Il Dolce Bacio del Castellaccio

Racconto di Rambaldo di Torres (pseudonimo di Giancarlo Pinna)

 

Più di mille anni or sono, per quasi tre secoli, Torres era, come tutti sanno, un Regno che portava il nome dalla sua capitale, Torres, appunto.

Da quella gloriosa città, chiamata dal 46 avanti Cristo Turris Libisonis, unica colonia iulia di Roma in Sardegna, fondata da Giulio Cesare, un vero Re, chiamato anche Giudice, poiché amministrava anche la giustizia, guidava uno stato esteso più di un quarto dell’ intera Isola.

Oltre il Regno di Torres, in quel tempo vi erano in Sardegna i Regni di Gallura, di Calari e di Arborea.

Spesso quei quattro regni facevano guerra persino tra di loro per questioni di confini oppure perché rispettivamente alleati di potenze straniere in lotta per la supremazia nel Mediterraneo: vi era, per esempio, chi parteggiava talvolta per la Repubblica Marinara di Pisa e chi per quella di Genova, da sempre nemiche giurate.

Le guerre dei turritani, così si chiamano gli abitanti del Regno di Torres, contro i nemici, corsari musulmani, altri popoli d’oltremare erano allora molto frequenti.

A quei nemici che venivano dal mare facevano gola le ricchezze dei regni sardi.

Spesso quei barbareschi approdarono nel Porto di Torres, spingendosi perfino ad entrare nella grande Basilica Cattedrale di San Gavino, dedicata ai Santi Martiri Turritani Gavino, Proto e Gianuario, che anche allora era fortificata tutt’attorno.

Questo accadeva, come di diceva, nonostante la chiesa più importante del Regno fosse studiata per resistere agli assalti del nemico.

Gli arabi poi avrebbero voluto defraudare i fedeli turritani delle reliquie dei cari Santi Martiri.

Però, grazie a Dio, mai riuscirono in quell’impresa! Le preziose reliquie erano state ben nascoste nel tempio senza che nessun segno esteriore segnalasse sul pavimento dove esse esattamente fossero sepolte.

Torres era una città abbastanza tranquilla, il suo popolo era dedito principalmente a coltivare la terra e ad allevare il bestiame.

I suoi Re, i principi e le principesse erano talvolta dei personaggi veramente eccezionali a cui il popolo voleva un gran bene.

Molto colti, governavano il popolo insieme alla Corona de Logu, un parlamentino eletto dai lieros, gli uomini liberi del regno.

I Re avevano relazioni con buona parte del mondo allora conosciuto. La Sardegna, infatti, a quei tempi non era così isolata come generalmente si pensa ed i sardi in quel periodo non avevano alcuna paura di navigare.

I matrimoni di componenti la monarchia turritana con esponenti di nobili famiglie continentali furono tanti.

Per esempio: Adelasia, la nostra ultima ed unica Regina, cantata in alcuni carmi per la sua bellezza e per la capacità nel governare, persino da Jacopo da Lentini, cancelliere e segretario di Federico II, sposò in seconde nozze, dopo essere stata vedova di Ubaldo Visconti Re di Gallura, Enzo di Svevia, trovatore e grande uomo di cultura, figlio dello stesso imperatore Federico II.

Quando Enzo la abbandonò, solo a qualche mese dalle nozze, Adelasia ebbe, così qualcuno racconta, una storia sentimentale con Michele Zanche, amministratore del regno di Torres e noto faccendiere, uomo senza scrupoli, di cui si occupò persino il sommo poeta Dante Alighieri che lo sistemò nell’Inferno della sua Divina Commedia nel girone dei ruffiani e dei barattieri.

Degna di essere ricordata è la principessa bellissima Maria. Figlia di Comita III di Torres e di Sinispella di Arborea, vedova del catalano visconte di Bas Ugo Ponce de Cervera.

Maria di Torres visse intorno al 1200 e Raimbaud de Vaqueiras, in italiano Rambaldo, il celebre trovatore provenzale, la chiamerà Maria “la Sarda”.

A costei dedicò alcune sue composizioni poetiche e musicali in cui la descrisse come “una delle dodici donne più belle del mondo”.

Si dice che Rambaldo, che conobbe Maria a Torres, si fosse invaghito della bella principessa.

Egli sapeva però che a nulla poteva valere il suo sentimento nei confronti di quella donna bellissima. A quei tempi, com’è noto, era impossibile che un uomo, seppur importante per la sua cultura, ma nelle cui vene non scorresse sangue nobile, potesse aspirare alla mano di una principessa.

Eppure, narra Alberto marchese di Malaspina, lui pure gran trovatore ed amico del musico e poeta provenzale Rambaldo, riuscì inaspettatamente persino a rubare un bacio alla bellissima Maria.

Ciò avvenne in quel Castello, chiamato qualche secolo più tardi Castellaccio, che si trovava nella splendida Isola di Sinuaria, proprio dirimpetto alla Città di Torres.

Il maniero, fatto costruire dalla nobile famiglia della Lunigiana dei Malaspina, ceduto in seguito ai Doria, accoglieva qualche volta i reali di Torres.

Essi vi risiedevano per qualche giorno, sfuggendo così, su quel colle, alla calura estiva della capitale.

Accadde un giorno che la bella Maria, recatasi nel castello con una piccola corte di servos ed ankille, incontrasse un giorno proprio lì il suo ammiratore Rambaldo.

Conquistata dal dolce canto e dal gentile eloquio del trovatore, in una notte agostana di luna, in quel castello magico, gli concedette un dolcissimo, appassionato bacio.

Non si andò oltre, a detta di Alberto Marchese di Malaspina, ma la giovane fanciulla, che peraltro era già promessa sposa a Bonifacio del Vasto marchese di Saluzzo, uomo bello, nobile e potente, continuò ad incontrarsi con il cantore della sua rara bellezza.

Maria, fedele alla sua promessa al Marchese Bonifacio, non concesse però mai ulteriore possibilità al pur caro e devoto amico Rambaldo!

Passarono molte notti insieme, sotto la luna, e, in gentile colloquio, attendevano insieme, spesso, il sorgere del sole.

In tutte quelle notti, la principessa Maria di Torres, per ricompensare Rambaldo delle sue cortesi ed assidue attenzioni, fece sempre un dono al trovatore garbato.

Era qualcosa che, in qualche modo, ricordava a lui quell’unico bacio appassionato in quella splendida notte di luna.

Il dono era un bianco dolce, ripieno di una pasta gustosissima, che, nella sua forma ricordava vagamente le labbra della bella Maria.

Lei stessa preparava quella prelibatezza con le sue mani che, da quel momento, volle chiamare il Dolce Bacio del Castellaccio.

La ricetta gli era stata dettata da sua madre Sinispella, quando ancora era sposa di suo padre Comita III di Torres.

Si sa che infatti che quel Re di Torres divorziò da Sinispella e sposò Agnese di Monferrato, sorella di Bonifacio.

Ma la ricetta di quel dolce, che non sappiamo come allora venisse chiamato, pare però fosse molto più antica. Fu una monaca benedettina a confezionare per prima quel saporitissimo dolce.

La stessa Maximilla, celebre abbadessa della Abbazia delle monache benedettine di San Pietro in Silki, ne conosceva la ricetta e, molto spesso, alcuni di quegli ottimi dolci venivano anche spediti in dono persino all’ Arcivescovo Turritano, forse per rabbonirlo un po’ e cercare di accattivarsene la simpatia.

In quel periodo, il prelato era particolarmente incollerito con Maximilla perché, a sua detta, aveva portato via alla Diocesi la chiesa di San Giovanni di Usini.

Il grande Re Gonario II di Torres mise fine alla contesa in una memorabile udienza proprio nella Basilica di Torres. Stabilì definitivamente che la Chiesa fosse assegnata all’ Abbazia, perché così, del resto, suo nonno Re Mariano di Torres aveva deciso quando assegnò la dotazione alle monache di Silki.

Proprio tra i vecchi documenti di un antico Monastero, la ricetta del Dolce Bacio del Castellaccio è pervenuta a noi che, dopo tanti secoli, possiamo avere il piacere di gustarlo e ricordare così i bei tempi di Re, principi, principesse, arcivescovi, poeti, musici, castelli, storie di armi, di amori, di cattedrali, della vita in genere dello splendido Regno di Torres.

Ma che avvenne, poi, di Rambaldo?

Può essere interessante sapere che la sua cultura e la sua arte era così ricercata che, Bonifacio I di Monferrato lo volle con sé nel Marchesato di Saluzzo per dare lustro, con la sua cultura a quello stato.

A corte Rambaldo continuò, come aveva fatto nel suo girovagare per le corti europee, a decantare le bellezze muliebri, a raccontare e cantare storie amorose alle belle dame che lo ascoltavano sempre con grande piacere ed attenzione.

Soprattutto ad una certa Beatrice il trovatore dedicò delle belle ed appassionate poesie in musica.

Tutti pensavano che oggetto delle sue principali attenzioni fosse quella bella cortigiana, molto nota in tutto il Marchesato, che aveva il nome di Beatrice… Ma non era esattamente così!

Beatrice, la sua musa, era nientemeno che la giovane sorella del Marchese Bonifacio.

A nessuno però era mai saltato in mente di pensare ad una storia amorosa di Rambaldo con la marchesina, tanto meno vi aveva mai pensato suo padre.

Un giorno, la marchesina Beatrice, sposa del nobile Enrico del Carretto, alla quale evidentemente piaceva molto scherzare e con la quale Rambaldo viveva la storia più bella della sua vita, vestì   l’ armatura da guerra di suo fratello.

Da quel momento le poesie indirizzate a Beatrice furono dedicate ad un fantomatico “Bel Cavalier”.

La cosa suscitava un certo sconcerto, si palesava una certa ambiguità nei versi di Rambaldo e le cortigiane che ascoltavano le sue declamazioni dirette ad un “cavalier” non riuscivano certo a capire che fosse successo al poeta che era stato sempre attratto dalle donne.

Ma come? A Rambaldo può interessare un altro uomo?

In effetti, quella casuale trovata serviva ancor meglio a dissimulare i suoi sentimenti per la marchesina Beatrice.

Un giorno, come capitava abbastanza spesso nelle corti di quell’epoca, il Marchese Bonifacio andò a caccia con tutto il suo seguito di servi, cavalli, cani e quanto altro serviva alla bisogna.

Arrivati sul posto, si accorse però di aver dimenticato a casa una arma regalatale dal suo cognato e suocero Comita III di Torres! Egli la portava sempre con sé nelle battute di caccia.

Era un oggetto da guerra, ma poteva servire anche per la caccia grossa. Si chiamava “virga sardisca” o “virga ilia”, quell’arma era una via di mezzo tra una spada ed un giavellotto.

I soldati di Torres, comandati da Saltaro, alleati dei Pisani nella guerra delle Baleari, usarono proprio quello strumento che servì a vincere la guerra degli alleati turritani e pisani contro i musulmani.

Ad ogni buon conto, Bonifacio lasciò immediatamente la brigata per correre nel suo palazzo e recuperare la preziosa virga.

