La luce nel pozzo

                                                                                                  “Qual è colui che somniando vede,

                                                                                            che dopo il sogno la passione impressa

                                                                                           rimane, e l’altro alla mente non riede”.

(Dante: Par. XXXIII, 58)

In quel caldo pomeriggio di maggio Esterina e Adriana si allontanarono dal casolare con il desiderio di parlare d’amore, ma i pensieri dell’adolescenza stentavano a prendere corpo nel suono delle voci, frenate dalla timidezza dell’età. Per vincere il turbamento, mentre si addentravano nel boschetto per giungere fino al ruscello, spezzavano quasi ad ogni passo i rametti degli arbusti che seguivano la stradina. Poi, tra i fruscii delle loro gonnelline, venne fuori qualche sillaba, seguita da risatine maliziose. “Nella vita non esiste nessun piacere maggiore” – disse ad un certo punto Adriana, di qualche anno più grandicella. Esterina arrossì, rallentando il passo e restando in attesa di sentirla ancora raccontare, incuriosita anche dalla calda inflessione della voce e dalla luminosità degli occhi della cugina. Adriana prese allora a parlare di un ragazzo quasi ventenne, col quale si era intrattenuta nell’atrio del condominio per tempi brevi ma sempre maggiori, passando ben presto ad argomenti d’amore. Una sera aveva provato il meraviglioso piacere di un bacio. Esterina avrebbe voluto che lei continuasse, ma Adriana, dando segni di non voler proseguire nel racconto, le domandò a sua volta se avesse il ragazzo e subito dopo le chiese del suo primo ciclo mestruale. Senza attendere una riposta, le raccomandò di non farsi minimamente bagnare nei rapporti intimi, poiché per un niente poteva restare incinta.

Fu allora che Esterina avvertì un forte tonfo al cuore, impallidendo. Si sentì improvvisamente invasa da un tremito che la scuoteva tutta, fino alle gambe, era stordita da un forte ronzio alle orecchie, non sentiva più la voce della cugina, e mentre la vista le si annebbiava, perdette i sensi e cadde svenuta al suolo. Quando riaprì gli occhi si trovò distesa su un verde prato, degli arbusti in fiore si protendevano sul suo capo. Le parve di aver dormito a lungo ed anche di aver fatto un sogno, ma non ne ricordava i particolari. Solo una grossa sagoma scura e udiva una voce stridula che gridava. Adriana, che le stava vicina, la sentì gridare nel sonno: ”Nonno, no!, qui mi fai male!….”, e subito dopo la vide infilare due dita della mano destra sotto lo slip e toccarsi freneticamente. Appena Esterina aprì gli occhi, si chinò su di lei e abbozzando un sorriso le chiese cosa le fosse accaduto e come si sentisse. Esterina non rispose, aveva lo sguardo impaurito, fisso nel vuoto. “Torniamo al casolare”, le disse allora Adriana, assumendo un tono serio.

Al loro arrivo la zia Elena, notato il viso pallido e spaventato di Esterina, chiese spiegazioni alla figlia. Adriana iniziò a dire della passeggiata in campagna e, avvicinatasi la zia Giacinta, finì per raccontare dello svenimento della cugina. Esterina, intanto, era andata a sedersi in un cantuccio, su una seggiola bassa, e si era messa a fissare le vecchie mattonelle del pavimento. Avvertiva un vuoto alla testa. Ripensava, assorta, ai luoghi della passeggiata per ricostruire l’accaduto, ma non riusciva a risalire tutta la scala della memoria perché giunta ad un certo punto veniva presa dal panico e dalla paura di svenire di nuovo. Alzata la testa, scorse Adriana che parlava a voce bassa con sua madre dall’altra parte della stanza, nell’angolo in fondo. Vedeva soltanto il movimento delle labbra, ma capiva che quel colloquio la riguardava, poiché la zia Elena gettava spesso un rapido sguardo verso di lei. Quando fu avvertita che si ripartiva non si sorprese del sole ancora alto sull’orizzonte, perché intuì che l’anticipato ritorno in città dipendeva dal suo malessere. Durante il viaggio l’unico spunto di allegria furono gli scherzi e le risate dei bambini. Anche Adriana, insolitamente silenziosa, le chiese soltanto un paio di volte come si sentisse. A casa, sua madre l’accompagnò al letto dopo la cena, ma prima che uscisse dalla camera, Esterina la chiamò a sé e la guardò preoccupata. Mamma Giacinta tornò vicino al letto e la strinse in un forte abbraccio. Intuendo cosa volesse sapere, disse di non capire cosa le fosse accaduto e soggiunse che aveva pensato di chiamare per una visita il medico di famiglia, il quale, con una esatta diagnosi, avrebbe potuto restituirle tranquillità.

