ fegato, mi dice, ti piace?”. In quel momento come un lampo mi appare il titolo di un giornale del pomeriggio appeso all’edicola di fronte al mio alloggio: Ancora senza soluzione il mistero del giovane ritrovato a Regent’s Park; l’assassino ha asportato il fegato del cadavere. L’omicida ‘rituale’ colpisce per la terza volta in agosto.
Ci guardiamo negli occhi un lunghissimo istante mentre sento che i capelli e i peli in tutto il corpo mi si drizzano. John appoggia la scatola al tavolo e farfuglia qualcosa come: “No, che hai capito? Non avere …”. “… paura?” grido io. Sono terrorizzato da quel lungo coltello scintillante e dall’aria bonaria di John, che fa per avvicinarsi. L’esplosione del tuono è terrificante: il fulmine deve essere caduto proprio qui sopra. La luce sparisce e rimaniamo al buio. Con la testa che mi ronza, assordato, urto contro il tavolo, travolgo la sedia, cado, mi rialzo, sbatto contro la porta a vetri, mentre John mi grida dietro: “Ma che fai? Aspetta …”. Sono già nella strada buia e corro sotto la pioggia furiosa. Mi volto un solo momento in fondo alla strada, appena torna la luce: John è sulla soglia di casa. Il coltello che ha in mano brilla alla luce dei lampioni della strada.
Dario interrompe il suo racconto. O forse è già finito.
– E poi?
– E poi niente. Ci ho messo un’ora a trovare una strada che conoscevo. Passava la solita circolare e l’ho presa.
– Ma non hai fatto niente? – chiedo – Non sei andato alla polizia?
– A che sarebbe servito? Ho cercato sull’elenco telefonico: non figurava nessun John Frankill. Poteva essere un nome inventato. E quel kill alla fine non prometteva niente di buono. Non ricordo nemmeno se ho visto un telefono in casa. Mi pare di sì: doveva essere appoggiato su una delle scatole di latta della sala. Non ricordavo la strada. La casa di giorno non l’avrei riconosciuta neanche se ci avessi sbattuto il naso contro. Anonima in un quartiere anonimo. Tutte a mattoncini rossi. Lampioni tutti uguali. E poi? Che prova avevo che non volesse cucinare per cena fegato di maiale?
– Non hai più preso la circolare?
– No. Ho passato le nottate seguenti al cinema, nei bar e camminando.
– Ma come mai ti sei fidato di quel tipo? – chiede Carla, alla quale devono quadrare tutti i particolari di ogni storia – Proprio tu, che mi sembri piuttosto diffidente.
– No, io mi fido; mi fido del mio istinto, che non sbaglia quasi mai.
– Ma c’è un quasi che può rivelarsi un grosso rischio. – insiste Carla.
– E’ vero, ma se non faccio così non campo più. Devo smettere di parlare con chi non conosco? Il mondo così diventa piccolo e monotono.
– E tutti quei televisori. Non potevano essere un indizio di una mente disturbata? All’epoca nelle case c’era solo un apparecchio. – osservo io.
– Sì … non so. Ma non è stato quello che mi ha colpito di più. Mi angosciavano tutte quelle scatole di latta. Erano piene di cosa?
– Lascia perdere – gli dico -. Di noi ti puoi fidare. Se vuoi dormire qui, ti prepariamo il divano.
– No, grazie. Non ho sonno. Per niente.
Dario sbadiglia, si stira, si alza in piedi: – Adesso vi ringrazio per la bella cena e vi saluto.


GIOSUE’ E IL RUMORE DEL SILENZIO

Non avevo intenzione di raccontare la storia di Giosuè, perché è una storia che mi fa stare male. E può fare male leggendo il racconto. Ma se di Giosuè non si racconta, è un po’ come farlo morire e seppellire senza una lapide, un ricordo.