Entrato nel palazzo improvvisamente, passando dalle parti delle stanze da letto, scoprì sua sorellina Beatrice e Rambaldo giacere insieme a letto in un atteggiamento che non si prestava certo a… Dubbie interpretazioni!

La sorpresa fu grande per Bonifacio e per i due amanti!

Il Marchese, riavutosi, dopo un forte, ma breve, attacco di collera, si calmò e si dimostrò molto clemente con Rambaldo.

Questi, che forse avrebbe potuto subire persino la morte per ciò che aveva fatto, era però diventato così importante e prezioso per il Marchesato, dava così lustro la sua presenza, che il buon Bonifacio sentenziò:

“Continuate pure ad amarvi, purché fuori del palazzo nessuno sappia mai di questa storia!”

E vissero tutti a lungo felici e contenti…? Non fu esattamente così. Bonifacio I, dopo la vittoria alla quarta crociata divenne nel 1205 Re di Salonicco e Rambaldo ebbe un feudo in quel regno, esattamente il 4 settembre 1207 il Marchese ed il trovatore furono uccisi in una rivolta di ribelli bulgari.

Una precisazione, chi ha raccontato della storia piccante tra Rambaldo e Beatrice?

E’ stato l’amico e confidente Alberto di Malaspina, che diffuse la notizia nelle corti di mezza Europa!

Come dire: Vatti a fidare degli amici!


DAL SAHARA TUNISINO…

Un viaggio veramente interessante del quale forse vale la pena riferire. Ero già stato in Africa, almeno tre volte in Marocco, negli anni ’80, quando da giramondo “istituzionale”, ero Vice Sindaco di Porto Torres, andavo a parlare in congressi e conferenze del mio sogno di trasformare un penitenziario in un parco naturale. Tangeri e Casablanca sono state le mie mete. Il ricordo di quei giorni è legato a tante persone, a tanti luoghi splendidi, ad una cultura così diversa dalla nostra ma con una matrice unica: il Mediterraneo, culla di tante civiltà, luogo stupendo ed unico in cui, per dirla con Pedrag Matejevich, si può “coniugare l’arte con l’arte di vivere”.

A pensarci bene è così, perlomeno per tutti coloro che si affacciano nel Mediterraneo che tengano conto della propria identità, delle proprie tradizioni, risultanti da millenni di storia di civiltà diverse.

Il viaggio dal quale sono reduce da qualche giorno è stato un po’ diverso. Un nuovo Paese, la Tunisia, e persino l’esperienza di un giorno nel Sahara, insieme naturalmente ad altre cose ed incontri umani interessanti.

Noi “occidentali” chiamiamo Deserto del Sahara quella grande distesa arida con infinite dune di sabbia che appartiene a diversi paesi africani. La nostra però è una espressione impropria, spiega Habib, la magnifica guida tunisina che ci accompagna, infatti Sahara significherebbe già di per sé “Deserto” e, quindi, quando noi occidentali ci riferiamo al “Deserto del Sahara”, gli arabi ci correggono, perché la nostra espressione significherebbe presso di loro “Deserto del Deserto”.

Espressione impropria che, però, mostra il senso di una grande verità! Se pensiamo, soprattutto, che il Sahara è veramente il massimo dell’aridità alla quale la Terra possa arrivare!

Veramente il “Deserto del Deserto” può indicare la massima, la più estesa porzione del Pianeta, la più inospitale per tutti gli esseri viventi.

E’ comunque creatura di Dio, così ho sempre pensato, e, come tutte le altre, avrà pure una funzione. Magari non solo una, ma forse tante funzioni… Ricordo a me stesso che, per esempio, ha avuto sempre una funzione importante presso gli Ebrei, e, quindi, presso Gesù ed i suoi seguaci… Mi pare capire: Deserto quasi come necessario all’uomo, quindi anche per me, piccolo uomo, arrivato dopo il compimento dei suoi sessantanni dalla Sardegna, per fare qualche giorno di vacanza insieme a diverse persone di famiglia che gli hanno donato questa possibilità.

Sono arrivato a Douz, la Porta del Sahara, dopo trecento chilometri percorsi dall’Hotel di Djerba, ed ho attraversato insieme ad otto impavidi su un piccolo autobus i quattro gradi in cui le zone desertiche sistematicamente possono essere definite, in scala ascendente per difficoltà di sussistenza per gli esseri viventi: un primo deserto (il grande lago salato), un secondo (il deserto stepposo), un terzo (il deserto roccioso) e finalmente il “Deserto del Deserto”, il Sahara.

Habib, fratello islamico, angelo custode di quella giornata, dice a noi: – Sappiate che Honoré de Balzac definisce il Sahara come “Dio senza l’uomo”.

Quella espressione è stata da me condivisa subito, e non solo da me. Mi sono accorto: io piccolo uomo, insignificante, ero come entrato a casa Sua. Ho visto, ho constatato, con gli occhi del cuore, quanto le parole dello scrittore riflettessero per me la realtà!

Ho incontrato anch’io, come del resto molte altre persone, in quel luogo, Lui, il mio Dio, il Grande Amico… Un uomo piccolo come me, sì proprio io, da sempre molto fortunato, quasi eletto, ha potuto sentire quasi fisicamente, in quella distesa silente, in quel mare sterminato di sabbia, la presenza del suo Creatore, di quel Dio che ci ama d’una follia infinitamente superiore alla nostra e che ci viene incontro con il Suo sorriso.

In quel silenzio mi pareva di acoltarLo, di parlare con Lui, ho capito ancora molte altre cose di Lui. Ho chiesto a Lui, Infinitamente Misericordioso, perdono delle offese compiute durante tutta mia vita, della mia inadeguatezza a poter essere considerato Suo figlio, soprattutto nel non sapere amare come Lui e Cristo Gesù ci hanno insegnato, delle colpe commesse talvolta inavvertitamente, anche di quelle nei miei confronti e della mia vita.

Ho pregato anche perchè le persone offese abbiano modo di perdonarmi.

Ho ringraziato quindi il Signore per i grandi doni da Lui ricevuti, talvolta inaspettati, dolcissimi per me, per tutti gli Angeli, Suoi messaggeri, che mi ha inviato incontro per rendere la mia vita più semplice, nonostante le obiettive difficoltà!

Spero che questa voglia di Sahara, questa sete, non mi lasci mai… Lo scopo per cui ne parlo e perché intendo rendere un servizio a chi, attraverso queste parole, senta di voler sperimentare un momento intenso di spiritualità in un luogo ricco di magia e suggestioni.

Queste righe sono venute fuori dal mio cuore, sconquassato ma ancora capace, per grazia di Dio, di amare e, come un semplice dono le propongo a chi ha la bontà di leggerle.

 

Giancarlo Pinna

 

Djerba, 6 gennaio 2007, Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo.


TE DEUM LAUDAMUS

 

ovvero

 

INCONTRI CON GLI ANGELI

 

DEDICA

 

ALL’AMICA MIA DILETTA

DEDICO CON GRATITUDINE QUESTE MIE PAGINE

NELLA QUALI HO ENUMERATO

PARECCHI DEI TANTI ANGELI

CHE IL SIGNORE, NELLA SUA INFINITA’ MISERICORDIA,

MI HA INVIATO PER ILLUMINARE IL MIO INCEDERE

NELLA MERAVIGLIOSA VITA CHE HA AVUTO

GRAZIA DI DONARMI.

 

TE DEUM LAUDAMUS, SIGNORE,

PER OGNI ISTANTE DI VITA CHE MI HAI DONATO.

TE DEUM LAUDAMUS PER TUTTI GLI ANGELI INCONTRATI

E IN PARTICOLARE QUESTO ULTIMO APPARSO SULLA MIA STRADA E

DI CUI SCRIVO PER PRIMO

 

Amica mia diletta.

 

Pirata

stringo

e cingo

il tuo

corpo

scrigno

del tesoro

debordante

di tue

rare

fattezze

di bellezza

di musica

di poesia

di bontà

assolute

felicemente

promesse

a me

improvvisamente

donate

a me

inconsapevolmente

raccolte

nella vendemmia

della vita

quand’essa

pareva

finita

agli occhi miei

pieni

di cecità

 

di vedere

la profondità

di quello

splendido

gioco

chiamato

Amore.

 

GLI ANGELI CHE PARLANO… ATTRAVERSO IL TUO ESEMPIO LUMINOSO

Attraverso il tuo esempio luminoso, non cercare altro che il Divino, non dire altro che laVerità, non agire se non nell’Amore.

Osserva la Legge dell’Amore, nel presente e sempre.

Evita la volgarità.

Non accettare l’inaccettabile.

Insegna a tutti quelli che lo vogliono a conoscere Dio.

Fa’ di ogni istante della tua vita uno straripamento d’Amore.

Utilizza ogni istante per pensare il pensiero più elevato, per pronunciare la parola più elevata.

Facendo ciò dai gloria al tuo “Io Sacro” e, di conseguenza, dai gloria a Dio.

Porta la Pace in terra, porta la Pace a tutti quelli di cui porti la Vita nel cuore.

Che tu sia la Pace.

Senti ed esprimi in ogni istante la tua Divina Relazione con il Tutto e con ogni persona, ambiente e cosa.

Accetta ogni circostanza, assumi ogni difetto, dividi ogni gioia, contempla ogni mistero, mettiti nei panni di ogni persona, perdona ogni offesa (comprese le tue), guarisci ogni cuore, rispetta la Verità di ogni persona, adora Dio in ogni persona, favorisci la crescita di ogni persona, presumi la santità di ogni persona, presenta i più grandi doni di ogni persona e favorisci l’avvenire di ogni persona nella sicurezza dell’Amore assicurato da Dio.

Tu sia un esempio vivente ed animato della Verità più elevata che sta in te.

Parla umilmente di te stesso, affinché nessuno prenda la tua Verità più elevata per vanteria.

Parla dolcemente, affinché nessuno creda che tu non faccia altro che attirare l’attenzione.

Parla gentilmente, affinché tutti possano conoscere l’Amore.

Parla apertamente, affinché nessuno creda che tu hai qualcosa da nascondere.

Parla con sincerità, affinché non sia male inteso.

Parla spesso, affinché la tua parola possa progredire nella Verità.

Parla rispettosamente, affinché nessuno sia disonorato.

Parla con Amore, affinché ogni sillaba possa guarire.

Parla di Dio ogni volta che pronunci una parola.

Fa’ della tua vita un dono. Ricordati sempre, sia tu il dono!

Tu sia un dono per tutti quelli che entrano nella tua vita e per tutti coloro nella cui vita tu entri.

Prendi cura di non entrare nella vita di coloro per i quali tu non puoi essere un dono.

(Tu puoi sempre essere un dono, perché tu sei sempre il dono, anche se talvolta tu non riesci a capirlo).

Quando qualcuno entra nella tua vita in maniera inattesa, cerca di capire il dono che questa persona è venuto a ricevere da te.

Perché, altrimenti, sarebbe venuta verso di te?

