Aspetto

Appena le foglie soffiano lungo la spiaggia

e le stelle di mare scolorite

sono spazzate via dalla sabbia..

Aspetto.

Senza attendermi niente, né concedermi nulla,

né più fingendo, né osando immaginare

la primavera incerta..

Aspetto.

Avvicino una conchiglia smarrita all’orecchio.

E tutto sembra tornare.

I bambini in corsa sulla sabbia,

le rocce e il rifugio,

nel sole estivo addormentato.

Quel giorno mi mostrasti un cielo senza stelle.

E la breve passeggiata sulla spiaggia

divenne un viaggio e un abbandono.

Il ritrarsi di un amore finito,

come onda che il mare devasta.

Ciò che dicevi era tutto, era niente.


 

Ricordi

Vaghi i pensieri,

le ansie, travolgenti.

Ricordi, vita mia, l’altana silenziosa,

lì nella pineta.

E le corone di ginepro.

Le intrecciavi ai miei capelli,

come un gioco.

Una musica dolce ci assopiva.

A svegliarci, una danza di corolle cristalline.

Ricordi, luce mia, quante foglie calpestate

nell’ebbrezza di una corsa travolgente.

I nostri volti buffi,

bagnati da rigoli di pioggia penetrante.

Ma forse non ricordi, erba mia.

Alla fine di quel viottolo ardito,

mi hai cercata.

Furono lacrime o pioggia.

Non ricordo.


 

 IL SENSO DI JUANITA

Per i suoi quarantacinque anni, Antonio, suo marito, le aveva regalato due biglietti aerei per il Venezuela, la terra in cui era nata e da cui era ritornata in Sicilia in assai tenera età. Lei non ricordava niente di quel passato se non attraverso i ricordi e le immagini che sua madre Maria le aveva da sempre trasferito. Immagini di una grande casa col patio dove la luce del sole filtrava i suoi raggi estivi attraverso le fronde di grandi kenzie che da appena sotto il soffitto si tendevano armoniose curvandosi a toccare i mobili e le grandi lampade del salotto. Lunghe, altere foglie che si strusciavano quasi sempre sui volti di chi passava per le stanze di quella casa così accogliente nei suoi colori caldi e coloniali. Sua madre le aveva sempre descritto la chiesa di Plaza Candelaria a Valencia, la città dove Giovanna, detta Juanita, era nata. In quella chiesa, Maria entrava ogni mattina con la piccola dentro un passeggino bianco e rosso. Le preghiere alla Madonna erano quasi sempre per un ritorno felice e quanto prima in Sicilia dove quasi tutti gli affetti erano stati lasciati. Altre immagini, indirizzi e appunti, Giovanna portava con sé quel giorno in cui il Boeing B767 dell’Alitalia atterrò a Caracas e dove poi un taxi la condusse a Valencia con l’emozione di chi sapeva di non essere estranea a quei luoghi, a quelle luci, a quei colori e a quella terra calda ed accogliente ma, nello stesso tempo, selvaggia, sconosciuta ma pure, intrigante. La vecchia mercedes correva sull’autostrada a più corsie dove Giovanna non riconosceva le vecchie strade insicure e poco asfaltate dei racconti di sua madre quando andava a Maracaibo in jeep con gli zii a fare acquisti vari per il loro albergo, il “BELLA VALENCIA” e i ristoranti italiani sull’Avenida Bolivar. Tutto le sembrava diverso dalle storie ascoltate da bambina. Tutto era molto più grande e moderno: grossi centri commerciali, vaste zone residenziali e macchine, camion che trasportavano di tutto su quella strada a larghe corsie che la portava nella città dove era nata in una clinica del centro per mano di due giovani ginecologi libanesi, ”los hermanos Arcay” che avevano procurato alla madre di Juanita un parto indolore, novità assoluta in Italia a quei tempi, parto a cui, sempre secondo Maria, solo l’attrice Gina Lollobrigida aveva avuto in quegli anni il privilegio e l’ardire di sottoporsi.

Giunta alla periferia di Valencia, Giovanna chiese al tassista di farle fare un lungo giro della città e poi del centro storico prima di accompagnarla nei luoghi di quel lontanissimo e pallidissimo ricordo della sua prima infanzia. Era troppo emozionata e si sentiva fibrillare dentro al petto: aveva paura di rimanere delusa, di non ritrovare quel passato, ma in un certo senso, aveva anche paura di ritrovarlo e di non saperne fare più a meno. Dicono che l’Africa lasci il mal d’Africa e che l’America Latina streghi con la sua intensità lasciando un segno che va oltre la semplice traccia. Per Lei, fu più di così.

Verso le quattro di quel mercoledì pomeriggio di fine maggio, il taxi la lasciò all’Hotel Intercontinental dove l’architettura troppo moderna e la clientela internazionale, simile a tutti i grandi alberghi del mondo, la deluse profondamente e la fece pentire della scelta.