Lo incontro sul treno metropolitano tra Fara Sabina e Fiumicino. E’ con un’amica, Clara, un donnone sui 30 anni, obesa e con penetranti occhi verdi che luccicano dietro spesse lenti con montatura di metallo dorato. Colpisce subito, a contrasto, la magrezza impressionante di Giosuè. Mentre si siede davanti a me le sue gambe impacciate mi urtano. Si profonde in scuse. Ha folti capelli neri con appena uno spruzzo di grigio. Non deve superare i 40. Chiacchierano tra loro, ignari in apparenza alla mia presenza e a quella di una biondina nel quarto sedile. Clara tira fuori con premura una sigaretta da un borsello, porgendola a Giosuè:
– E’ la sigaretta rimasta dall’altra volta.
– Grazie, Clara. Non me la ricordavo più.
L’uomo la ripone in un pacchetto semivuoto di Marlboro bianche. E’ visibilmente nervoso. Mi urta di nuovo con le ginocchia ossute e si scusa ancora. Scuoto la testa. Fatica nel controllo di gambe e piedi, come se fossero trampoli di fenicottero. Sono molto più oppresso dalla mole di Clara alla mia sinistra che deborda dal suo sedile. Mentre sfila il paesaggio dal finestrino, Giosuè fa strani movimenti con il collo, oscillando la testa in avanti e indietro; spalanca e richiude la bocca mostrando una dentatura così perfetta che sembra finta, e forse lo è. Mi viene da pensare a un cavallo; o meglio ad un cavallo antropomorfo. Avete presente Orazio, l’amico di Topolino, fidanzato chissà perché con Clarabella, che poi è una mucca?
– E poi almeno ho un posto mio, no? – dice Giosuè. – Non sarà una vera casa, ma almeno posso stare da solo, lì. E’ isolato, quasi in campagna, ma c’è una bella vista: c’è un panorama bellissimo con tanto verde. Sai? Ho pensato una furbata: vado da Piero, prendo lo zaino e un maglione e li lascio là. Intanto occupo lo spazio e poi si vede.
– Ma sì, è giusto. Ma il padrone ti ha detto che non vuole che ci dormi?
– Ha detto di no. Ma non può cacciarmi: non ho firmato niente; nel contratto di affitto non si parla di questo.
– Allora ?…
– Allora faccio come dico io. I 150 euro al mese glieli do, no?
Clara tira fuori dalla borsa un sacchetto per alimentari: sbucano due pezzi unti di pizza al pomodoro. Ne porge uno a Giosuè, che lo prende in mano con attenzione, e subito esclama:
– Oddio!
– Che c’è?
– Niente – si scusa imbarazzato-, credevo di aver macchiato i pantaloni.
– Ma no, sono puliti.
– Con i jeans è più semplice lavarli. Ma se mi sporco questi …
In effetti anche quelli che indossa sembrano jeans, solo di colore grigio.
– Tu, Clara, come fai per lavare le tue cose?
– E’ semplice. Metto la biancheria, ma anche maglie e gonne, nel lavandino col detersivo per un po’ e poi la sciacquo.
– Farò così anch’io. Il lavandino non c’è, ma prendo un catino. E per stendere i panni? Be’, posso comprare uno stendino al supermercato e lo metto fuori. Se piove c’è pure la tettoia.
La mia attenzione viene catturata per un momento da un ragazzo di colore che nei sedili lì accanto è crollato nel sonno. Sembra il cristo di una Deposizione del ‘400: ha la bocca semiaperta. Tiro subito fuori la macchina fotografica compatta dal mio zaino. Cinque, sei scatti, senza regolare quasi nulla. Clara sbircia le foto sul display, mentre controllo il risultato.
– E’ un fotografo, lei? – mi chiede Giosuè, uscendo dalla ideale bolla che racchiudeva lui e la sua amica.
Abbozzo un sorriso.
– No. Lo faccio solo per divertimento personale. Quando qualcosa mi colpisce, scatto.