Io ti dico: ogni persona che è venuta verso di te l’ha fatto per ricevere un dono da te.

Nello stesso tempo, ogni persona che viene verso di te ti fa il dono di scoprire e gustare

CHI TU SEI.

Quando osserverai questa semplice Verità, quando la comprenderai, tu scoprirai fra tutte la più grande Verità:

NON TI HO INVIATO ALTRO CHE ANGELI!

Durante uno dei miei tanti viaggi, mi trovavo in un treno diretto verso gli amici dell’Abbazia Cistercense della Stretta Osservanza (Trappisti) di Orval (Belgio).

Nei pressi del mio sedile raccolsi da terra un foglio manoscritto in lingua francese… Non sono mai riuscito a sapere chi ne fosse l’autore, ma quei pensieri mi parvero così interessanti, così pieni di saggezza che decisi di farne una traduzione in italiano e divulgarla.

Il testo è esattamente quello che ho trascritto per te in questo foglio. Esso sia un mio piccolo dono a te, persona entrata in maniera inattesa nella mia vita. Fraternamente

Giancarlo

 

PRESENTAZIONE

 

Cari lettori,

questo libro desidera rendere conto al Signore di tutti quei benefici che mi ha donato durante la mia vita: essi sono stati veramente tanti ed hanno fatto sì che la mia esistenza, ormai molto avanti negli anni, sia stata un’avventura veramente straordinaria.

 

Forse anche voi sentite lo stesso sentimento ch’io provo, sento, altresì, il profondo dovere di parlare della mia vita e vorrei farlo senza menare alcun vanto personale, ma ponendo invece in rilievo come tutto quello che mi è occorso sia frutto della Sua continua presenza accanto a me.

 

In fondo il protagonista vero di tutto ciò che vi racconterò è proprio Lui, il mio Signore Buono, Giusto e Misericordioso!

 

Io sono come un docile strumento nelle Sue mani ed è questo il motivo per il quale non voglio assolutamente autocelebrarmi, sarebbe questa l’ultima cosa che farei, ma piuttosto desidero semplicemente innalzare il mio inno di lode a Dio, senza tanti fronzoli e, soprattutto, senza tacere anche episodi che possono sembrare apparentemente persino dolorosi e sgradevoli.

 

Tutto nella mia vita, le cose più belle e quelle che mi sembravano meno belle, hanno avuto una benefica funzione e la lode a Dio è la minima cosa ch’io possa compiere.

 

Ecco perchè le mie pagine portano il titolo “Te Deum Laudamus”, lo stesso di quel canto che alla fine dell’anno i cristiani intonano per ringraziare il Signore per i benefici ricevuti durante il corso dell’anno appena trascorso.

 

“Te Deum Laudamus” è invece, nel mio caso, il ringraziamento a Dio per ogni istante della mia vita.

 

Il sottotitolo ”Incontro con gli Angeli “ costituisce come una qualche metodologia per dare alle mie considerazioni qualcosa di abbastanza sistematico che serve ad illustrare i fatti attraverso quegli Angeli, autentici Messaggeri di Dio, che ho continuamente incontrato nel mio cammino.

 

Il primo Angelo di cui scriverò è uno degli ultimi, uno di quelli più recenti di questo tempo che attualmente vivo. Uso chiamare questo Angelo amica mia diletta, la stessa donna a cui ho deciso di dedicare i miei racconti.

 

L’AMICA MIA DILETTA

 

La conoscenza con questo Angelo risale a metà del settembre del 2010, io ero già malato abbastanza seriamente; diabetico da tanto tempo e due infarti, uno nel 2005 e uno nel 2010, mi avevano ormai reso inabile, ma l’ausilio di una carrozzina elettrica, una sorta di scooter, rendeva possibili i miei spostamenti in città per adempiere ad un sacco di incombenze.

In effetti non ho mai sopportato che le mie limitazioni fisiche mi impedissero di fare, comunque, quello che ho sempre considerato il mio dovere: servire la mia Città e la mia Patria mettendo in gioco tutti i talenti che, in maniera abbondante, il Signore mi ha donato.

 

Un giorno alcuni amici della Sezione Unitalsi della mia Città, sempre sensibili con le persone disabili bisognose di attenzione, mi rivolsero un invito che subito accettai: “Senti, domenica saremo in tanti provenienti da diversi centri vicini per partecipare ad una bella festa, perché non vieni con noi?”

 

E così quella domenica mattina mi ritrovai con tante persone su un autobus che ci avrebbe dovuto condurre a Fertilia, a circa venticinque chilometri da casa mia, dove era stata programmata la “Festa dell’Amicizia”.

Mi ero accomodatoto negli ultimi posti e attendevo la partenza… Quando vidi salire dal portello anteriore una ragazza… Bellissima.

Ero particolarmente attratto da quella donna e cercavo di capire chi mai fosse, infatti non l’avevo mai vista prima in città…

Continuavo a rimuginare curiosamente pensieri nella mia mente…

E mi ponevo sempre lo stesso interrogativo…Ma chi sarà mai? Ma forse sarà l’hostess dell’autobus?

Ma non può essere, mi dicevo… Conosco il proprietario dell’autobus e, sicuramente… Non si può permettere il lusso di pagare una hostess… Pensavo, addirittura, che fosse già molto se rifornisse regolarmente l’autobus di carburante…

 

Partimmo e, dopo appena venti minuti, eravamo già a Fertilia, nella piazza antistante la chiesa di San Marco. Lei scese dall’autobus dalla parte anteriore ed io dalla parte posteriore… Subito le andai incontro e le dissi a bruciapelo, seppure con un certo imbarazzo: “Ciao, e tu da dove sei… Venuta fuori?”

E lei: “Sono nata a Porto Torres e adesso abito in una campagna vicina! Sono nata a qualche metro dalla Basilica di San Gavino… Questa donna che sta con me è mia madre e sono qui proprio per accompagnare lei, che, come vedi, ha bisogno di vivere con l’impiccio di tenere una maschera collegata con una bombola d’ossigeno”.

 

Quella donna da vicino mi parve ancora più bella, mi parve anche molto giovane, aveva però, a parte il fascino dato dalle sue sembianze fisiche, dai capelli neri corvini, dai luminosi magnifici occhi, dalla vellutata epidermide chiara, qualcosa, che peraltro non riuscivo ancora razionalmente a spiegarmi, che mi spingeva al desiderio di conoscerla interiormente…

 

Insomma, alla fine quel minimo di conversazione fu interrotta perché tutta la compagnia arrivata a Fertilia per la “Festa dell’Amicizia” prese posto nella chiesa di San Marco per partecipare all’Eucaristia… La chiesa, pur capiente, era stracolma di gente e io trovai posto abbastanza vicino a quella ragazza e a sua madre.

 

Sarei un ipocrita se dicessi che, anche se ho considerato sempre la partecipazione alla Santa Messa come un momento di speciale concentrazione adatto a trovare il colloquio mistico con il Signore, io non cercassi di tanto in tanto di osservare quella splendida creatura badando bene, soprattutto, che lei non se ne accorgesse… Comunque quell’incontro in chiesa fu molto bello e il celebrante, durante l’omelia, si soffermò particolarmente sul profondo significato dell’Amicizia.

 

La persi di vista, era tanta quel giorno la gente che si era data appuntamento a Fertilia…

La rividi solo all’ora di pranzo, quando tutti cominciarono ad affollare i marciapiedi della strada principale che si provvide a corredare di tavoli e sedie, in un lato e nell’altro.

Io capitai da una parte, dove incontrai una bella e allegra compagnia, e lei era quasi di fronte a me, sull’altro lato della strada… Mangiai qualcosa, risi e scherzai un po’ con i miei improvvisati commensali e, a un certo punto, finsi di avere la necessità impellente di lasciare quel momento conviviale… Dissi che le mie condizioni di salute erano tali che obbligatoriamente sarebbe stato opportuno… Stare alla larga dal cibo.

 

Sapevo esattamente dov’era lei e, dopo un piccolo giro di ricognizione, nel quale in tanti facevano a gara per offrirmi qualcosa da mangiare, ero lì di fronte a lei e sua madre e cominciai a rivolgerle qualche domanda: “Ma, sei fidanzata?”

E lei “No…Sono sposata!”

E sua madre: “E suo marito è anche molto geloso! E’ anche madre di due figli, un ragazzo di ventuno anni ed una ragazza di sedici anni…”

 

Non credevo alle miei orecchie, non sapevo più se mamma e figlia si facessero gioco di me e mi stessero prendendo in giro… Mi sembrava impossibile che una ragazza che a me appariva così giovane fosse già madre di due figli di quell’età.

La realtà mi fu spiegata dalla madre: “Matrimonio da giovanissima e, poi, mia figlia ha già quarantatre anni!”

“Quarantatre anni, io pensavo che superasse da poco la trentina!” Soggiunsi io.

Insomma, il ghiaccio era rotto, la disponibilità di quella splendida ragazza a parlare con me fu immediata e, da subito, si instraurò tra di noi un clima di fiducia e di rispetto che ancora, grazie a Dio, dura e che spero durerà in eterno…

 

Quante cose appresi da lei, della sua vita, della sua visione del mondo, della sua fede incrollabile e quante altre gliene dissi di me, della mia vita, del miei tanti malanni… Quello scambio, favorito da quella particolare occasione, la “Festa dell’Amicizia”, segnò un momento straordinario della mia vita e della sua e, ancora oggi, a più di cinque anni, ambedue lo ricordiamo come un momento magico, prezioso e, persino misterioso.

 

Da quel momento ci siamo trovati tante volte e, soprattutto, non è passata mai una giornata nella quale non ci siamo sentiti almeno due volte al telefono.

Abbiamo sempre molto da dirci, su tante cose, talvolta anche molto profonde e poi troviamo sempre il lato ironico del quale ridere, ridere da matti, a crepapelle.

 

Come dissi prima, quando conobbi la mia amica diletta, avevo già avuto delle particolari sventure relative alla mia salute.

Nel 2010, a seguito di un infarto occorsomi proprio il 14 febbraio, subii un intervento molto serio, mi aprirono il petto e, a cuore e polmoni aperti, mi piazzarono due by pass confezionati con la vena safena della mia gamba sinistra.

 

In seguito a quella operazione mi resi subito conto di avere la seria necessità di trascorrere un periodo post-operatorio in un ambito protetto che mi garantisse tutta una serie di controlli e persino la medicazione quotidiana di quella piaga che inopportunamente si era manifestata sul mio coccige.

 

Io, che vivevo ormai da tanto tempo da solo, avevo capito di non essere capace a potermi occupare di me in maniera autonoma e, scartando a priori, l’offerta generosa delle mie sorelle che si dicevano disponibili ad ospitarmi, presi la decisione di rivolgermi all’amministrazione della Casa di Riposo di cui ero stato presidente seppur per un breve periodo.

 

Mi dissero: “Sei fortunato, abbiamo giusto un posto libero e saremmo ben felici di accoglierti!”

