AI MARGINI DELL’UNIVERSO

Ti amo: lo sapevi
da quando nascesti
da quando mi vedesti
scorrere dietro i titoli

di coda di un film noto
a entrambi; inconsapevoli
che era la nostra vita
proiettata nei nostri occhi

combacianti. Mi lasciasti
andare dentro le ali
infuocate del vento
di scirocco: partire per mete

sconosciute a noi; vivere
una intera vita senza di te.
Mi lasciasti volare
sotto ali di una tempesta

che si appoggiava stanca
sul tuo mento rasato;
svuotato, occhi asciutti
e un filo srotolato di voce

spenta. Mi dicevi: ti amerò,
potessi giungere alla fine
sarò ai margini dell’universo
ad attendere te.


GABBIANO SPAZZINO

Il gabbiano vola
sui secchi della spazzatura
e mangia resti avanzati
dai ricchi pasti, dai poveri pasti,
dagli involucri plastificati
del catering delle mense delle scuole
e degli ospedali,
dei cartoni unti
di pizza gelata
dal riso alla cantonese
dai wurstel smangiucchiati
e sputacchiati, annegati nella senape
e le rondelline di crauti
e cetriolini rinsecchiti,
hamburger su cui dentini di bambini
hanno lasciato le impronte dei loro apparecchi
che li vuole tutti dritti, tutti perfetti.

Mangia il gabbiano
e sogna
il padre libero quando respirava
aria salmastra e pura
correnti tiepide del Golfo;
sfuggiva un gabbiano ribelle
sotto l’ala
ferita come la zampetta
nel cielo sulla nuvoletta
blu
garriva come rondinotto
poggiato su un vinile rotto

gabbiano senza più padrone…
gabbiana senza più ispirazione,
senza poesia, solo con una canzone.


IL SECONDO FIGLIO

Comparso o ritrovato
in una notte senza luna
senza alcun sentore
per una maternità
acquisita, figlio di un’altra
madre, figlio di un’altra era,
senza rivendicazioni
senza richieste né mani tese.

Nulla ti chiede, nulla
si aspetta, nulla cerca
di estorcere ad una società
opulenta. Si avvicina
scuro come la notte senza
luna, dai suoi mondi
diversi, dalla madre lontana.

E lo ritrovi tuo, più del tuo
sangue e della tua carne
stessa, coinvolta più
di quanto ti conceda
il senso della misura,
smisurata nella tua voglia

di accogliere un figlio
che di nessun altro più è
se non della sua madre terra.

E ti nascondi, al fruscio
interno del cuore che reclamerebbe
affetto, che reclamerebbe la
possibilità di esprimere più
di quanto è concesso far trasparire.

Il secondo figlio getta la
spugna, chiude il suo bagaglio
nero più di una luna senza
cielo, e scompare all’alba.

Lascia il suo vuoto,
per quanto non riuscisti
a dare, a provare,
a dimostrare, per quanto
non potesti offrire
di concreto, di solido,
di solidale.

Lascia il suo campo vuoto,
al figlio vero, che si
riappropria del tuo cuore,
mentre lui, figlio secondo,
ritorna ai suoi tragitti,
alle sue corse, ai suoi
anfratti del destino.

Lo segui con lo sguardo
andare, volgi l’occhio tremante,
il labbro morsicato
con dolore, lo affidi al Cielo,

ti frangi dentro il tuo chiuso,
impietrito, inaccessibile
sentimento, perché hai
provato trasporto, perché
non era facile trovare spazio,

perché il suo mondo
lo chiama e di un’altra,
forse, diverrà secondo figlio,
o forse finalmente primo,
senza più pudore
né clamore.

Francesca Varagona