– E qui che cosa la colpiva?
– Ma … un po’ tutta la situazione. Quel ragazzo che dorme … ecco cerco di immaginare che cosa fa, dove va, perché si è addormentato di colpo. Magari ha lavorato tutto il giorno e adesso è stanco. E’ tutto vestito a festa; forse ha un appuntamento con gli amici o con una ragazza. Intanto dorme per recuperare un po’ di energie. Io sono curioso di tutto e di tutti.
– Ho capito.
– Sono curioso delle storie … – non trovo le parole per chiedergli direttamente che cerco di capire la sua attuale situazione; una mezza idea sul fatto che non ha casa e si arrangerà in una specie di garage già ce l’ho, ma non conosco le traiettorie passate e future della sua vita. – Ecco: ognuno si porta dietro una storia, che spesso è indecifrabile, ma a volte è scritta chiaramente sul volto, negli atteggiamenti, nelle parole che si dicono.
– Ah, per me è presto detto. Faccio lavori di parrucchieria. O meglio, facevo …
– E adesso che fai? – mi dico “Ci siamo!”.
– Ho pensato che … Ho delle Barbie … Sa, quelle bambole che andavano una volta, e vanno ancora. Ne ho una ventina, perché un mio amico le collezionava; si è stancato di averle per casa, o non so se lui o sua moglie, e me le ha regalate. Me le porto in Piazza Venezia, le metto su un tappeto e le vendo.
– Buona idea. Piaceranno di sicuro a molte signore di una certa età, che le avevano da bambine e poi le hanno perse. Ma poi, vendute le bambole che farai?
– Non lo so. Magari provo a tornare da un amico parrucchiere. Con lui ho litigato, ma forse posso farci pace. Se gli chiedo scusa, mi riprende nel suo negozio. E’ un bonaccione …
Lo sguardo di Giosuè si perde fuori del finestrino, tra città periferica e campagna.
– Vede? – riprende a dire – Ho avuto tante disgrazie, una appresso all’altra. Quando cominciano … Mia madre si è rotta il femore ed è stata a letto tre mesi. Io ho dovuto assisterla tutto il tempo e ho perso il lavoro. Campavamo con la sua pensione di 580 euro. Io mi sono ammalato: non mangiavo più. Lo sa quanto peso adesso? 48 chili! E poi è morta mia madre. E ho dovuto pagare una tombola per il funerale. E non avevo i soldi per le medicine e per pagare le bollette. Neanche più la pensione di mia madre che ci aiutava a campare nella casa di proprietà … almeno quella … E poi: luce, acqua, gas … quei contatori corrono, lo sa?, e per assistere mia madre a letto di acqua calda ne andava via tanta. Anche per cucinare e fare di continuo bucati. Dovevo cambiarle il letto ogni due giorni e lei la cambiavo tutti i giorni. Ho staccato subito il telefono. Ma per il resto? Ho dovuto vendere casa e si sono approfittati. Tutti adesso a darmi addosso: “Non dovevi vendere casa – solleva un dito minaccioso, facendo una voce grossa di timbro maschile -, non dovevi vendere casa: hai sbagliato, Giosuè. Ma come facevo per le bollette, il mangiare e le medicine? Adesso mio cugino che è avvocato mi ha fatto fare domanda per la pensione di invalidità. 400 euro che siano o 270. Non lo so. Qualcosa è. I soldi della vendita di casa se ne sono andati subito. Ho vissuto presso un amico o un’amica a settimane, mai un mese intero, cambiando sempre posto. E per ripagare l’ospitalità, facevo regali. “Facevi troppi regali, – alza ancora il dito minaccioso e parla con la voce grossa -spendevi troppo …”. Ma in qualche modo dovevo ringraziare, no? E ho cominciato a girare, così, con un paio di cambi di vestiti e due zaini. Qualche volta dormivo in strada. Adesso ho avuto un’occasione, vicino Tivoli. 150 euro al mese. Per ora i soldi me li presta mio cugino avvocato e poi glieli rendo un po’ alla volta, quando arriva la pensione di invalidità … Da mia cugina, Clara, non posso stare: ha casa piccola e due bambini.