Avevo trovato la collocazione giusta: ogni giorno la possibilità di assumere la mia terapia, composta da una miriade di pastiglie, secondo gli orari previsti, i controlli glicemici e le iniezioni di insulina prima dei pasti e, soprattutto, la medicazione giornaliera della fastidiosa piaga.

 

Dopo un mese dall’entrata nella Casa di Riposo, capii che era impensabile per me prevedere di rientrare a casa mia. A causa del diabete le mie ferite non si sarebbero rimarginate così facilmente e a quel punto presi la decisione che quella sarebbe stata la mia casa sino alla fine dei miei giorni terreni.

 

Dopo che conobbi l’amica mia diletta, vi fu un altro episodio che segnò in maniera indelebile il mio stato di disabile. Come scritto prima ero già inabile al 100% nel 2010, ma nel 2013 la mia situazione divenne ancora più grave.

Fui ricoverato in ospedale perché, a causa del diabete il ditino del mio piede sinistro presentava chiari segni di ulcerazione.

Dissero i medici dopo qualche giorno: “Dovremmo amputarle il dito!”

E due giorni dopo: “E’ meglio forse se le amputiamo anche un altro dito!”

 

Tutte le operazioni di rito e l’anestesia mi portarono alla sala operatoria e infine, dopo il risveglio, la constatazione che mi avevano amputato qualcosa di più… Mi era stata amputata la gamba da circa trenta centimetri sotto il ginocchio!

 

I medici, quasi a scusarsi, si erano precipitati a dirmi: “Abbiamo dovuto prendere una decisione così drastica perché essa le permetterà, comunque di vivere… Sarebbero bastati solo quarantacinque giorni nel ritardare questo intervento operatorio e lei sarebbe passato… A moglior vita!”

 

Dopo l’operazione la mia amica diletta costantemente veniva a trovarmi, ma, molto spesso io non ero neanche in grado di vederla e di apprezzare la sua sollecitudine… Ero entrato in una fase nuova della mia degenza in ospedale…Inaudita rispetto alle tante altre volte in cui ero stato ricoverato.

 

Appena dopo aver subito l’amputazione cominciarono a farsi vivi dei dolori lancinanti e, appena i medici si accorsero che i calmanti che mi venivano somministrati usualmente non erano assolutamente efficaci, si passò a preparati a base di morfina o, comunque, di oppiacei.

Questo trattamento mi ha reso incosciente della realtà in cui vivevo per almeno un mese.

Avevo nella mia mente alcuni fatti assolutamente fuori della realtà che, però, a me sembravano veri e che, soprattutto, mi provocavano incubi che mi provocavano un continuo stato di ansia e di apprensione.

 

Nella mia mente avevo da recriminare che da parte del personale dell’ospedale non avessi quell’assistenza a cui avevo diritto e, disperato, feci persino chiamare il poliziotto di servizio presso l’ospedale e, sotto dettatura, gli feci scrivere un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale.

In esso addebitavo al Direttore dell’ ospedale la responsabilità della mancanza di rispetto del mio diritto di malato.

Avevo realizzato che l’esposto, dopo qualche minuto sarebbe venuto a conoscenza del Direttore, il quale avrebbe sentenziato: “A questo gliela dobbiamo far pagare!”

 

Questa affermazione rimbalzava nella mia testa, incapace prmai di seguire alcun filo logico…Me la farà pagare! Ma come?

Vedevo da ogni parte personaggi assurdi dai quali mi dovessi difendere, tutti per me potenziali killer del Direttore…

Ve ne era uno esilissimo, con le gambe lunghe lunghe che stava continuamente al di sopra della porta della mia camera e che, io pensavo, facesse finta di leggere un libro.

In realtà, secondo me, era lì per controllare che cosa facessi e chi venisse a trovarmi… Quando veniva qualcuno a trovarmi, lo facevo avvicinare al mio orecchio di modo che potessi parlare sottovoce: “Stai attento, che quello ascolta tutto e poi riferisce al Direttore, a quel signore che vuol farmi la pelle!”.

Mi accorgevo che tra le persone che mi venivano a trovare la reazione era diversa: vi era qualcuno che credeva a quello che dicevo e altri che invece sorridevano e pensavano che io fossi uscito di senno.

E’ vero, vedevo, ogni tanto, cose che a me parevano reali. Ad una persona a me molto cara che era venuta a farmi visita dicevo: “Ma tutti quei coniglietti che ti stanno intorno cosa ci stanno a fare?”

Insomma ero allucinato ma me ne sono reso conto solo dopo quella mia esperienza con quelle terribili sostanze che mi venivano somministrate per dare sollievo a quei forti dolori che immaginavo non dovessero mai abbandonarmi.

 

Un giorno venne a trovarmi mio nipote e anche a lui comunicai che di lì a breve mi avrebbero ucciso. Lui non era preoccupato, anzi mi assicurò che, con i suoi amici, avrebbe avuto modo di difendermi da chi avesse cercato di farmi del male…

Il pensiero di finire tragicamente i miei giorni mi perseguitava, non pensavo più che a questo, sia di giorno che di notte, ad occhi aperti o chiusi,. mi nutrivo di pensieri di morte, senza alcuna speranza che mi potessi salvare.

Un giorno ebbi la sensazione che il giorno fatale stesse per arrivare… Vedevo movimenti strani di persone che si spostavano con armi da fuoco e di ciò ne parlai con mio nipote… Egli mi disse: “Non avere paura, io e i miei amici ti proteggeremo, nessuno ti farà del male!”. E così arrivammo al giorno in cui la mia stanza era così lercia da essere paragonabile ad un letamaio…

Era notte fonda ed io riuscii ad uscire dalla camera e passare misteriosamente in un ambiente a me sconosciuto, tanti alberi sui quali erano appollaiati mio nipote e i suoi amici, circa una decina, e un altro gruppo, che aveva la medesima consistenza, con un loro capo, tutti accuratamente vestiti da guerrieri medievali e ciascuno con una pistola fra le mani…

 

I due gruppi si scrutarono e si studiarono per qualche ora e alla fine fui colto di sorpresa quando mio nipote ed il capo degli avversari si abbracciarono, non vi fu nessun conflitto a fuoco e tirai un sospiro di sollievo… Avevo capito che i due erano stati amici in passato e che, essendosi riconosciuti, avevano deciso di soprassedere…

Allora dissi a mio nipote della mia esigenza di rientrare in ospedale e lui mi assicurò che mi avrebbe riaccompagnato dopo essere stato un po’ insieme il suo amico… Aspettai invano per qualche tempo e decisi allora di avviarmi da solo cercando di raggiungere l’ospedale.

 

Riuscii a raggiungere una piazza che conoscevo e trovai un locale, un pub o un ristorante o qualcosa di simile, gestito da persone da me conosciute. Mi chiesero cosa facessi ed io risposi che avrei voluto raggiungere l’ospedale e che avrei aspettato qualcuno disponibile ad accompagnarmi.

 

Passarono in quel locale molte persone che conoscevo, a tutti raccontavo della mia necessità di essere accompagnato, ma nessuno si offrì di darmi una mano… Esausto caddi a terra e qualcuno chiamò il 118… Arrivò dopo pochi minuti , vi erano di servizio due persone, un uomo e una donna, che io riconobbi… Erano due fedelissimi del Direttore e, in quel momento, realizzai che per me era proprio finita!

 

Dissi loro: “Eccoci giunti alla fine, so ciò che dovete fare, ma, prima, vi prego, esaudite l’ultimo mio desiderio, portatemi a Porto Torres, devo partecipare alla Messa di trigesimo di un amico, vi prego!” I due acconsentirono ed ecco che partecipai a quel rito religioso nella Basilica, a pochi metri da casa mia.

 

Non avvenne invece niente di particolare, mi riportanono nella mia camera che ritrovai linda e pulita.

 

Qualche giorno dopo venne a trovarmi mio nipote e, un po’ alterato in viso, mi rimproverò: “Ma zio, questa volta l’hai veramente combinata grossa, io penso non ti sia reso conto del rischio che hai corso per il tuo comportamento irresponsabile… Alla tua età, non ti sei reso conto di come la mafia in Italia abbia messo radici dovunque? Ma non ti sei reso conto che neanche questo ospedale fa eccezione? Ma come hai fatto ad importunare una donna di un mafioso? Guarda, guarda questo biglietto e dimmi se questo nome ti dice qualcosa!”

 

 

Gli dissi: “Più che il nome, è il cognome che a me è noto, è lo stesso di un professore di storia medievale dell’Università La Sapienza di Roma!” E lui: “ Allora è vero, tu conosci  molto bene questa donna… Alla quale hai fatto persino delle proposte… non proprio… Decenti!”

Cercavo di spiegare che non avevo mai e poi mai conosciuto quella ragazza e che, tanto meno, avessi mai proposto a lei alcunchè, di alcuna natura…

 

Sembra incredibile, ma mio nipote, figlio di mia sorella, rimase convinto che il mio atteggiamento di sfida ai mafiosi dell’ospedale potesse concludersi con la mia prematura morte.

 

Questo stato strano di incoscienza, di assenza dalla realtà, durò almeno un mese, sino a qualche giorno dopo il momento in cui un’ambulanza mi riportò a casa… Appena vi arrivai quella casa mi parve alquanto diversa da quando l’avevo lasciata.

 

Era diventata quasi una succursale dell’ospedale… Addirittura anche i pasti venivano serviti allo stsso modo e arrivavano confezionati nei loro involucri di plastica… Altre novità coglievo nell’ aspetto delle camere, si capiva che i letti erano nuovi e così i comodini, gli armadi, insomma tutto l’arredamento era stato rinnovato e l’idea che allora mi assillava era quella di constatare che la mia casa facesse capo all’ospedale e infine a quello stesso… Direttore.

 

L’accoglienza del personale di assistenza e della responsabile fu molto cordiale e, una volta sistemato nel mio letto, volli parlare in privato con quest’ultima.

 

Lei mi ascoltava attentamente e io le spiegai che anche lì, nonostante fossi a casa mia, non mi sentivo sicuro, anche lì i sicari del Direttore avrebbero potuto raggiungermi e uccidrermi. La cosa di cui caldamente la pregai era quella di non parlare con alcuno di quella conversazione…

 

Passò neanche un quarto d’ora che venne a trovarmi il mio medico e mi disse: “Allora, dimmi, chi ti vuole uccidere? Ma sei matto veramente? Allora mettiamoci d’accordo, tu mi devi dire solo quando vuoi che ti chiami un buon psichiatra: adesso, fra un’ora o due! Ma ti rendi conto di essere vissuto per un mese sotto l’effetto di sostanze stupefacenti? A tutto questo sono dovute le tue allucinazioni, le tue paure, le tue ansie, a questo e a nient’altro!”

 

Si è così aperta dentro di me una finestra, avevo capito che, io, che mai avrei liberamente assunto delle droghe, avevo il privilegio di conoscere quale devastazione esse sono in grado di creare nell’uomo che fa uso di esse. Il mio odio verso quelle sostanze, verso chi le produce, verso chi le spaccia, dopo l’episodio occorsomi, mio malgrado, si rafforzò ancor più.

