Il vento e il mare

C’era una volta nella città di Venezia, al ciglio d’un canal, un pescatore, sornione e svampito riposava, avea la testa coperta da un cappello, che gli ombreggiava gli occhi e lo parava in viso.
Tutto ad un tratto, nell’immobilità del sonno, giunse a lui la folata del vento, che prese con sé il cappello e per sé lo pretese. Il pescatore d’improvviso si svegliò stupito, e, avendo capito il grave atto, rincorse il vento come un fuggiasco. Gli gridava contro: «Potrai tu anche convincere il mare ad alzarsi, ma a me non mi ci imbrogli, dammi il cappello, quanto è vero che il tuo nome è vento, o lo rinneghi?» e il vento incollerito dall’affronto subito, che il suo nome mai più in discussione sia messo, si girò su se stesso, e vorticando raccolse l’uomo. Nel giro d’un uragano l’uomo vide intorno a sé il suo cappello, ma non poté raggiungerlo. Il vento allora decise che con l’uomo doveva chiarire: «Nettuno è il mio nome oh vecchio, e delle tue minacce ne faccio beffa, non sai ch’io son? Io sono, del mare, il Re!»
E l’uomo sorpreso dall’improvviso bubbolar del vento disse con solenne dicitura: «Tu? Del Mare il Re? Non farmi ridere, che sia questa la tua boria? Credere che alzar due onde faccia di te un sovrano?» incollerendo Nettuno l’uomo proseguì: «E come vorrebbe vossignoria impressionar un povero pescatore, che del mare ci vive?».
Offeso in dentro al suo spirito, Nettuno, Re del mare, dovette che risponder come confà a chi della regale spoglia si traveste, e maestosamente disse: «La pietra antica smosse l’alme, t’infuria Nettuno il mare è gonfio, il vecchio all’acque avea le salme, Greco iro, irsuto sovrasta il soffio. Frivolo e vanaglorioso il marinaio, col funesto viso affrontò l’onda, nacque in lui il sentor d’un focolaio, non curante proseguì la ronda. Il nemico immenso allora apparve, che molti marinai avea sottratti, e altri muti strisciavan come larve, ma’l vecchio, sapiente, non scese a patti. Presero la randa e chiusero il fiocco, Greco provò col potente suo soffio, resistette a stento il silvestre blocco, fino a che le grida divennero epitaffio»
L’uomo ammutolito che non potea neanche del labbro muover la punta, si fermò un attimo a guardar intorno; il cappello! dovea recuperar ‘l cappello! Era quello, che prima lo proteggea dal vento.
Infine si decise che l’aprir bocca, poteva dunque esser la sua unica salvezza e disse un po’ più riverente: «Se tu sei Re, perché hai deciso del tempo perderlo con me?» e il vento all’uomo: «Io ho visto in te la minaccia dell’uomo, perché nel tuo vestiario tutto ciò che ci stonava te lo sottrassi» e l’uomo al vento: «Come mai un cappello che mi copre gli occhi e mi nasconde in viso deve esser considerato stonato al mio vestiario, non dunque io al Sole tutto il dì veglio?» e il vento all’uomo: «Non capisci o generico animale, che il cappello non fu che l’immagine riflessa d’un simbolo ormai oscuro che della massa si rifece punta» non capendo l’uomo non rispose e il cappello guardava ancora, sperando di raggiunger il suo amato copricapo che gli occhi nasconde e il viso copre. «Così non hai nemmeno la forza per reagir?» e l’uomo tace. «Così veramente, ammutolito, senza la tua maschera non riesci ad esser così ardito?» e l’uomo tace. «Così ammetti che la maschera del tuo coraggio non altro che fu il riconoscersi nel nulla effimero di un granello di sabbia nel mare immerso, che avanti e indietro si trascina secondo quel che la massa stessa della sabbia, nel fondo al mare, delle correnti è mosso?» e l’uomo tace. «Così non ti accorgi che ameba quale sei, trionfi il mio viver, alimenti il mio vorticoso ribellarsi alla società che della massa ne fece il bando e dei cliché l’armata da abbatter?» e l’uomo tace. Il vento subdolamente offeso sottrasse forza, girò di sensazione e fermò il vorticar suo forte, per posar l’uomo e permetter lui di ricongiunger al cappello, sua maschera.