Il dottor Lucio, giunto dopo qualche giorno, dopo aver saputo delle angosce e dell’insonnia di cui Esterina aveva sofferto dopo lo svenimento, la invitò con un sorriso a distendersi sul letto. La ragazza obbedì, ma dopo le solite auscultazioni, la colse di sorpresa l’ispezione dei genitali, che il dottor Lucio divaricò con una forte pressione dei pollici, illuminando con una piccola torcia per due o tre interminabili minuti l’interno della sua vagina. Tutto a posto, stai tranquilla, lui le disse, ma Esterina non riusciva a spiegarsi il viso della madre in forte apprensione. Le sembrò anche strano che il medico, invece che consigliare qualche calmante, si era seduto a scrivere a lungo su un libretto verde, con la carta a quadrettini, diverso dal suo ricettario. Prima di andar via sua madre gli preparò un caffè in cucina, dove notò l’inaspettata presenza della cugina Adriana. Appena rimasero sole, chiese il perché di una visita così intima ed invasiva, ma la madre laconicamente rispose che così visitavano i medici scrupolosi, e comunque poteva star tranquilla di essere stata trovata sana in ogni parte del corpo.

Durante l’estate lo stato di emotività non si attenuò per niente e neppure al ritorno a scuola la ragazza riacquistò serenità, tanto che lamentava difficoltà di concentrazione nello studio e calo di attenzione durante le lezioni, notato con evidenza anche dai docenti. Durante una delle consuete passeggiate pomeridiane, parlando appunto del rendimento scolastico, mamma Giacinta colse l’occasione per dirle che il dottor Lucio aveva consigliato una visita psicanalitica, ancor meglio un consulto, al fine di un’adeguata psicoterapia.

Esterina si convinse, pensando che da quel tipo di medici non avrebbe subito fastidiose ispezioni intime, e così dopo circa un mese raggiunsero di buon mattino una città dove non era mai stata. Al termine di un lungo viale giunsero in una piazza con a centro un filare di platani disposti a semicerchio davanti a un grande palazzo di marmo bianco, sulla cui facciata, in alto, era impressa con lettere a rilievo una sola parola, per lei incomprensibile. Attraversato dopo l’ingresso un androne delimitato da alte pareti a vetro, salirono al primo piano, dove si ritrovarono in mezzo ad un andirivieni che meravigliò un po’ Esterina per il passo frettoloso con cui le persone si spostavano nei corridoi e da una stanza all’altra. “Sono degli irrequieti che hanno bisogno di calmanti” - le spiegò sua madre – “ma non sono pericolosi”. Dopo un primo corridoio ne imboccarono un altro più lungo, quasi deserto, che immetteva in uno stanzone quadrangolare. Qui c’erano degli individui seduti dietro dei banchi bassi, intenti a leggere con evidente attenzione alcuni fogli, affasciati l’uno sull’altro. Avevano di fronte una cattedra molto più alta dei loro banchi, allungata a semicerchio, con alle spalle un muro bianco in cui si aprivano due porticine marrone. Vi sedevano altri individui che indossavano lunghe vestaglie di raso nero ed avevano lo sguardo come perso nel vuoto. Ogni tanto, però, ruotavano gli occhi verso i presenti e li fissavano brevemente con una strana severità. Mamma Giacinta le spiegò che quelle persone sedute in basso erano dei depressi ed attendevano di essere curati dai signori seduti più in alto, che non erano medici del corpo ma dell’anima, esperti nell’accertare le cause profonde delle inquietudini umane.