 

Dal giorno della mia amputazione sino alla… Rivelazione del mio medico che mi riportò dall’inferno sulla terra, mi resi conto di aver trascurato qualcosa che abitualmente ho sempre fatto: non un pensiero, non una preghiera verso il Creatore del Mondo, il Padre Giusto e Misericordioso, era stata mai rivolta a Lui, né tanto meno al Figlio, allo Spirito Santo, a Maria e a tutti i Santi!

 

Sembrava che tutto quel patrimonio immenso fosse scomparso d’incanto dal mio cuore e dalla mia mente. Facevo dolorosamente questa considerazione il 15 di settembre, il giorno della Vergine Addolorata, e sentii cingermi come in un abbraccio caldo che mosse la mia commozione… Insieme ad esso sentii chiaramente una voce maschile che dolcemente mi parlava: “Eccomi, io ci sono e mi sono occupato sempre di te, anche se tu non mi hai mai cercato, ho svolto sempre il mio dovere di Padre… Piuttosto, anche ora che sei privo di una gamba non hai giustificazione alcuna a non fare quello che tu sai sia tuo preciso dovere fare, ricordatelo sempre… “

 

Da solo, sul mio lettino, piansi di gioia… Avevo avuto l’ iniezione giusta, e lo Spirito di Dio rientò ancora dentro di me, nel mio cuore e nella mia testa… Tutto era ormai chiaro, anche il fatto che dovessi raccontare al mondo quanto è Grande il Signore per me!

 

In quel momento ritenni giusto partecipare a tutti gli amici il mio ritorno alla vita, partirono dal mio telefonino centinaia di messaggi che erano sostanzialmente l’ invito a vederci, a riprendere i contatti bruscamente interrotti…

 

Molti vennero a trovarmi e tutti mi manifestavano la loro gioia di trovarmi così bene, con un morale ancora più alto di quello che dimostravo anteriormante all’intervento di amputazione.

 

Naturalmente la mia amica diletta mi mostrava sempre la sua felicità per il buon esito di una questione così complicata dalla quale pareva fossi uscito egregiamente.

 

Tutti coloro che mi vennero a trovare furono molto interessati dal mio racconto: si commossero e risero molto delle mie vicende… Allucinate!

 

Essendo costretto a rimanere a letto, la mia occupazione prevalente era costituita da qualche lettera confezionata per il quotidiano locale e per il settimanale diocesano e, soprattutto, da una intensa corrispondenza con i miei amici di Facebook, la rete che giudico un’opera veramente geniale di chi l’ha inventata e organizzata.

 

Sull’elogio di quel sistema di comunicazione scrissi una lettera al quotidiano locale che ripropose con il commento del celebre professor Brigaglia.

Ecco il testo che qui ripropongo:

 

UNA BELLA ESPERIENZA!

 

ATTRAVERSO FACEBOOK POSSO RENDERMI UTILE E RACCONTARE QUANDO VOGLIO PERSINO QUANTO GRANDE E BUONO E’ IL SIGNORE!

 

Mi corre l’obbligo di mettere a conoscenza la bella esperienza che sto vivendo attraverso l’uso di un mezzo che il mondo della comunicazione oggi ci offre.

Dunque, Facebook, confidenzialmente FB, è essenzialmente una rete di persone che comunicano su tanti argomenti.

Insomma, uno fa un’osservazione, esprime un pensiero e tutti gli altri componenti della rete, i cosiddetti amici, fanno conoscere il loro parere o il loro apprezzamento cliccando un messaggio di risposta: Mi piace, Commenta, Condividi.

 

La rete dei miei amici supera il numero di millecinquecento, alcuni di loro sono veri amici nella mia vita reale, gli altri sono amici virtuali, a tutti loro, però, arrivano i miei messaggi, come, del resto io ricevo i loro.

 

Devo dire ch’io ho preso seriamente questo bel gioco basato sulla comunicazione. Da subito ho teso ad espormi quale io sono: senza veli, senza falsi pudori, raccontando anche qualche mia vicenda personale.

Il fatto “prodigioso” di cui sono testimone è che, essendo io così aperto nei confronti di tutti, gli altri mi rispondono normalmente alla stessa maniera, con la stessa apertura, con la stessa mia sincerità.

 

Talvolta i miei interventi possono essere persino delle semplici preghiere o meditazioni e alcuni amici, poi, rispondono a me e a tutti gli altri che intervengono dando giudizi su quanto scrivo.

 

Ho capito, per esempio, che chi parla con me di Dio, molte volte in maniera molto appropriata, spesso non è neanche abituale frequentatore della chiesa, forse è anche qualcuno che si professa non credente!

 

Il dialogo con questi amici comunque è continuo, intervengo su tanti argomenti di carattere culturale, sociale, di costume dando ai miei amici, con semplicità, i miei pareri e avanzando le mie proposte che non possono assolutamente essere in contraddizione con quello che io sono…

 

L’esperienza, ripeto, è bellissima e, fra l’altro, questa occupazione è comodissima. Senza muovermi di casa ho la possibilità di comunicare agli altri il mio pensiero su svariati argomenti: la storia, l’arte, la religione, la politica, l’attualità, il futuro della mia Sardegna e della mia Città, tutte cose che mi interessano molto!

 

Per mezzo di FB posso dialogare tranquillamente su questi e altri temi… Considero Facebook, al di là del giudizio negativo che qualcuno possa dare, persino come un’ occasione di crescita personale per tutti coloro che frequentano assiduamente la rete!

 

Giancarlo Pinna

Porto Torres

 

 

I momenti culturali, non solo in città, ma anche in altri centri della provincia, la mia partecipazione a dibattiti, conferenze, convegni, a consigli comunali, commissioni consiliari, aventi sempre temi diversi, in questi anni di frequentazione della mia amica diletta sono stati veramente tanti e spesso lei era insieme a me a condividere quegli argomenti che sarebbero parsi perfino ostici a persone non proprio addentro agli argomenti trattati.

 

Seguendo una prassi per me ormai consolidata, raramente mi è capitato dall’astenermi di intervenire con mie osservazioni e proposte sui temi via via proposti. Alla fine insieme spesso discutevamo dando giudizi sulle relazioni e gli interventi degli altri e, soprattutto, ricevendo io il suo giudizio su ciò e come mi ero espresso.

 

Questa collaborazione che mi veniva fornita era veramente preziosa, una sensazione fino ad allora mai provata e di grande valenza morale. Il mio rapporto con lei, sempre improntato alla stima e al rispetto, mi consentiva di avere la garanzia che le sue osservazioni fossero sempre jmprontate alla massima sincerità. Il mio lavoro veniva così valorizzato, avevo sempre il polso della situazione, riuscivo a capire se avevo fatto e detto qualcosa di buono o se dovessi rettificare o correggere qualche mia posizione!

 

Augurerei a ciascuno che si occupi di politica o di sociale di avere accanto un personaggio simile alla mia amica diletta, godrebbe di una collaborazione preziosa…

 

Il lettore potrà rendersi conto dell’intelligenza di questa donna speciale in ogni sua espressione: moglie devota e fedelissima al proprio compagno, madre premurosa di due figli e figlia tenerissima dei genitori che stravedono per lei.

 

Bellisima, intelligentissima, ottima cuoca, pasticcera finissima e tante altre cose che possono farmi affermare di non aver mai incontrato una donna così…La mia definizione di amica mia diletta è dovuta al fatto che, pur godendo in passato di ottime amicizie femminili, non avevo incontrato mai una donna che riunisse in sé tante apprezzabili qualità, io subisco il suo fascino, lei lo sa, e mi dice anche che ciò ch’io provo è assolutamente normale e naturale. Lei elogia spesso il fatto che il rispetto che noi vicendevolmente pratichiamo ci mette al riparo di eventuali complicazioni che siano diverse da quel sentimento che comunemente si chiama Amicizia.

 

Devo aggiungere che, per mia grande gioia. godo di buona reputazione da parte dell’intera sua famiglia.

 

In sintesi: ci vogliamo un bene dell’anima e un vero amico, com’è noto, se è veramente tale, non aspira al suo bene personale, ma piuttosto al bene dell’amico…

Ecco, questo, insieme all’amica mia diletta, pratichiamo e insieme siamo felici di tenerlo sempre e imprescindibilmente nei nostri propositi.

 

 

LE MIE ORIGINI

 

Soleva dire San Bernardo, quel grande personaggio vissuto nel Secolo XII che ho imparato da tempo ad amare: “Siamo come bambini recati sulle spalle da dei giganti”, vale a dire che siamo quello che siamo perché abbiamo recepito da altri che furono prima di noi doni che sono serviti alla nostra formazione personale, sia fisica, sia intellettuale, sia spirituale, sia artistica, insomma non possiamo menar vanto di quello che noi siamo perché ritengo che poco noi contribuiamo ad essere quello che siamo…

 

Scriverò dei miei giganti “terreni” cominciando da quelli che personalmente ho conosciuto e che sono entrati nel gioco della mia vita già prima che io nascessi, da loro, è scientificamente provato, ho ricevuto elementi fisici importantissimi, quelli che chiamiamo geni, che fanno fisicamente parte di me, che sono alla base della mia “primordiale” esistenza.

 

Come tutti ho avuto quattro nonni, due paterni e due materni e, grazie a Dio, almeno tre li ho conosciuti. Molto diversi tra di loro li ricordo con tanto affetto e con tanto piacere riferirò di loro che ho tanto amato.

 

Il mio nonno paterno si chiamava Giovanni, e questo è il motivo per il quale sono stato battezzato Giovanni Carlo, ma sempre mi hanno chiamato Giancarlo.

 

Egli, sassarese da più generazioni, aveva sposato Margherita, giovanissima algherese, anzi, dicevano fosse addirittura la più bella ragazza di Alghero. Essi avevano generato ben quattordici figli, anche se nonna aveva partorito diciasette volte…

La conoscenza dei miei nonni paterni avvenne nella loro casa nel cenrro storico di Sassari dove, avevo circa un anno e insieme a babbo e mamma, anche noi abbiamo abitato per circa due anni accrescendo così la già numerosa tribù…

 

Godetti della bella presenza di nonno Giovanni solo per un anno, ma me lo ricordo sempre con tanto affetto… Mi teneva spesso sulle sue ginocchia con un certo orgoglio, le sue attenzioni erano tutte rivolte verso di me, l’ultimo rampollo della sua famiglia e a chi lo osservava nel trastullarmi diceva “Guarda, guarda che testa grande che ha, ne verrà fuori certamente un bel pozzo di scienza!”

Effettivamente da qualche mia foto si deduce chiaramente che la mia testa fosse effettivamente grossa e avevo, in più, anche un paio di occhi grossi e sporgenti… Insomma per un paio di anni non ero fisicamente troppo piacevole, ma, poi, le cose fortunatamente cambiarono completamente.