– E dov’è questa casa che hai trovato?
– Non è una casa. E’ un magazzino. Ma c’è un lavandino con l’acqua corrente. E’ senza finestre, ma c’è la luce. Non so cosa altro inventare. Ho dormito anche in un centro di accoglienza. Ma dovevo stare fuori fino alle sei di sera e la mattina ti cacciano presto. E poi non sono abituato a stare con tanta gente: 20 letti a castello in un solo camerone. Un chiacchiericcio continuo, pure di notte. E poi lì non avevo la mia … la mia … come si dice?
– … riservatezza?
– Si, ecco. La mia riservatezza. Come si dice con la parola straniera?
– Privacy?
– Ah, praivasi!
Giosuè tace per un lungo momento. Carla mi guarda di sottecchi e mi sento un po’ a disagio. Non è bello scoprire storie dolorose. Giosuè riprende:
– A me piace tanto il silenzio. Quando ero piccolo a natale andavo a casa di mio nonno, in campagna, a Greccio, vicino Rieti, sa?, dove hanno inventato il Presepio. Stavamo seduti fuori di casa sulla panca, lui fumava la pipa e ci scaldavamo al sole. Non parlava. Se dicevo qualcosa, mi diceva: “Zitto! Ascolta il rumore del silenzio.”
– Il rumore del silenzio?
– Sì. In campagna è così. Se stai zitto, sembra che non ci sia nessun rumore. Ma dopo un po’ se ti concentri bene senti come un rumore, che, non so spiegare, non è un vero rumore. E’ come quando porti all’orecchio una conchiglia. E’ come una musica o come le parole di una filastrocca. Anche la casa … il magazzino di Tivoli è così. E’ isolato nella campagna. E ho sentito subito il rumore del silenzio.
Butto un’occhiata a Clara, perché non riesco a sostenere quello sguardo disperato. A Clara non sfugge la mia espressione. Ho una forte tentazione di tirare fuori il portafoglio. Esito: come faccio a non offendere Giosuè? E’ una persona dignitosa. Mi suona in testa la bella canzone di Paul Mc Cartney. “ Eleanor Rigby picks up the rice where a wedding has been …”. Mi arrabbio con me stesso, perché sento un velo di umido sugli occhi. La mia maledetta curiosità mi ha scaricato addosso una storia alla Ken Loach. Il treno arriva alla mia stazione. Si preparano a scendere anche Giosuè e Clara. In piedi Giosuè è alto quanto me e pesa 20 chili di meno. E io sono tutte ossa. Probabilmente Giosuè non mi ha detto tutto. Forse c’è stata anche una vicenda di eroina: quella magrezza patologica fa pensare …
Giosuè borbotta, quasi tra sé e sé:
– Ma io che campo a fare? Aver bisogno di tutto e di tutti … – sospira – Be’, adesso forse cambia.
– Ma sì. – gli rispondo – Vedrai che cambia. Adesso hai di nuovo un posto tutto tuo.
– Ciao! – inaspettatamente mi abbraccia e mi bacia sulle guance; poi si volta verso Clara: – Andiamo?
– Andiamo, andiamo. Arrivederci – Clara mi tende la mano.
– Arrivederci. E … Buona fortuna.
– Grazie.
I due si perdono tra la gente che scende dal treno.
* * *
Anche adesso ogni tanto mi viene da pensare a Giosuè. Chissà se ha venduto le bambole. Sarà tornato a lavorare dal suo amico parrucchiere? Riuscirà mai a sconfiggere la sua incredibile magrezza? Adesso, a quest’ora, la sua figura allampanata starà sulla porta del magazzino. Si gode il panorama e ascolta il rumore del silenzio.