Le due donne stavano sedute già da un po’ quando da una delle porticine marrone entrò un uomo che subito riconobbero. Era il dottor Lucio con delle carte sotto il braccio, che le invitava ad avvicinarsi. Esterina, nel vederlo, quasi non voleva alzarsi, ma la madre la prese per mano con energia e la condusse in un angusto passaggio che aggirava la cattedra e immetteva in una grande sala di forma ovoidale, con la volta a cupola e dei finestroni collocati in alto, dai quali calava giù una luce simile a quella di un’antica cattedrale.

La sala sembrò deserta, ma guardando meglio videro che in fondo, dietro una piccola cattedra, sedeva una persona con un camice bianco. Mentre si avvicinavano, lei, accortasi della loro presenza, alzò la testa e le guardò, squadrandole dal profondo di due occhi piccoli e neri, affossati in due orbite livide. Era una donna di corporatura esile e di età ancor giovane, con il viso teso, segnato da stanchezza. Aveva davanti a sé dei fogli, che di certo stava leggendo quand’erano entrate, poiché erano già voltate le prime pagine. Ad un suo gentile cenno mamma Giacinta andò a sedersi su una panca addossata ad un muro, mentre Esterina prese posto di fronte a lei. Benché rincuorata da un sorriso e dal tono dolce della voce, avvertiva il battito martellante del cuore e le gambe che le tremavano. Senza preamboli la dottoressa dalla vestaglia bianca le chiese di raccontarle dei suoi sogni, e di dirle se si svegliava contenta o turbata dal ricordo di ciò che aveva sognato. Sembrandole subito evidente che la signora sapeva colloquiare con i giovanissimi, Esterina restò un po’ intimidita, quasi bloccata, ma la voce di lei la sollecitò a rispondere. Disse che di solito non ricordava i suoi sogni, ma al risveglio le restava quasi sempre una impressione, di serenità o d’inquietudine. Ed anticipando probabilmente la domanda successiva, riferì che un suo ultimo sogno fatto in campagna doveva essere stato brutto, poiché, pur non ricordandone i particolari, aveva provato al risveglio una forte ed inspiegabile sensazione di spavento, da cui erano iniziati tutti i suoi malesseri.

Intanto, mentre stava ancora parlando, la dottoressa aveva rimesso gli occhiali e si era di nuovo immersa nella lettura. Esterina ne profittò per dare uno sguardo più attento ai fogli, ed ebbe a notare una grande somiglianza con quelli che poco prima aveva visto in mano al dottor Lucio. Ciò che la colpì di più fu il particolare della copertina verde e della carta a quadrettini, proprio come quella del taccuino usato dal dottor Lucio dopo la visita medica a casa sua. Girando poi lo sguardo intorno, vide sulla parete di fronte, incurvata come l’interno di una cupola, un piccolo crocifisso di legno scuro e si chiese che significato potesse avere, tanto più che era collocato così in alto che si potevano vedere a stento i tratti del viso di Gesù. Volgendo di lato la testa, vide sua madre rannicchiata sulla panca e ne colse un sorriso rassicurante. Tornò ad osservare l’incarto di cui la signora in camice bianco stava terminando la lettura e si stava chiedendo in qual modo quel libretto fosse arrivato sul suo tavolo quando lei, che intanto aveva preso a fumare avidamente una sigaretta, rialzò inaspettatamente lo sguardo e la fissò per qualche attimo, senza muovere la testa dalla posizione di lettura, e con un’altra domanda improvvisa e ficcante, che la fece questa volta trasalire, le chiese cosa sapesse della sessualità e in particolare della sua verginità. Esterina rispose che era sicura di essere vergine, avendolo accertato il medico con un’accurata visita, e subito soggiunse, arrossendo, di non aver mai avuto rapporti sessuali, neppure superficiali. Intanto, mentre terminava la sua risposta, erano sopraggiunti due uomini in abito scuro, uno più alto e giovane, l’altro più basso e coi capelli brizzolati, i quali si erano chinati a leggere qualche rigo di quelle pagine, man mano che venivano sfogliate sotto i loro occhi dalla dottoressa. L’uomo anziano aveva ad un certo punto fissato attentamente Esterina, mentre l’altro teneva poggiata una mano sulla spalla della signora e, chinatosi ancora un poco, le aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Si erano poi scambiati uno sguardo, che le parve preludere ad altre domande. Un attimo dopo, invece, il signore dai capelli brizzolati le disse che poteva andar via.

