RIVISITANDO  LA  MEMORIA

A quindici-sedici anni, da poco più di due lustri finita la seconda guerra mondiale e con la miseria ancora dilagante, noi ragazzetti eravamo alla ricerca di qualche lavoretto per guadagnare poche decine di lire. L’occasione si presentò con la nascente piccola impresa edile nel mio paesello alle pendici della Majella occidentale, sulle cui creste in tempo di guerra passava la Linea Gustav. Al di qua erano attestati i tedeschi; nel versante orientale, gli alleati.

Eravamo tre amichetti. Fornitici picco e pala, l’impresario ci fece caricare su un camioncino della terra ammucchiata, mista a materiale di risulta edile. Era un uomo di mezza età, alto, serio, sempre vestito in modo dignitoso. Piuttosto altero, non aveva sorriso per nessuno, ma educato con tutti. Nel lavoro, con i dipendenti era impassibile, rimaneva piantato sul posto, per controllare, con gli occhi di falco sui lavoratori. Così si comportò anche con noi. Una presenta ossessiva, soffocante.

Nella nostra inesperienza, spalavamo la terra con energia e alacrità per dar prova della nostra capacità. Presto, le mani troppo tenere e non aduse al lavoro, si riempirono di vesciche gonfie di una sostanza liquida limpida. Stringendo il manico della pala, le vesciche scoppiarono facendo uscire quella specie di siero. Al contatto col manico dell’attrezzo, le vesciche scoppiate causavano un dolore acuto, bruciante.

Curvi sul lavoro, non ci accorgemmo della momentanea distrazione del boss, e continuammo a lavorare con la stessa sveltezza. Una buona donnetta, passando lesse nei nostri visi una soffusa sofferenza. Non vista dall’impresario, per non far sentire fece verso di noi il gesto della mano che indica piano, piano!…

Piano, piano!…, lo ripetei a me stesso mentalmente e subito la memoria mi ripropose un giorno del 1943 quando, dopo l’otto settembre i tedeschi non erano più nostri alleati, ma nemici acerrimi e presidiavano Campo di Giove, a poco più di sei anni, mi aggiravo presso il refettorio tedesco nel locale a pianterreno dell’edificio scolastico, lato sud. Un militare uscì dalla mensa con un piatto in mano. Col braccio mi fece cenno di avvicinarmi per offrirmi l’avanzo della sua razione. Affamato da giorni, mi buttai a capofitto su quel piatto e nel timore che il tedesco non mi consentisse più di consumare quel bendidio lo guardavo spaurito con qualche timido sguardo. Ma lui, accompagnato col gesto della mano e con tono calmo, disse: langsam, langsam!…, allora capii che voleva solo dire: piano, piano!…

Langsam fu la prima delle tante parole della lingua teutonica che in seguito imparai e ancora ricordo. Frequentavo le cucine tedesche dove, con altri ragazzi, facevo la fila dietro l’ultimo soldato per ottenere una razione di rancio avanzato nella distribuzione ai militari.

Dal “Langsam, langsam…” del tedesco che offriva l’avanzo del suo pasto, al “piano, piano…” che voleva far intendere la buona donnetta presso il mucchio di terra da spalare, seppure con differenti linguaggi, quelle parole erano cariche di umanità, che per fortuna l’Uomo, in diverse circostanze di tanto in tanto, si ricorda di esserne in possesso.

 

26 feb.2015                                                               Giovanni Presutti


PENSIERI  DI  UN  MARINAIO…

con la penna alpina sul berretto

Nell’età che inclina alla vecchiaia, sovente riemergono sentimenti di profonda riflessione che le distrazioni e i pensieri degli anni verdi, rivolti ad auspicate giuste aspirazioni di gioventù, non sempre lasciano spazio a meditazioni. Così, traggo spunto da una toccante poesia di Renzo de Martino, “Cala del Morto”. Con la sua innata sensibilità di poeta, l’illustre letterato de Martino instaura un immaginario, mesto monologo diretto  all’ignoto morto in guerra, spinto dalle correnti marine diverse decine di anni fa, approdato e sepolto in una cala dell’isola Maddalena, definendo la sorte del povero caduto: “… estremo tributo al dèmone della guerra…”

La guerra, stolta e insensata falce che recide la migliore gioventù di vinti e vincitori, alla fine del conflitto, tirate le somme, in termini di vite umane perdute e  sperpero di risorse economiche, gli uni e gli altri risulteranno inesorabilmente perdenti. E’ lo scotto che l’essere umano, pur dotato di intelligenza, paradossalmente accetta ed è costretto a pagare un pesante tributo alle inutili e talvolta superflue lotte. Dalla notte dei tempi, con le prime socializzazioni, l’uomo preistorico spesso si è  scontrato con un altro cacciatore per il possesso di una preda abbattuta. E da allora egli ha proseguito il suo cammino fino ai nostri giorni andando irresponsabilmente sottobraccio con la guerra, lasciando morti in ogni angolo della terra. Uno viene riproposto dalla poesia  “Cala del Morto” che Renzo de Martino, osservando l’anonima tomba, conclude con accorata, mesta riflessione:  “…non c’era un nome sulla consunta croce, / non un fiore sulla nuda zolla / a consolarti d’essere sottratto / al pianto della madre o della sposa…” Sono i versi più toccanti della poesia, riconducibili a tanti figli di mamma caduti in tutte le guerre.