L’uomo, invece che correr per raggiunger il cappello, si fermò per chieder al vento suo sequestratore: «Ma come posso io, che la mia vista arriva a tre tiri di sasso, capir quale potrebbe esser o quale fu la strada per me più giusta? Per non sbagliar proseguo questa, che larga e trafficata, alla meta di sicuro mi pretese!» e il vento riprendendo, come un fuoco se s’arieggia, il suo vigore ritornò a bubbolar: «Ma come può un essere di cervello dotato, reagir alla società della sua vita in questo triste e mesto modo? Non forse se affronti un sentiero parallelo anche se piccolo raggiunge la meta uguale? Per lo meno tuo e che personale traccia e solca questa terra e questa storia!» e l’uomo tace. «Oh misero, nostro, duro Mondo! Che facesti di male quando al tuo cospetto partoristi quest’orrido sarmento? Non forse meglio fu se del mare riversassi l’asciutto, tanto da sommergere questi poveri innocenti, che d’innocente ebbero la loro demenza? Questi, costui, l’uomo che mi affrontò tanto temerariamente finché del suo cappello aveva almeno la speranza, che si sentiva protetto da esso, perché esso gli copriva l’occhi e nascondeva il volto, non tace, ma ammutolito non sa di che rispondere, ora che la sua faccia è sì scoperta e che confutai la strada che percorse, tanto lui quanto miliardi di persone!» l’uomo ascoltando il vento imprecar assiduo verso il cielo, si chiese se il cappello fosse poi veramente utile, impaurito dal funesto sequestratore, dal rincorso criminale, dalla collera che tanto prima sperava di contrastare e, anzi, offendeva schernendolo, non tacque e disse: «Di cappelli come il mio n’è pieno il mondo, quello stesso che mi partorì per fare il pescatore, il pescatore in mare, che spero mai si riversi sull’asciutto per sommergerlo, ma tanto legato son a lui quanto a te mio caro amico, perché il cappello uguale al mio ce l’han tutti, ma se io ne fo d’un cappello il mio, quel mio è mio, e non di tutti, dammi dunque il mio cappello, che è mio, e in quanto mio di nessun altro, oh vento tu credi di saper tutto perché in molti ti affidano i loro lamenti, ma effimera sarà la tua grazia se perseveri nell’ignorar che se il cappello è mio, è mio e basta, anche se è ugual a quel del mi vicino, dunque dammi il mio cappello che vederlo è vederlo, ma averlo è assai diverso!» e il vento tace. Dunque si rigiraron le parti, il vento da sapiente parolaio passò in un sol tocco a saccente paroliere, e dopo un attimo di sconvolto riprese il potente suo soffio: «Come osi tu che del mare vivi e quindi suddito mio dar ordini a me! Con il solo mio volere potrei scaraventarti oltre, oltre ogni cosa, sol ch’io lo voglia. Ma tu, pur sapendo questo hai deciso di affrontarmi, tu senza maschera hai capito che il coraggio non ti manca, e ora vivrai una vita scelta da te, e se il cappello gli altri lo cambiano, se a te va sempre a genio, continuerai a portarlo, e ora vivrai da te, solcherai il tuo sentiero in questo mondo che se pensassi come dici non sarà sommerso dal mare nell’asciutto. E ora vivrai senza un cappello che t’ombreggia l’occhi e ti copre in viso, tanto da impedir di veder la giusta tua via e da mascherarti in qualche meschino atto, per questo ti presi il cappello tua maschera, perché nel tuo vestiario che rappresenta il tuo lavoro, la tua voglia d’indipendenza, avesti il cappello che comprendoni in volto t’impedì di veder la canna mossa, t’impedì il lavoro» e l’uomo al vento: «Il sole non mi preoccupa più, sarà solo e solo il vento che mi scava in viso a disgustarmi, ma nel tuo tenero abbraccio la sera riposerò, cullato dalle onde, di questo mare, che spero nell’asciutto mai arrivi» e il vento tacque. E il vento se ne andò. L’uomo tornò al ciglio d’un canal a veglia, nella città di Venezia.