Esterina trasse allora un sospiro di sollievo. Madre e figlia si avviarono all’uscita, ma trovarono difficoltà ad imboccarla, e mentre indugiavano disorientate un uomo dal viso paonazzo, che inforcava degli occhialini dalla montatura gialla, indicò loro di seguirlo con dei cenni della mano destra e, nonostante avesse sotto il braccio sinistro un pesante fascio di carte che lo incurvava, si avviò con passo spedito verso una porticina ch’era in fondo alla sala. Appena varcata quella soglia, le due donne furono irradiate da una luce che quasi le abbagliò e discesi alcuni scalini si trovarono in un largo con a centro un’aiuola triangolare. Esterina sentiva di poter respirare finalmente a pieni polmoni un’aria tiepida, che sapeva di liberazione.

Uscite fuori di città, le venne da chiedere a mamma Giacinta perché quei dottori non le avessero prescritto alcuna cura o medicina, neppure una compressa per dormire. “Sarà il nostro medico a scrivere la ricetta“, rispose pronta la madre, “dopo che quei dottori gli avranno indicato la giusta terapia“. Tornate a casa e alla solita vita di ogni giorno, in una settimana non lontana dal Natale Esterina espresse con forza il desiderio di voler trascorrere una domenica nel paese di origine della famiglia. Mamma Giacinta ebbe un’esitazione, ma, non trovando una plausibile scusa, temendo anche di nuocere con un rifiuto all’umore di sua figlia, decise di accontentarla.

Giunte in campagna, vi trovarono nei pressi del casolare Adriana e la madre. Si salutarono affettuosamente, con minore slancio Esterina, un po’ sorpresa dalla loro presenza. Si parlò di poche cose, Adriana le disse di essere contenta di vederla molto più serena, ma nulla di più. Si trattennero per un po’ nei pressi del casolare, poi, per desiderio di Esterina, intrapresero una passeggiata in luoghi diversi dal boschetto, dirigendosi nella zona del pozzo e poi in quella del pagliaio. Esterina soffermò a lungo lo sguardo su quei luoghi, tanto che Adriana ebbe ad osservare che lì non v’era nulla di interessante e di piacevole da vedere. Ma Esterina la pregò di farle ancora un po’ di compagnia, dicendole che rivedendo quei posti si era sentita più tranquilla, come rasserenata, blandita dal ricordo piacevole di quando si distendeva nel pagliaio e quasi si addormentava, o quando gridava il suo nome nel pozzo per ascoltare l’eco, mentre il nonno la reggeva per il busto sull’orlo del parapetto. Lui poi raccoglieva un sassolino e lo buttava giù rimanendo in attesa qualche attimo per sentirne la caduta nell’acqua, riuscendo a farle vedere appena, nel buio quasi totale, un breve luccichio, ch’era l’incresparsi di una piccola onda. Il nonno le voleva molto bene e sapeva farla divertire in quella semplice realtà, insegnandole i nomi dei fiori più belli, dei coleotteri e delle farfalle. Adriana ascoltava e taceva. Quando poi la cugina le domandò con aria triste perché mai il nonno non fosse nel casolare, rispose che era ricoverato in ospedale e si sperava che guarisse. Avvertendo nel tono della risposta un freddo distacco affettivo, Esterina non volle chiedere altro.