 

Nonno Giovanni faceva il mugnaio e, quando mi dedicava il suo tempo lo torturavo chiedendogli: “Sariddu voglio, sariddu voglio!” E lui faceva finta di non aver capito cosa gli chiedessi… Sapeva benissimo che avevo voglia di mangiare qualcuno di quei pomodori preparati da nonna Margherita, coperti di sale e lasciati seccare al sole sulle stuoie. Quando vedevo quei pomodori prelibati e facevo capire a nonno che ne avevo voglia, lui diceva: “No, no, non te ne do, è sariddu!”, ecco perché li chiamavo così…

 

Era il 1948 e un giorno tutta la casa era inondata di fiori e da allora non sedetti più sulle ginocchia di mio nonno… Era il giorno del suo funerale!

 

Nonna Margherita sopravvisse ancora per tanti anni e morì nel 1983 alla bella età di 96 anni.

Era una donna veramente particolare e da quando l’ho conosciuta nella sua casa la ricordo sempre con un soffietto per le mani a ravvivare il fuoco dei fornelli a carbone, aveva infatti un brutto rapporto con le bombole di gas e le relative cucine e, per motivi di sicurezza, continuava a fare pranzo e cena con quel sistema arcaico e persino defatigante. Usare questo sistema per cucinare un minestrone per circa venti persone, delle quali parecchie avevano degli orari da rispettare a causa del proprio lavoro, significava doversi accontentare di mangiare pietanze… Semicotte, o… Semicrude!

 

Altra particolarità era che mia nonna non aveva mai cucinato un cibo surgelato o congelato, né conservato e confezionato in scatola o in altra maniera, il che voleva dire fare ogni giorno la spesa perché neanche con il frigorifero aveva mai avuto un buon rapporto…

 

 

Dopo la morte di nonno i figli decisero di darle una casa in affitto in campagna in un posto veramente bello, ma le sue paure, quasi allo stato maniacale, non le consentivano di stare da sola, molti dei suoi nipoti si avvicendavano a casa sua per assisterla in ogni sua necessità, anche se lei in quel periodo era ancora abbastanza giovane da riuscire, almeno teoricamente, a badare a sé stessa.

Spesso , quando abitavamo già a Porto Torres e io avevo poco pià di cinque anni andavamo a casa di nonna e dalla stazione ferroviaria di Sassari prendevamo una carrozza per arrivare da nonna… Era un’avventura incredibile, quella carrozza ci portava direttamente a destinazione e, dopo aver attraversato il centro di Sassari, ci si offriva alla vista una campagna lussureggiante, tanti alberi da frutta, tanti fiori, tanti profumi, tanti cinguettii di uccelli e anche tanto. Tanto, silenzio, un senso di armonia ti aggrediva prepotentemente e veniva interrotto dai nostri giochi all’aria aperta insieme a tutti gli altri cugini che, alla voce, sapevano della nostra presenza…

 

 

 

 

 

Nonna Margherita, che non era veramente un mostro di coraggio, lasciò quella casa in campagna che ritenne troppo isolata sia per lei che per il cugino di turno che l’assisteva… Pretese allora di abitare in un’altra casa alla periferia della città in una zona abbastanza urbanizzata.

Nonna andava a messa, ma coltivava contemporaneamente qualcosa mista di fede e superstizione che faceva molto sorridere noi suoi nipoti abituati a vivere in un modo molto diverso… Aveva ricevuto l’arte di praticare quell’insieme di preghiere e gesti sul bicchiere colmo d’acqua in cui versava olio e sale prer curare il malocchio, quante persone chiedevano il suo intervento e venivano soddisfatte in quei loro bisogni impellenti!

Aveva persino un modo curioso di pregare, aveva un libretto colmo di centinaia di immaginette che passava ogni giorno in rassegna soffermandosi su ciascuna qualche secondo e la baciava fugacemente, dopo questa operazione prendeva il rosario e osservava il normale percorso, ma, dove era necesssario recitare Pater e Ave, enunciava solo il titolo della preghiera e quindi quel pio esercizio si compiva in poco più di soli cinque minuti.

 

Era attaccata alle tradizioni che aveva visto praticare ad Alghero, dove lei era nata, e su una di questa mi vorrei soffrmare. Nonostante avesse molto timore della morte, non mancava, alla vigilia del 2 novembre di ciascun anno di preparare la cena dei morti.

Si preparava della pastasciutta rigorosamente in bianco e ben condita con formaggio, frutta secca e fresca in gran quantità, dolci di tanti tipi, proprio come se le anime care dovessero partecipare al convito, erano distribuiti i piatti sulla tavola coperta di una bella tovaglia candida, ma avendo cura che non vi fosse sistemata alcuna posata, né cucchiai, né forchette e, tanto meno, coltelli.

 

Ho detto delle grandi paure quotidiane di nonna ma, soprattuttto, in quella occasione della cena dei defunti, il suo disagio era ancor più vistoso. Mentre normalmemente la notte era un suo nipote a stare con lei, per quell’evento era necessario avere qualche assistente in più… E fu così che in quell’anno lei poteva contare sulla presenza di ben cinque nipoti, in grado di poter addomesticare le possibili stravaganse degli abitanti dell’aldilà! Nonna cominciò tutti i riti preparatori, mise in giro per casa una decina di fotografie dei suoi cari e, sotto ciascuna un lumicino e, preparò quella cena particolae con tanta dedizione. Noi stavamo lì a guardare e aspettavamo il momento di entrare in…Azione.

 

Poco prima delle nove di sera nonna andò a letto e ci pregò di fare buona guardia, caso mai qualcuno di noi avesse avuto bisogno di dormire ci disse di utilizzare il divano che sava nel soggiorno.

Quando ci accorgemmo che la nonna aveva preso sonno, parlando a voce bassa, ci accomodammo attorno alla tavola imbandita e, seppure senza posate, ci sbafammo tutto quello che alla fine era prescritto dalla tradizione dovesse rimanere integro…La nostra fame era tanta e, alla fine, mangiammo tutto con gran soddisfazione.

 

Quando la mattina nonna vide ciò che avevamo combinato , si adirò molto, ci disse che non avremmo dovuto mangiare quei cibi destinati ai morti che, secondo lei, dovevano a ragione ben essere contrariati e avrebbero pensato chissà a quale vendetta da mettere in atto. Noi non eravamo assolutamente preoccupati della cosa, ma ci giustificavamo asserendo che non ci andasse bene che tutto quel ben di Dio fosse destinato alla… Pattumiera.

Come avevamo previsto, non successe un bel niente di cui lamenrarsi a casa di nonna… In fondo i suoi parenti defunti, e commensali, erano tutte brave persone che, probabilmente nello stesso momento in cui, ridendo, mangiavamo il pasto a loro destinato, anch’ essi ridevano insieme a noi…

 

Nonna era un’appassionata lettrice di rotocalchi rosa, quelli che riportavano pettegolezzi degli uomini e delle donne che erano più in vista sulla scena mondiale. Lei sapeva tutto di tutti, ma una ad una storia tenne sempre particolarmente nel suo cuore.

 

Tutti ricorderanno la storia d’amore, che si suggellò con il matrimonio, tra lo Scià di Persia e la bellissima Soraya. Il seguito di quella storia non fu troppo felice. Soraya, che da allora fu chiamata la principessa triste, fu ripudiata dal marito perché non era stata in grado di dargli un erede. Lo Scià scelse un’altra donna e la sposò.

 

Nonna fu talmente scossa da questa storia che decise di prendere carta e penna e scrivere una lettera a Soraya, in essa diceva di essere molto addolorata e che, comunque, aveva un figlio che rassomigliava moltissimo allo Scià. Se Soraya avesse voluto, lei avrebbe fatto di tutto per combinare un matrimonio con suo figlio!

Furono tante le missive che Nonna scambiava con Soraya, nelle sue lettere le dava consigli per vincere quella malinconia e quella tristezza che da tempo la affliggevano…

 

Nonna diventava vecchia e, francamente, non l’era mai piaciuta la solitudine. Fece riunire tutti i suoi figli e pose con determinazione una proposta di soluzione per affrontare meglio il proseguo della sua esistenza. In sostanza non le andava più avere una casa, aveva pensato che, siccome i figli eranto tanti, avrebbe potuto a turno soggiornare un mese presso ciascun figlio.

 

E così fu fatto. Per quanto riguardava noi, a casa sapevamo almeno una settimana prima che nonna sarebbe arrivata, sapevamo anche che quel fatto avrebbe provocato qualche contraccolpo, un certo assestamento generale dal punto di vista organizzativo… Le abitudini alimentari di nonna erano rimaste sempre inalterate: niente cibo congelato o surgelato, cibi in scatola… Il vino, non doveva mai mancare sulla tavola, anche se nella mia famiglia non avevamo mai coltivato quella abitudine …

 

Lo dico chiaramente: tra mamma e nonna vi era una notevole differenza di carattere e di mentalità che, spesso, sfociavano in autentichi battibecchi. Nonna non era cattiva d’animo, ma i suoi comportamenti per mamma risuonavano come autentici capricci… Babbo si barcamenava tra le due e faceva considerare il fatto che, finito il turno di un mese, se ne sarebbe parlato non prima di dieci mesi.

 

Ma, per certi versi, nonna non transigeva mai dai suoi propositi e nutriva sempre diffidenza su quanto mamma facesse per lei… Il vino che. come detto, era sacrosantamente presente a tavola veniva acquistato giornalmente dal botteghino e io ero l’incaricato di questo servizio. Ogni giorno tre quarti di vino rosso e gazzosa arrivavano sulla tavola… naturalmente tutti lo dovevamo bere, lei non avrebbe mai bevuto da sola!

 

A proposito di vino… Non v’era volta che nonna non simulasse una sua mossa maldestra per far cadere del vino sulla tovaglia…Per lei era un segno beneaugurante che, naturalmente, faceva andare mamma su tutte le furie, ma da tempo per nonna era una tradizione che, come tale, andava rispettata!

La diffidenza negli altri da parte di nonna, anche nei nostri confronti. che eravamo i suoi più prossimi parenti, era incredibile…

 

Quando mamma stava ai fornelli, lei lasciava il suo libretto di preghiere, le sue immaginette

il suo rosario e i suoi occhi erano puntati su tutto quello che faceva mia madre, controllava tutto quello che finiva in pentola e chiedeva continuamente spiegazioni.

Quei comportamenti, che riuscivano a indispettire mamma. a noi, suoi nipoti facevano molto ridere, l’indulgenza nei confronti di nonna era, per così dire, incondizionata.

La vita di nonna andava tranquilla e, nonostante la sua età il suo regime alimentare era abbastanza normale, mangiava di tutto e soprattutto era ghiotta della zuppa di pesce che babbo le preparava con i pesci appena pescati da lui. Anche i polpi, anche quelli più grossi, le erano molto graditi, anche a cena non aveva problema alcuno di digestione, forse quei due bicchieri di vino che accompagnavano i suoi pasti riuscivano a regolare perfettamente le funzioni del suo apparato digerente..

A novantasei anni suonati si fratturò il femore e fu ricoverata in ospedale e dopo tre mesi rese l’anima a Dio.