In realtà, Giovanna si sentiva ansiosa e aveva una fretta  compulsiva di immergersi nel suo passato, di penetrare le sue origini. Si sedette sul terrazzo della sua camera con vista quasi totale di Valencia e prese appunti precisi su ciò che l’indomani avrebbe fatto. Certo, pensava, era dall’altro capo del mondo e nessuno, in quel momento, avrebbe potuto turbare o condizionare la sua libertà: ma, stranamente, non si sentiva sola mentre guardava dall’alto la sua città, anzi, se ne sentiva parte, figlia. Concluse la sua serata con una cena dai profumi, colori e sapori decisamente venezuelani mentre le sue orecchie captavano ritmi coinvolgenti di salsa e joropo e un trio di audaci ballerini si perdevano in danze  latino-americane estremamente accattivanti.

Il sole si alzò presto e subito acceso e caldo quando Giovanna era già pronta per la sua avventura. Con un taxi raggiunse prima Plaza Bolivar che con al centro la statua di Simon  Bolivar, eroe, libertador nacional, aveva da sempre unito lo spirito patriottico e libertario dei venezuelani. Poi, avrebbe proseguito per Plaza Candelaria. Entrò nella chiesa con grande emozione rivedendo se stessa piccolissima dentro una carrozzina che una giovane donna spingeva verso l’altare per poter pregare sotto la statua della Madonna. Giovanna pensò a sua madre, bellissima e così giovane per dover proteggere e crescere la sua piccola Juanita. Poi, scese a piedi lungo la strada che costeggiava la piazza dove ancora si vedevano ragazzini chini per terra a lucidare, per pochi soldi, le scarpe dei clienti di passaggio. Seguendo la sua piccola mappa, quella che Maria le aveva approntato su un foglietto dell’agenda che teneva sempre in cucina per ogni evenienza, girò a destra e camminando sempre su quella destra, sbucò su Calle Montes de Oca, la vecchia, antica strada dove aveva abitato piccolissima con sua madre, papà Pietro e gli zii che avevano da sempre vissuto in Venezuela. I muri della strada erano di un colore bianco sporco per metà e celesti per l’altra; i portoni e i cancelli delle case, variopinti, di un verde intenso, di un rosso bordeaux ed anche di un acceso giallo ocra. Le case erano antiche, anzi, molto vecchie, ma nei cortili di ognuna si vedevano piante e vasi di fiori colorati mentre dalle finestre e dai balconi veniva fuori un odore intenso di salse piccanti. Giovanna, presa dalla paura di non riuscire a trovare la sua casa con il patio, leggeva con difficoltà il numero civico di ogni cancello. Ma, all’improvviso, fu come se qualcuno la prendesse per mano e la conducesse dritto verso un portone più avanti e dall’altro lato della strada. Mentre attraversava, l’emozione la prese forte e si rivide bimba seduta lì davanti sul grembo di sua madre che sorrideva a qualcuno che le stava accanto. Dal suo sguardo, amorevolmente complice, capì che l’uomo che le era accanto doveva essere suo marito, papà Pietro. Giovanna bussò con nocche tremanti e non appena il grande portone si aprì in automatico, il cuore le balzò in cima al petto e poi alla bocca che, mentre saliva le scale sicura come fossero quelle di casa, riuscì a dire a chi dall’alto la interrogava: “buenos dias, Señor. Me llamo Juana Grillo y vengo de Sicilia. Puedo hablar con Usted por un ratito? Por favor, Señor, es una cosa muy importante”. E così, in un attimo, si ritrovò esattamente in quel patio, quello del suo passato. Non poteva crederci. La luce era la stessa che aveva sempre immaginato, quella che entrava chiara, riflessa e tenue come sua madre le aveva mille volte raccontato e, agli angoli ed ai lati di quello spazio confortevole ed intimo, tra i divani e le poltrone morbide, le grandi fronde  delle alte kenzie, come mani si piegavano addolcendosi su tutto. Fu allora che Giovanna, passandoci accanto, sentì il solletico leggero, la carezza gentile di quelle foglie altere sul suo viso. Lei era lì ed era tutto come una volta quando lei era bambina. Col permesso dell’uomo che abitava la casa e che aveva stranamente compreso l’importanza del momento e della sua presenza lì nella sua abitazione, Giovanna, di nuovo Juanita, scattò mille scatti e in uno immortalò, per sua madre Maria, il grande patio e se stessa ormai donna e madre appoggiata a una kenzia. Se ne andò con gioia e con tristezza e si chiese, semmai fosse tornata di nuovo, tra molti anni ancora, se tutto sarebbe stato  ancora come oggi e come allora.

Con lacrime agli occhi che nessuno vide e col cuore che batteva forte, tanto forte, attraversò la strada ma ora più sicura di prima e quasi a suo agio, camminò per un centinaio di metri non ritrovando miracolosamente anche la  vecchia bottega di quel Nino Indorado, il barbiere di suo padre ed il negozio di articoli da regalo del suo più caro amico, certo Bustillo, un venezuelano di Nagua Nagua, villaggio assai pittoresco, secondo  sua madre Maria, e che conduceva a Puerto Cabello. Ma adesso Juanita era giunta in un altro luogo molto importante per lei e dove sperava con tutto il cuore di trovare il suo estratto di nascita originale. Sì, moltissimi anni addietro ne aveva ricevuto uno dall’Ambasciata italiana a Caracas, ma era solo la copia di quello originale, quello che Maria e Pietro, allora, meno che ventenni avevano firmato, da genitori, alla sua nascita e che portava anche la firma dei due giovani zii, testimoni.