Prima dell’ora di pranzo, profittando che Adriana s’intratteneva a parlare con la madre e la zia Giacinta, uscì nel corridoio del casolare e si diresse come per istinto verso la stanza degli attrezzi. La porta era aperta e già dalla soglia poté rivedere il banco di lavoro, su cui era poggiato solo il martello. E ciò le riportò alla mente, in quell’ambiente odoroso di legno, il ricordo dei lavoretti artigianali del nonno. Attraversando di nuovo il corridoio per andare a pranzo, colse l’occasione per guardare nel cortile, dove c’era ancora qualche tavolone dei muratori su cui da bambine si divertivano a fare lo scivolo, imbrattandosi di calce.

A tavola conversarono più di tutti le due sorelle. Ad Esterina, contenta di essere tornata in quei luoghi tanto cari, venne di chiedere ancora una volta del nonno, con un tono della voce velato di tristezza. Prontamente la zia Elena riferì del ricovero in ospedale, mentre Adriana quasi in contemporanea si rivolse di scatto ad Esterina per ricordarle che glielo aveva già detto appena una mezzora prima. Esterina si turbò, trovando scortese, anzi acido l’intervento di Adriana, come se l’avesse rimproverata di un eccessivo interesse a sapere del nonno. “Ho domandato – replicò quasi commuovendosi – “perché con la presenza di lui questa giornata in campagna sarebbe stata ancora più bella”. Avvertendo, con la testa china nel piatto, che sulle sue parole era calato il silenzio e sentendosi osservata, alzò gli occhi e notò che Adriana e la zia Elena la guardavano senza un sorriso, e che anche sua madre appariva stranamente indifferente.