Memorie di un sopravvissuto

Arrivarono all’alba, distrussero tutto. Arrivarono all’alba e non ci fu più speranza.
Eravamo in allarme già da due o tre giorni, io e i miei fratelli eravamo usciti per pattugliare l’aria dall’alto, ne sentivamo l’odore. Ci dava la nausea. Ricordo che scherzavo con loro. Gli dicevo: “Sentite la puzza? Sono i loro ormoni, sono acidi!” ma era un riso amaro. Non puoi ridere quando sai che il tuo nemico ti caccia, quando sai che il tuo nemico è mille volte te. Eravamo a Roseville quando partimmo, eravamo diretti a Biancospino, dopo la Ginestra. Sentimmo quell’odore, acido. Era fioco. Molto fioco. Non gli demmo peso e continuammo il pattugliamento nella direzione detta. A Biancospino ci accolsero come degli eroi, era una piccola cittadina nella periferia, era dei nostri. Biancospino era la città più a sud della provincia, era alleata con noi. Loro non sapevano. Non potevano saperlo.
Arrivato subito dopo la Ginestra, all’ombra del quercio, eccola, Biancospino. A vederla pareva grande, gli abitanti numerosi, ma non aveva niente a che vedere con Roseville, la nostra amata città, la capitale. Roseville era almeno trenta volte Biancospino. Più feroce, più spietata. Ma nulla potevamo. Avevano già distrutto l’erimo del nord, i territori a est del fiume Ginto e i Campi di sotto. Il Governo centrale della Regina si era già mosso per vie burocratiche a stipulare alleanze con le città rimaste. Ogni città ha il suo regno, ma tutti facevano capo a Roseville.
Ci accolsero come eroi. Ci accolsero in festa. Non sapevano. Perché stava albeggiando. Non sapevano che sarebbero arrivati, non lo sapevamo. Dopo qualche minuto arrivò ai nostri orecchi il ronzio di Kroks della dinastia dei Remichuij, anche lui aviatore. Anche lui era un aviatore. Non fece in tempo ad arrivare. Vedemmo il getto del loro gas. Vedemmo la vampata di veleno. Fu un attimo e Kroks spirò. Attoniti. Basiti. Increduli. Non esistono altre parole, espressioni o stati d’animo per descrivere quello che provavamo. Non era un semplice pattugliatore. I Remichuij erano famosi per essere il clan d’attacco e Kroks era il generale capo a comando della prima flottiglia aerea della Regina. Non era uno a caso. Non era uno che si attacca alle spalle. Non era uno che scappava. Nel pensar questo ricordo che guardai verso la Capitale. Albeggiava e dietro il monte Cipresso vidi il fumo nero alzarsi. Vennero all’alba e ci attaccarono. Vili.
Vedemmo allora uno di loro che ci puntava, lanciammo l’allarme. Fu un attimo e Biancospino si destò, gli aviatori partirono, molti di noi, molti di loro, morirono nello sferrare i fendenti al gigante. Altri piangevano pensando ai bambini che non potevano fuggire. Il Gigante era gravemente ferito, ma questo sembrava solo farlo arrabbiare di più. Prese il gas. Ci alzammo in volo, io e i miei fratelli, non eravamo chiamati a difendere Biancospino. Gli augurammo ogni bene e tornammo verso il fumo nero. Mentre decollavo, vidi il getto di gas raggiungere la piazza centrale. L’abominio che fu non può essere descritto in queste memorie. L’abominio è una parola troppo dolce. Stramazzavano a terra. Vomitavano. Morivano. E ancora. E ancora. Non può essere. La peggio andava alle madri e i loro figli. Vidi gli occhi che uscivano dalle orbite, vidi distruggersi il cervello. E morte. Quando poi il nemico cessò di usare il gas, iniziò con l’inferno. Prese un’arma a noi tanto sgradita, tanto quanto le epidemie. Il fuoco. E ci bruciò. I pochi vivi friggevano alla fiamma, stridevano, urlavano. Mi sentivo impotente. In un attimo aveva ucciso una città di più di duemila abitanti. Così. Era successo.
I miei fratelli iniziarono ad accelerare. La città doveva essere presto sotto di noi. sentivamo l’acre odore dei mostri. Sempre più intenso. Ah che amaro rimpianto. Se fossimo rimasti. Saremmo sicuramente morti. Sicuramente. Ma avremmo combattuto fianco a fianco con la nostra gente. Invece era fumo e cadaveri. I più dilaniati. I più sfigurati. Tutti gli altri erano corpi carbonizzati. Impossibili da riconoscere. La prima preoccupazione andò alle famiglie, ma per dovere andammo dalla Regina. Tra le rovine scavammo senza sosta. Sentivamo il suo odore, la sua voce. La Regina era ancora viva. Le sue guardie no. Scavammo fino al mezzo giorno e quando finalmente la trovammo lei spirò. Non più uno di noi era rimasto in vita nella gloriosa Roseville. Un impero crollò. L’invasore aveva vinto, in breve vedemmo il fumo da ovest nelle Terre di sopra, e sempre a ovest nella sponda del Ginto.
Un impero crollò e fu così che decidemmo di inseguire il malfattore. Quando finalmente lo trovammo all’unisono ci sferrammo su di lui. Un solo colpo. Non avevo mai attaccato, dicevano che fosse più doloroso di mille parti, è così. Il mio pungiglione entrò nella carne di quell’uomo e con il mio quello dei miei fratelli. Con il pungiglione se ne andò anche il mio intestino e in breve spirai. Ebbi il tempo però nel cader a terra di vederlo, e risi. Fu un riso amaro, ma con me portai anche il mostro. Il veleno gli fu fatale e cadde con noi.