 

Ho conosciuto solo mio nonno materno, Leonardo, che perse sua moglie, Domenica, quando erano ambedue molto giovani. Quando nonno rimase vedovo mamma aveva solo otto anni e due fratelli, uno di sei e l’altro di quattro… Nonno non si risposò mai più, aveva avuto il timore che una matrigna non avrebbe voluto bene i suoi figli, non voleva avere rischi e allora… Mamma non andò più a scuola e fece da balia ai suoi fratellini…

 

Nonno Leonardo e nonna Domenica nacquero a Villanova Monteleone e, dopo il loro matrimonio, si trasferirono ad Alghero nove nacquero i loro tre figli.

 

Nato nel 1896, nel 1914 nonno partì per il fronte a combattere la Grande Guerra contro l’esercito austro-ungarico. Ne ritornò sano e salvo e dopo un certo periodo si sposò; e cominciò a darsi da fare per assicurare alla seppur piccola famiglia il minimo essenziale per non morir di fame, sì proprio di questo si trattava…

 

Il suo lavoro era duro e anche molto pericoloso, era minatore, ma non di quelli che lavorano nelle miniere, bensì il suo mestiere consisteva nel caricare in fori abbastanza profondi perforati nella roccia polvere da sparo e dinamite collegate ad una miccia che, una volta accesa, dopo un po’ provocava l’esplosione che fendeva la roccia…

 

Altro mestiere di nonno Leonardo era quello di costruire muri a secco, sia il primo impegno che il secondo non erano garantiti dalla continuità e alla famiglia doveva invece assicurare la continuità del sostentamento e di quanto poteva servire per vivere… Un fatto positivoera l’aver avuto l’accortezza di aver acquistato con enormi sacrifici la casa in cui la famglia abitava, in via Columbano n.23, quella via al centro di Alghero che venne da sempre chiamata Lu Carrè de la Pretura, che terminava il suo percorso nella Piazza Civica dov’era situato il Palazzo Comunale.

 

Nonno, per portare con dignità la famiglia, spesso andava in campagna per recuperare tutto ciò che di mangereccio si poteva: lumache. funghi, bietole, finocchietti, asparagi e altre verdure selvatiche che, purtroppo, non erano poi così tante. La ricerca di quei prodotti che la natura offriva era esercitata da molti, tante famiglie si trovavano nelle stesse condizioni di situazioni economiche di povertà quasi estrema…

 

Nonno era quello che potrei dire con orgoglio un “irriducibile”. Proveniente da un paese non costiero a prevalente economia agricola, egli non sapeva nuotare e non aveva neppure i soldi per comprarsi una seppur semplice attrezzatura che gli consentisse di esercitare comodamente la pesca… Aveva però tanta buona volontà, un pezzo di ferro ottenuto da un cerchio di botte e un paio di stivali a coscia… Entrava in acqua e appena vedeva un polpo o una seppia avvicinarsi a lui, il loro destino era segnato: un colpo ben assestato e polpo o seppia che fosse era come già si trovassero nella casseruola…

 

 

Il tempo tra le due guerre, la prima e la seconda guerra mondiale, non fu propizio per chi non poteva contare su almeno alcune entrate sicure, la vita a casa di nonno, seppur in un clima di difficoltà, procedeva in serenità. Nel 1925 nacque mia madre, due anni più tardi zio Salvatore e dopo altri due anni zio Tonino.

Purtroppo quando mamma aveva solo otto anni, accadde la tragedia che minò terribilmente la famiglia. Nonna Domenica morì dopo qualche mese dal quale aveva contratto una malattia che la accompagnò alla tomba…E nonno si assunse l’onere di fare da padre e da madre ai suoi figli, mamma dava una mano a casa per come poteva e dovette rinunciare ad andare a scuola, cosa alla quale teneva e che le ho sentito dire sempre… Anche negli ultimi giorni di vita.

 

Nonno non si è perso di coraggio e, nonostante la famiglia avesse molte necessità, rifiutò di accettare quanto gli veniva proposto come condizione per godere di una certa attenzione… Non ha mai voluto sentire di tessera del Partito Fascista e di altre tessere che gli avrebbero dato alcune possibilità di ricevere gratuitamente cibo e vestiario… Con il suo umile lavoro saltuario e con la raccolta di prodotti selvatici della campagna e la pesca esercitata in modo primordiale la sua famiglia crebbe dignitosamente agli occhi di tutti

 

Egli portò avanti la famiglia e condusse all’altare due dei suoi figli, il più giovane invece non ebbe modo di accasarsi e rimase insieme a lui.

 

Dal 1951 la mia famiglia: babbo, mamma, due sorelle e io, si trasferì a Porto Torres e nonno spesso veniva a trovarci. Arrivava da Alghero con la sua bicicletta e quando era da noi era una gran festa, amavamo nonno ed eravamo da lui riamati… Ogni volta un regalo per tutti e nella sporta appesa al manubrio delle cose molto buone che allora era possibile trovare facilmente nel mercato di Alghero, talvolta granchietti di fiume, arselle, patate dolci e cuori di palma nana… Quando nonno Leonardo andava via eravamo sempre molto tristi…

 

Avevo appena undici anni e a me è toccata in sorte qualcosa di importante per conoscere meglio nonno. Mio padre prestava servizio in Ferrovia e, grazie a questo, i componenti della famiglia godevano di alcuni biglietti ferroviari gratuiti… Era per me una opportunità fantastica: prendere il treno per Sassari e di qui prenderne un altro per Alghero…

 

E così feci diverse volte, con grande orgoglio e sicurezza viaggiavo da solo e arrivato a destinazione una piccola corsa per raggiungere i giardini pubblici dove almeno una quindicina di anziani stavano di fronte a mio nonno che leggeva a voce La Nuova Sardegna… Lui si accorgeva della mia presenza e si scusava dell’interruzione della sua lettura… Doveva lasciare, era arrivato suo nipote e a quel punto quella visita era per lui la cosa più importante…

 

Un bacetto sulla guancia e ci incamminavamo mano nella mano verso casa sua, mi chiedeva notizie di tutta la famiglia e, subito dopo, uscivamo a far la spesa, in panetteria, nel negozio di generi alimentari, nello spaccio della Cantina di Santa Maria La Palma, era quello ormai l’itinerario tradizionale. Ritornavamo a casa e nonno si metteva ai fornelli, gli spaghetti erano un piatto obbligato, il sugo era fatto con l’estratto di pomodoro appena comprato sfuso dal negozio, spesso mangiavamo come secondo mortadella tra due ottime fette di pane tradizionale di Alghero… Sempre avevo la sensazione che in altri posti, anche a casa mia, non mangiassi mai così bene come a casa di nonno!

 

Il riposino pomeridiano era obbligato, su quel lettone altissimo, almeno un metro e venti, sotto il quale da piccolo avevo giocato, mangiato nespole e altra frutta tenuta lì a maturare.

 

Io da una parte del letto e io dall’altra, ma chi, con nonno a fianco, avrebbe potuto dormire? In effetti passavo qualche ora a sentire i suoi racconti di guerra da uno che ne era stato protagonista. Çui infatti era proprio lì, durante la guerra del 1814-18, in trincea, a rischiare la sua giovane vita. Quei racconti mi appassionavano e in essi veniva fuori il coraggio e la dedizione di un campione di mansuetudine e gentilezza qual era mio nonno…

 

S’era fatto tardi e l’ora della partenza del mio treno era ormai vicina, una corsetta ed eccomi pronto a ripartire con il ricordo di un’altra bella giornata insieme al caro genitore di mia madre.

 

Molto spesso, quando nonno aveva passato i sessanta anni di età babbo e mamma pregavano che nonno decidesse di stare a casa con noi, ma egli non voleva sentirne neanche parlare di questa questione… Diceva che mai e poi mai avrebbe creato fastidi a nessuno… Nonno era così, sempre molto gentile e scrupoloso, sempre attento a non essere mai invadente.

 

Purtroppo avvenne che nonno si ammalò e restò semiparalizzato, mamma naturalmente faceva la spola e ogni giorno era in ospedale e approfittava di quella situazione per rinnovargli l’invito a venire a stare con noi, ma egli non voleva saperne. Semiparalizzato aveva bisogno di avere qualcuno che lo assistesse in continuazione, specialmente quando doveva adempiere ai suoi bisogni corporali. Una notte nonno arrivò a malapena, da solo, ai servizi igienici, cadde e si ruppe tre costole…

 

Mamma e babbo presero l’unica decisione che potesse essere presa e così nonno, con grande felicità di noi suoi nipoti, era finalmente a casa nostra…Tutti facevamo a gara per dargli una mano, per alleviare non tanto la sofferenza fisica, quanto la sofferenza di carattere morale, quella di chi, e lo so bene, vorrebbe essere autosufficiente e non pesare su nessuno! Personalmente, avevo già poco più di quindici anni, mi axxapparrai il compito di accompagnare nonno al gabinetto… Lo facevo appoggiare alle mie spalle e piano piano, nonostante una gamba non gli funzionasse per niente, riuscivamo a fare quanto era dovuto…Ogni volta nonno mi chiedeva scusa per questo mio lavoro e sempre mi ringraziava e io che scherzavo molto per quello che diceva… Desideravo che lui capisse quanto ero orgoglioso di dare una mano ad un uomo così che, il Signore aveva voluto che fosse mio nonno, la persona più dolce che avrei immaginato di incontrare.

 

Nonno aveva una fede profonda e tutta la sua vita difficile ne dava testimonianza…Andava a Messa, conosceva tutte le preghiere in latino, ma, soprattutto pregava spesso…

 

Ritengo che nonno, che aveva già sessantasette anni, avesse già pensato, come gli uomini giusti, al momento nel quale il Signore lo avrebbbe chiamato a sé. Quella sera eravamo soli a casa, io e lui parlavamo, lui a letto e io in una sedia che contemplavo la sua bellezza e i suoi bellissimi occhi cerulei. D’un tratto nonno Leonardo si toccò il petto e mi disse: “Ecco, ora la mia vita è proprio finita… Grazie a te per quello che hai fatto per me, grazie a tutti, a tuo padre e tua madre per tutto quello che hanno fatto e scusatemi per il disturbo che vi ho recato…” E, io: “Nonno non dire così…” Non parlò più. Ebbe solo la forza di fare una croce con le dita, la baciò e così cominciò il suo viaggio per giungere presto al cospetto di quel Signore che aveva amato e onorato in tutta la sua vita…

 

… continua.


 IL MANOSCRITTO IN LINGUA CASTIGLIANA CUSTODITO NELL’ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI SASSARI INTITOLATO

“Processo original de la sagrada invencion de los cuerpos de los

Ilustristrissimos martyres S. Gavino Sabeli, S. Protho y S. Januario”

 

ovvero

IL DIARIO DEGLI SCAVI ORDINATI NEL 1614 DALL’ARCIVESCOVO TURRITANO

GAVINO MANCA DE CEDRELLES NELLA BASILICA DI SAN GAVINO IN PORTO TORRES

 

PRESENTATO IL 25 OTTOBRE 2011 DA MARIA FRANCESCA DEPALMAS

 

di Giancarlo Pinna

 

 

Dopo la affollata Santa Messa Pontificale presieduta dall’Arcivescovo Turritano Padre Paolo Atzei, a cui hanno partecipato il Vescovo di Alghero e Bosa Monsignor Mauro Maria Morfino, i canonici del capitolo turritano e tanti altri sacerdoti convenuti a rendere omaggio ai Santi Martiri Turritani nel giorno della loro Festa, è seguito un appuntamento culturale che si è svolto nella Cripta secentesca della stessa Basilica di San Gavino, veramente il luogo deputato per un evento imperniato sugli scavi fatti eseguire nel 1614 dall’Arcivescovo Turritano Gavino Manca de Cedrelles.