Nel pomeriggio Esterina cedette al desiderio della cugina di una passeggiata nel boschetto, durante la quale parlarono dei loro studi e della scuola, ma prima di giungere al ruscello volle tornare indietro. Prima della partenza, desiderando fortemente di rivedere le stanze del casolare, salì di nuovo al primo piano. Dopo essere stata in bagno, ritornò davanti a quella degli attrezzi e notò che la porticina stavolta era interamente accostata, tanto che per guardare all’interno dovette aprirla quasi del tutto. Alla luce del tramonto che ancora filtrava si vedevano bene tutti gli attrezzi appesi alle pareti, ma nell’abbassare lo sguardo verso il banco di lavoro i suoi occhi incontrarono la sagoma inconfondibile del nonno, che era seduto proprio lì, di spalle alla porta, con una sega in mano, appena sollevata, come se si accingesse ad iniziare uno dei suoi lavoretti. Erano immobili, lui e la sega. Un grande spavento investì Esterina, che si ritrasse subito nel corridoio e si appoggiò con le spalle alla parete poiché avvertiva in gola forti pulsazioni del cuore, respirava con affanno e sentiva il petto oppresso dall’emozione. Il primo pensiero che le venne in mente fu quello di aver visto un fantasma, ma qualche attimo dopo si dette della stupida perché aveva guardato bene. Il nonno era vivo, guarito dalle cure dell’ospedale, ribadì a se stessa, nel momento stesso in cui si chiedeva se le altre donne sapessero. Ripercorse inebetita tutto il corridoio che conduceva alle scale, lasciandosi guidare dall’ultima luce del giorno che proveniva dal balconcino in fondo. Le gambe le tremavano sempre più ed il battito martellante del cuore non rallentava. Sentendosi chiamare dall’esterno, si affacciò al terrazzino e vide che le auto avevano già qualche portiera aperta, pronte per la partenza. Intenzionata a tornare davanti a quella stanza, per prendere tempo fece cenni alla madre di aver bisogno del bagno, e, rientrata nel corridoio, ch’era ormai quasi interamente avvolto dalla semioscurità, rivolse lo sguardo verso il rettangolo chiaro del balconcino e poté vedere il riquadro della porta della stanza degli attrezzi. Con la porta semiaperta, pensò, qualche secondo sarebbe bastato per vedere se il nonno era ancora lì, seduto al banchetto di lavoro. Fatto, però, qualche passo in direzione di quell’unico barlume di luce, si sentì crescere dentro l’emozione, il cuore era ormai impazzito e lei temette di non riuscire a controllarsi davanti a quella porta. Fece ancora qualche passo, ma fu la paura di un nuovo svenimento a fiaccare del tutto la sua pur incontenibile curiosità. Costretta ad allontanarsi dal corridoio, attese qualche altro minuto per calmarsi e poi imboccò le scale e ridiscese fino allo spiazzo, dove saltò sul sedile dell’auto senza dire una parola. Temeva che le tremasse la voce, e perciò rimase con la testa abbassata a guardare il pavimento della vettura, anche perché non riusciva a vincere la mortificante sensazione di aver subito una sconfitta della volontà. Appena l’auto si mosse, alzò tristemente gli occhi verso il casolare. Alla madre che le chiedeva il perché di quel suo umore nero rispose, sempre con la testa bassa, di essersi sentita contrariata nel desiderio di rimanere ancora qualche minuto nelle stanze al primo piano, in quella semioscurità nella quale più vicina aveva sentito la presenza affettuosa del nonno. Giratasi verso la madre ne incontrò uno sguardo severo, ma non tollerandolo dentro di sé, fu sollecitata a ripensare agli eventi singolari di quella giornata, ed a riprodurre in fotogrammi tutte le immagini che si erano conficcate come chiodi nella sua mente. Nel confronto tra le due visioni di quell’ambiente nella luce diurna ed in quella del tramonto, dettagli apparentemente insignificanti riemersero allora dal fondo della sua memoria. I flash dell’ora crepuscolare, sostituendo quelli della mattinata, eliminavano il martello, non più poggiato sul banchetto, e facevano comparire la sega, collocandola nella mano destra del nonno, tanto vera e reale che luccicava il metallo della lama, larga e lunga. Fu allora che scomparve del tutto in Esterina ogni dubbio tormentoso che fino a quel momento non era riuscita ancora a scacciare del tutto dalla mente. Avrebbe voluto urlare in faccia alla madre: “Non può esistere una sega fantasma!!”, come il grido di una vittoria finale ch’era prima su sé stessa e poi su tutti gli altri. Si volse allora a guardarla di nuovo, commiserando in lei l’ignoranza della verità di cui lei, una ragazzina, poteva invece essere ora orgogliosa, a dispetto di chi gliel’aveva voluta tenere nascosta per gelosia. Mamma Giacinta, pensosa dell’umore nero di Esterina, era lungi dal prevedere la dura conferma all’arrivo a casa, dove la figlia si ritirò nella sua cameretta senza cenare e senza neppure augurarle la buona notte. Allora s’impensierì e, consumata una frugale cena, salì al piano di sopra e tese l’orecchio. Nel silenzio dell’ora non lontana dalla notte udì che la figlia piangeva con lievi singhiozzi. Bussò con le nocche delle dita e la chiamò, ma non avendo ricevuto risposta, entrò nella stanza, si avvicinò al letto, accese la lampada sul comodino, e le passò affettuosamente una mano sui capelli. Esterina, ch’era seduta sul letto cogli occhi rossi e gonfi, si riversò all’indietro, abbandonando la testa sul cuscino, come a far capire che non era gradita quella carezza. Mamma Giacinta si preoccupò, ritenne di cogliere un forte disagio psicologico della figlia ed allora la pregò di confidarle tutto, promettendole ogni aiuto.

Esterina, invece, lungi dall’essere calmata da quel tono remissivo, tornò a sedersi di scatto sul letto, puntò gli occhi per qualche secondo in quelli della madre, e poi la investì con parole che la raggelarono: “Nonno si trova nel casolare, l’ho visto nella stanza degli attrezzi!”. La ragazza aveva smesso di piangere, ed il tono della sua voce era proprio quello di una contestazione. Non le avevano detto la verità. La madre restò inebetita. Con una reazione di finta meraviglia accennò a dire che non poteva essere vero, ma a tanto Esterina si irritò ancora di più e decisamente le disse che voleva riabbracciare il nonno in campagna, da sola. Un impatto fortissimo ebbero queste parole su mamma Giacinta, che si sentì assalita da una serie di grosse preoccupazioni. Intricate ed inestricabili complicazioni le si profilarono in mente al pensiero che proprio alla figlia non poteva confidare la verità del tutto, gestita fino a quel giorno con Elena e con Adriana nella comune consapevolezza dei delicatissimi rapporti che c’erano stati per lungo tempo fra nonno e nipotina. Squassata da un indicibile travaglio interiore, si alzò dal letto e scese in cucina a prepararsi una camomilla.