La Bestia ed io

Mi dissero che recludendomi non facevano altro che proteggere la mia anima
e che così facendo riscuotevano il mio spirito ed elogiavano la creazione di rima,
che lo facevano solo per il bene del progresso, che è evolutista e umanitario,
Io, me ne vergogno, cedetti ed ora del mio corpo non sono più proprietario.

Ma la bestia -la Bestia- non può stare sotto a nessuno, non obbediva nemmeno a me
Così ci separammo, io schiavo, lei prigioniera in catene, quelle orribili catene
Erano pessime, la vedevo soffrire, sbraiatava più di quanto non potessi farlo io, pessime
Giunsi alla conclusione che o io o Lei, uno dei due, avrebbe smesso di soffrire quelle pene.

Mi crucciavo di giorno in giorno per liberarmi dalla schiavitù da me stesso arbitrata
Per raggiungere quella scorbutica, incontrollata, maledetta Bestia, la mia fata
Più il tempo passava e vedevo trasformarmi anche io nell’oggetto del mio desiderio
Stavo assomigliando alla mia bestia, al mio cruccio a ciò che mi dà quel fantastico brio.

Finalmente riuscii a liberare il corpo dalla schiavitù della società del progresso
Volevo sapere come potevo assomigliare ancora di più alla Bestia, lo confesso
E quando stavo per chiederle questa mia oscura benignità o recondita malignità
La bestia che è in me mi disse: Per favore donami un po’ della tua Umanità.