Sul massiccio portone di legno verde aperto per metà c’era scritto: MUNICIPIO EL SOCORRO-PREFECTURA. Il cielo era azzurro in quella mattina lucente e un venticello leggero, di quello che solo ai Caraibi ti avvolge complice e ti sorride accarezzandoti, quasi la spinse nel varcare la soglia. Un largo e lungo corridoio dal pavimento di legno scuro molto vecchio, pareti celesti come il colore del mare in certi giorni e grandi finestre spalancate da cui l’aria entrava ed usciva come danzando e portando odori e profumi di fiori aperti e focaccine dolci fatte in casa, di sicuro provenienti dagli umili cortili delle case accanto. Giovanna timidamente si rivolse ad un’anziana impiegata comunale seduta dietro ad un banco sulla sinistra e raccontandole la sua storia, le chiese di poter guardare la pagina del suo estratto di nascita originale e di averne una copia. La donna fu elettrizzata da quella richiesta insolita e sorridendo, mentre alcune persone seguivano la scena curiosi e quasi affettuosi nel loro ammiccare, le disse di camminare lungo tutto il corridoio dove, sulla sinistra in fondo, avrebbe potuto cercare in uno degli scaffali il vecchio fascicolo abbandonato del 1952. Presa com’era dalla paura di non trovare il vecchio incartamento, Juanita avanzava trepidante come se andasse incontro ad un destino incerto, tanto che giunta allo scaffale e cominciando a scorrere gli anni….1965, 64, 63, 62, 61, 60, 59, 58, 57…non riusciva a  trovare il suo! Ma quando corse con tutta la furia dei suoi occhi sull’ultimo spazio sotto, quasi nascosto da fogli spuri, ecco che lesse raggiante, col cuore in gola e senza che la voce le uscisse dal petto: 1952. Afferrò l’incartamento polveroso e con estrema protezione se lo strinse al petto abbracciandolo come fosse un vecchio amico ritrovato. Lo aprì e andò di corsa al documento n.117 ed eccolo lì il suo estratto di nascita originale in lingua spagnola! Lesse tutto senza fiato in gola mentre grandi gocce di lacrime caddero sulle parole sciogliendosi come brina mattutina sui nomi di sua madre Maria e di suo padre Pietro e sul nome di Giovanna Grillo (detta Juanita) che era nata a Valencia, Estado CARABOBO, VENEZUELA, alle ore 11:00 del 12 aprile del 1952.

Quando uscì dal municipio, Giovanna teneva stretto al petto il suo certificato, tanto stretto come a proteggerlo da chi, lì fuori, potesse essere intenzionato a sottrarglielo. Juanita si sentiva leggera come fosse nata quel giorno o come se avesse sempre vissuto lì, in quei luoghi, la sua vita. Attraversò calle Manrike soddisfatta e compiaciuta del suo successo in quell’insolita, difficile e avventurosa ricerca. Afferrò al volo un taxi e si fece portare davanti al Teatro Municipal de Valencia, così luminoso e scintillante sotto la luce del sole caldo di mezzogiorno che si specchiava sulle pareti tutte bianche di quell’edificio sul cui tetto sventolava la temeraria ”Bandera de Venezuela”, simbolo Nacional de Independencia.

A Juanita restava solo qualche ora da trascorrere per le vie della sua Valencia, la sua città ritrovata che ora, più che mai, le apparteneva. Nel tardo pomeriggio, un altro boeing l’avrebbe riportata a casa. Che strano? A quale casa, adesso? Ora capiva perché, in fondo all’anima, dentro lo spirito, aveva sempre sentito la voce e il fuoco di quella terra in cui era nata e a cui, oggi più che mai, si sentiva di appartenere. Fu allora che vide davanti a sé la vetrina di una piccola gioielleria che approfittò di guardare mentre aspettava la navetta dell’hotel Intercontinental che l’avrebbe riportata al suo albergo. C’erano deliziosi oggetti d’oro, delicate farfalle con piccoli rubini, braccialetti di lapislazzuli blu e di oro bianco, spille dai disegni floreali con pietre colorate incastonate e grandi orecchini a forma di pavone con la coda variopinta aperta a ruota. Ma, ciò che attrasse Giovanna d’improvviso (perché lei, come sempre, avvertiva tutto d’impatto) fu una piccola medaglia dalla forma quasi triangolare con una punta in giù e due altre ai lati, in alto. Ma per leggere la scritta orizzontale in cima dovette inforcare i suoi occhiali. La gioia la invase quando lesse inciso: Venezuela. Fu in quel momento che Juanita decise che sarebbe stato quello l’oggetto del suo ricordo, per la vita. Quella medaglietta d’oro giallo infilata a una collanina, sottile anch’essa, avrebbe per sempre circondato il suo collo, riscaldato il suo cuore e nutrito la sua anima nel ricordo del luogo incantato e selvaggio delle sue origini.