Esterina neppure la seguì per chiederle se si sentisse bene. Le rimbalzò, anzi, nella mente più di una ragione per colpevolizzarla, come l’aver assecondato la traumatica visita medica del dottor Lucio, l’aver troncato le sue domande su visite e cure mediche, l’averle imposto una giornata da incubo in quello strano edificio di città, senza che avesse ricevuto alcun sollievo ai suoi malesseri, l’averle infine rovinato quella gita domenicale in cui aveva subito gli ingiusti rimbrotti di una indesiderata compagnia e l’indifferenza di sua madre che non l’aveva per niente difesa. E proprio in quest’ultimo acre rimescolamento del recente passato le precipitò dentro, come un macigno, l’amara sensazione di non poter trovare più in mamma Giacinta amicizia ed aiuto nelle difficoltà, di vederla lontana da lei e vicina alla sorella Elena e alla nipote Adriana. Avvertì, come per istinto, la sensazione di essere come accerchiata da una manovra di malevolo assedio, che l’aveva man mano soffocata, cui avevano partecipato, per scopi incomprensibili, medici torturatori senza medicine e medici indiscreti senza medicine. Tutte le vicende le sembrarono avvolte da una colorazione grigiastra, d’insincerità e di disamore. Inventandosi il ricovero in ospedale del nonno, si erano tutti adoperati per non farle incontrare l’unica persona del cui affetto era sicura. Tutto per l’invidia e la gelosia di Adriana.

Dopo alcuni minuti mamma Giacinta risalì nella camera da letto della figlia. Non sapeva che fare e che dire. Tentò ancora di temporeggiare, s’inventò malattie del nonno non guarite del tutto, forse contagiose, e rimase a spiare attenta le reazioni di Esterina, temendole. Le colse evidenti ed immediate negli occhi della figlia, mai visti prima così penetranti, nello sguardo severo, determinato, implacabile, da scorgervi in profondo chiari lampi di aggressività. Si sentì indifesa. L’aspettava una resa senza condizioni, quando Esterina la incalzò sillabandole in viso poche e decise parole: “Io guarirò solo se riabbraccerò nonno!” A sentirle, non era possibile crederci, la sua ragazza farneticava, era fuori di senno, ma era divenuta temibile, poiché dietro quei toni inusitati era chiaro il proposito di scaricare addosso alla famiglia un’accusa di menzogna, che non si poteva giustificare chiarendo la vera natura dell’ “amore” del nonno, ora che Esterina aveva sepolto per sempre ogni ricordo spiacevole, con un meccanismo analogo e parallelo della sua affettività. Nel cedimento finale guardò meglio dentro di sé: l’unica via di uscita era la stessa che le avrebbe fatto riconquistare l’affetto di sua figlia.

Alcuni giorni dopo, in un tardo pomeriggio, Esterina saliva correndo su per lo stradone, al culmine del quale si ergeva il casolare. Il nonno l’attendeva con le spalle rivolte al tramonto, proprio lì davanti, per stringerla in un lungo abbraccio. La sua folta capigliatura bianca riluceva della luce delle stelle, ma parve che l’aria venisse lacerata dagli irrefrenabili singhiozzi del suo rimorso, che solo ad Esterina sembrarono di gioia. Quel pianto convulso non poteva giungere all’orecchio di mamma Giacinta, che già da qualche minuto sedeva vicino al ruscello, per non assistere a quell’abbraccio e per poter versare in solitudine le sue lacrime amare.

Avellino 24 novembre 2014