Procedevamo in fila indiana parlando pochissimo, quel tanto
che bastava a capire la direzione da prendere. Poi di nuovo muti.
Sapevamo, però, che quel silenzio si sarebbe rotto lentamente con
lo scendere del buio, per scaldare quel nostro sentirci dispersi.
Eravamo lontani da un luogo dove poter essere al sicuro, solo il
nostro rimanere uniti ci confortava. Il nostro piano era di
marciare ad est, verso l’altipiano Morghes, dove avremmo poi
dovuto costruirci un rifugio provvisorio. Costretti a più di una
deviazione per non essere travolti dai centauri Ergali, coi loro
cani addestrati ad uccidere. Da quando eravamo stati derubati dei
nostri horse con l’inganno, solo Aquila di mare, il più anziano,
infondeva fiducia al gruppo col suo carisma tra lo stregonico e
il sacerdotale. Di notte sognavo il dialogo tra me e la catena.
Conoscevo il limite, quando la simbiosi si fosse rotta, e perciò
andavo morbido sui pedali, pennellavo i cerchi d’aria: il cielo
scorreva fintanto che il dialogo teneva, coi tagli e i graffi
luminosi, con le mille piccole esplosioni. I confini parevano
bucherellati e sognavo le pistole del West. Con noi avevamo solo
delle framee, utili contro le belve, ma non contro gli squadroni
e gli stormi nemici. Irradiare: questa la parola chiave. Tutto
contratto nel mio baricentro, dovevo soltanto emettere un sibilo,
il sibilo avrebbe scatenato il fragore di mareggiata verso le
ottomila direzioni. Già sentivo il profumo di spuma. Schegge,
pezzi di colore: adesso tutto si stacca verso il fuori, e la
compressione si spande con assoluta perdita dei sensi.

 

 

 

Passeggio pei bassi boschi,

l’iride è umida ma assetata,
morente e bambina:
è la memoria. Che guarda
e fa suo l’immobilismo assolato,
ascolta e avvolge le lontananze.
Scivolando il sole sulle ringhiere d’acciaio
offre il suo frutto maturo alle buche della mente.
I palazzi s’arrendono alle geometrie di luce,
gli uomini si distendono su declinazioni d’asfalto.
I boschi osservano attraverso le nostre iridi
il limite ingannevole tra ciò che è vivo
e ciò che è morto; discernono con acume
le differenze tra le foglie.
L’immobilismo è una venatura che tiene,
ma che potrebbe cedere.

Sul monte, al castello levigato di bianco,
si arroccano piccoli demoni: la loro trasparenza
ora sventola in modo esagitato,
ora s’adagia come mare calmo.
Pur essendo lontana nello spazio, la fortezza
è più che viva nella mente: sostiene il petto,
gonfia dal basso come su d’una vela.

Assorbire luce è l’istinto delle cose
e la fatalità della pietra.
Le mele non più possono essere mangiate
se non col ramo: perforano disumane.
E l’azzurro si fa interiore.

 

 

 

Cascàmi ostensivi

a fior di pelle
forcludono sottrazioni
spensierate d’oltreoceano.

Tutto con molta calma
ed estremo senso dei
tempi tangenti.
Due azioni distinte
e asintotiche per
essere esperite
devono essere bucate
vicendevolmente
da attenzioni, e nel
profondo si fondono
nel letto di un fiume.

I gesti concreti direzionati
nei sensi di un’evanescenza
concezionale. Le lamiere
sono pure avvolte anch’esse
nella luce gesuitica d’origine.

Le suggestioni su carta giallastra
di forme lievitanti al di sopra e al di sotto
scricchiolano in profumi
di matematiche fascinazioni,
l’aria è pregna di assenze.
Obnubilamento di terra
da riporto, dimenticanze.