 

La ghiotta occasione è stata quella di accogliere la relazione della nostra concittadina Maria Francesca Depalmas sul prezioso manoscritto secentesco in lingua castigliana denominato “Processo original de la sagrada invencion de los Cuerpos de los ilustrissimos Martyres S. Gavino Sabbeli, S. Protho y S. Januarios”.

 

La relatrice ha raccontato sinteticamente con l’ausilio di alcune foto il suo lavoro che appena lo scorso 20 ottobre ha discusso come tesi della sua laurea magistrale in Lingue, Culture e Comunicazione Internazionale presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Sassari.

Esso è composto dalla trascrizione e dalla traduzione in lingua italiana di gran parte del manoscritto custodito nell’Archivio Storico Diocesano di Sassari preceduto da una parte relativa al contesto storico nel quale il manoscritto è stato composto (la Sardegna tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 e la lunga contesa tra Sassari e Cagliari).

 

Non possiamo negare di aver atteso con una certa trepidazione, tutti noi che eravamo a conoscenza dell’oggetto dello studio, in special modo i componenti della Cooperativa Turris Bisleonis e del Centro Studi Basilica di San Gavino di Torres, dei quali Maria Francesca fa parte, la conclusione della sua fatica felicemente giunta al traguardo.

 

Non possiamo certo formulare apprezzamenti più efficaci rispetto a quelli riservatile dai professori che hanno dato a lei la valutazione massima: 110 e lode!

 

Ma l’oggetto principale per noi, in questa sede, rimane quello di riferire della serata del 25 ottobre.

La dottoressa Depalmas ha illustrato con efficacia il suo lavoro e chi ha avuto la fortunata occasione di essere presente ha veramente appreso ulteriormente alcune novità su quel documento.

 

Si è registrata l’impressione di trovarsi di fronte alla rappresentazione di un evento unico: non solo molto suggestivo per la scelta del luogo in cui si è svolto, ma quasi storico per gli argomenti trattati.

Anche in questo caso si può parlare dell’ennesima dichiarazione d’amore verso un monumento, la magnifica Basilica di San Gavino, di una bellezza, di una storia così rara, che, per molti versi, è addirittura persino sconcertante!

 

Seppure in maniera non completa, lo studio del manoscritto dà conto di quanto emerse negli scavi cominciati nel 1614 nella navata centrale della Basilica romanica.

 

Quegli scavi, lo ricordiamo, furono effettuati per volere di Gavino Manca de Cedrelles, che fin dalla giovane età aveva manifestato il grande desiderio di farlo, ed avevano l’intento di riportare alla luce le reliquie dei Santi Martiri riposte ed occultate nella Basilica ai tempi della sua costruzione nel Secolo XI a cura di Comita, Re e Giudice di Torres e Arborea.

 

Leonardo Redeolives, notaio e segretario dell’Arcivescovo, fu incaricato di scrivere giornalmente, di proprio pugno, ciò che man mano veniva trovato facendo apporre, in calce al resoconto quotidiano, le firme di tutti i testimoni presenti: canonici turritani, presbiteri, chierici, operai ecc.

 

Ed ecco quindi che, a comincire dal giorno 10 del mese di giugno 1614, in maniera abbastanza temeraria, i rischi di crollo della navatella che guarda verso Atrio Metropoli sono ancora molto evidenti, incominciò la singolare avventura durante la quale si pose mano a quegli scavi che interessarono tutta l’ampia navata centrale e che determinarono la rimozione complessiva di almeno 1.850 metri cubi di materiali sotto il pavimento della stessa.

 

Dobbiamo essere ben grati proprio al nostro Arcivescovo-archeologo se, cosa inusuale, certamente fuori dell’ordinario per quell’epoca, dai primi giorni sino alla conclusione dei lavori, Leonardo Redeolives ebbe l’incarico di compilare giornalmente, con attenzione e puntigliosa meticolosità quel “Processo”.

 

Fu quindi creato, dopo gli scavi quel nuovo ambiente sotto la Basilica, la cripta e l’anticripta antiquarium per dare nuova dignità alle sepolture dei Martiri Turritani. E’ possibile ancor oggi che, pur apparendo quell’ambiente quasi una “scatola vuota”, esso godette del gran privilegio di essere illustrata dal preciso racconto di quanto esattamente venne “invenuto” al suo interno.

 

La descrizione dei ritrovamenti fu talmente precisa che, proprio attraverso il diario, fu possibile agli studiosi moderni, fra i quali è degno di nota Guglielmo Maetzke, che nel 1963 trovò i resti della chiesetta cimiteriale del Secolo V nella navatella che guarda verso Atrio Comita, di trasferire graficamente tutte le strutture ritrovate, le sepolture, i mosaici e le altre opere d’arte ecc. e così restituire a noi la pianta della cripta come sarebbe dovuta essere prima dei lavori di scavo.

 

Di per se stesso il manoscritto può quindi essere definito, a giusta ragione, come un vero e proprio diario di scavi archeologici “ante litteram”.

 

Il documento fu stato restaurato qualche decennio fa quando Monsignor Giancarlo Zichi, direttore dell’Archivio Storico Diocesano, lo affidò al Centro Studi Basilica di San Gavino di Torres, allora presieduto da Mons. Antonio Giuseppe Manconi, che si assunse l’onere finanziario della interessante operazione.

Nell’Abbazia benedettina sublacense di San Pietro di Sorres Padre Gregorio curò amorevolmente l’ opera preziosa stilata dal Redeolives in modo da assicurarle una vita più longeva.

 

Sappiamo che estratti del diario, la relazione in lingua castigliana di Gavino Manca de Cedrelles al Re Filippo III di Spagna, fu pubblicata una prima volta nel 1615 a Madrid e quindi ristampata nel 1739 a Sassari presso i Padri Serviti con una lettera dedicatoria di Martin Bologna, dotto giureconsulto e avvocato.

 

Nel 1846 si stampò a Sassari, presso la tipografia dell’Arcivescovo Raimondo Azara la traduzione letterale dallo spagnolo della relazione di Gavino Manca de Cedrelles.

Durante lo stesso 1615 a Barcellona Francesco Bastelga, segretario dell’inquisizione in Sardegna, pubblicherà la sua “Relacion sumaria y verdadera…” vantando la sua testimonianza, in quanto presente, sulla veridicità dei ritrovamenti nella Chiesa di San Gavino.

 

Quello che possiamo affermare è che, ad oggi, a parte le tante doverose citazioni del documento, non esiste la pubblicazione integrale, o almeno parziale, del manoscritto in parola, né tanto meno della sua traduzione in lingua italiana.

 

Riteniamo perciò di dover esprimere gratitudine per questo lavoro, anche a nome della Comunità Parrocchiale di San Gavino, di tutta la Comunità Cittadina e dell’Archidiocesi per questo lavoro veramente utile nel quadro della divulgazione di un particolare momento della storia della Basilica e dell’Archidiocesi Turritana.

 

L’auspicio è che possiamo quanto prima avere la gioia che la tesi di Maria Francesca Depalmas possa essere sollecitamente pubblicata.

 

Non si può altresì non esprimere l’augurio che il benemerito Centro Studi Basilica di San Gavino di Torres, presieduto attualmente da don Mario Tanca, che ha come Presidente del Comitato Tecnico Scientifico lo stesso monsignor Giancarlo Zichi, direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Sassari, sostenuto dall’Amministrazione Comunale di Porto Torres e dalla Archidiocesi Turritana, voglia farsi carico della pubblicazione integrale del diario e della sua traduzione, magari affidando proprio alla dottoressa Maria Francesca Depalmas, ed eventualmente ad altri studiosi, il completamento dell’analisi di un documento degno della massima considerazione sotto tanti punti di vista: quello storico, religioso, archeologico, letterario, antropologico, della tradizione e della nostra identità di cristiani, di sardi e di turritani.

 

Il futuro della valorizzazione piena dello scrigno prezioso chiamato Monte Agellu, passa anche attraverso lo studio e la ricerca che possono consentire di dare piena luce ai suoi gioielli e alle sue gemme che contiene così abbondantemente.

 

La pubblicazione di tale lavoro potrà servire infatti ad illustrare ancor meglio le peculiarità di quel territorio destinato, per le sue caratteristiche peculiari ormai acclarate da seri studi passati e recenti, a costituire una parte notevole per la candidatura di Porto Torres (comprendendo anche il Parco dell’Asinara) alla sua inclusione nella Lista del Patrimonio Mondiale tutelato dall’Unesco per quanto concerne i beni culturali ed i beni naturali.

 

Non riveliamo niente di segreto se possiamo dire che, finalmente, il Sindaco di Porto Torres Beniamino Scarpa condivide l’idea che vadano intraprese iniziative serie che tendano a raggiungere il prestigioso traduardo.

 

L’Arcivescovo Turritano, Padre Paolo Atzei, potrà condividere l’idea che, partendo proprio da Monte Agellu, dove, in un’ area così piccola, duemila anni della nostra storia sono raccontati dalle pietre senza soluzione di continuità, da quel luogo nel quale “die ac nocte”, per dirla con la “Passio”, Proto e Gianuario non cessavano di pregare il Signore, sembra possa essere di buon auspicio per il successo dell’impresa che come Comunità locale si accinge a compiere.

 

Dopo l’ interessantissima relazione, peraltro molto apprezzata dall’uditorio, l’attore Stefano Chessa, ha letto due brani emozionanti della traduzione di Maria Francesca del diario: uno si riferiva proprio al momento del ritrovamento delle urne contenenti i tre “Corpi Santi” e l’altro al momento in cui gli stessi vennero trasferiti a Sassari nella Cattedrale di San Nicola dove sostarono a lungo per essere onorati con affollate ed imponenti azioni liturgiche.

 

Alla fine della lettura di quelle suggestive pagine, i presenti, fra i quali Padre Paolo Atzei, Mons. Morfino, Mons. Zichi, don Tanca, il Sindaco Beniamino Scarpa, il Vice Sindaco Margherita Diana, gli Assessori comunali Caterina Satta e Francesco Porcu, hanno sottolineato con molti applausi il gradimento dell’iniziativa, dandosi appuntamento per ritornare sull’argomento in una maniera più approfondita e meno “frettolosa”.

 

Don Mario Tanca ha ringraziato tutti i presenti e li ha preceduti nell’Atrio Comita dove si è inaugurata l’apertura di quella bella sala che viene chiamata “Aula Capitolare”.