Rimane il mistero dello sconosciuto morto, probabilmente un marinaio, che forse nel perpetuo sonno, da uomo di mare, si è lasciato trasportare dalle onde approdando su quella spiaggia per essere cullato dal placido sciabordio della risacca a lui tanto familiare. Chissà…

Avendo trascorso una vita nella Marina militare e idealmente ancora col solino blu sulle spalle, la poesia “Cala del Morto” mi sollecita un riverente commosso  pensiero per quei poveri marinai caduti e affondati con le loro navi, e dico, parafrasando un verso del poeta de Martino,  morti  senza un fiore, negati al pianto dei loro familiari!

Le mie radici ancora traggono linfa da una terra montana in cui i miei antenati, parenti e  concittadini da sempre hanno militato negli Alpini. Non posso perciò non sentirmi io stesso alpino, per cui, assieme al solino da marinaio sento di avere sul berretto anch’io la penna nera. E mi tornano in mente i tanti nostri giovani alpini della ritirata russa, i quali, stremati dalla fatica, dalla fame, con le scarpe rotte e sferzati dalla micidiale tormenta invernale della steppa, s’accasciavano sulla neve per non rialzarsi più. Rimanevano immobili, subito stecchiti, con gli occhi di ghiaccio fissi al cielo. Né poteva venir loro il soccorso dei fraterni commilitoni costretti a continuare la marcia per non restare inchiodati sul giaccio. Sfiniti anche loro, potevano solo rivolgere a quei morti un doloroso addio con fugaci sguardi annebbiati dalle lacrime. E quante altre lacrime amare nelle case lontane, appena i rintocchi a morto delle campane annunciavano notizie funeste: dolorosi frutti della guerra, da tutti avversata, ma sempre e ovunque stoltamente alimentata!

 

                                                                                   Giovanni Presutti


IL MUTEVOLE CORSO DEL DESTINO

Talvolta i risultati di un incontro casuale o voluto di due persone può mutare il destino di un individuo e non solo, come avvenuto in conseguenza del randez-vous Garibaldi-Mazzini alla fine di luglio 1832. Di conseguenza la sorte ha riservato a Garibaldi un avvenire glorioso e all’Italia ha cambiato in positivo l’assetto storico-politico mutandola in unità nazionale, dopo aver spazzato stati e staterelli.

I fatti. Nel 1833 il giovane marinaio di 3^ classe della Real Marina Sarda, Giuseppe Maria Garibaldi assolve gli obblighi di leva imbarcando su una nave sabauda. Iniziato da Giovambattista Cuneo alle dottrine della Giovine Italia fondata da Mazzini nel 1831 e avendo letto il libro Vite Parallele di Plutarco, che contribuisce ad avvampargli il già innato istinto della libertà, Garibaldi diviene vivente incarnazione dell’idea di indipendenza e di associazione dei popoli. All’atto dell’arruolamento, secondo le usanze del tempo per evitare i casi di omonimia, sceglie il nome di guerra Cleombroto, nome dell’antico eroe di Sparta, fratello di Leonida e padre di Pausania. In quegli anni di sorde agitazioni in Italia per la sete di libertà, brucia l’animo, specialmente dei giovani. Alla fine di luglio del ’32, Garibaldi finalmente vede e conosce Mazzini dal quale riceve un compito e una parola d’ordine per far scoppiare la rivoluzione in Liguria, alla quale egli dovrà partecipare col compito di fare proseliti nella Regia Marina. Se il movimento riuscirà, Garibaldi in unione con i suoi compagni dovrà far saltare in aria la nave sulla quale è imbarcato o impadronirsene e metterla a disposizione dei repubblicani. Si tratta della fregata Des Geneys. Occorre precisare che questa nave ha il nome del barone Giorgio Andrea Des Geneys, ammiraglio ancora in vita che nel giugno 1804 è stato fondatore della Real Marina Sarda nelle acque della Maddalena, giovanissima cittadina gallurese della quale è stato sincero e generoso amico, adoperandosi con ogni mezzo per il suo sviluppo sociale ed economico. Ma, a parte queste lodevoli qualità umane, tornato a Genova, Des Geneys, Comandante in Capo della Marina Piemontese, è un militare inflessibile, ha instaurato un regime di disciplina ferrea. In quegli anni ci sono processi feroci, condanne spietate e diverse fucilazioni, specie contro gli affiliati della Giovine Italia. Insomma, regna ovunque un’aria coercitiva, anche nella semplice manifestazione di un malessere. . Ma la programmata rivoluzione ideata dalla Giovine Italia fallisce sul nascere per cui il pericolo di finire davanti al plotone di esecuzione per alto tradimento è gravissimo. Altre fonti sostengono che il fallimento dell’azione rivoltosa nasce a bordo della Des Geneys, quando un sottufficiale membro della congiura si tira indietro da possibili guai riferendo al suo comando la trama che bolle in pentola, per cui a bordo, Garibaldi sente tremare il ponte sotto i piedi e fa di tutto per scendere a terra e fuggire. Chiede ed ottiene dal medico di bordo una licenza per curarsi un’infezione venerea. Non sappiamo se il medico si accerta della reale esistenza dell’infezione. Fatto sta che Cleombroto col biglietto di licenza in mano discende la passerella e riesce a prendere il largo per andarsi a rifugiare prima a Marsiglia e poi in Sud America. Il resto è storia risaputa. Ma ciò non è tutto: complementare al corso del destino di Garibaldi, il fato mutò in positivo anche la sorte dell’Italia che, in conseguenza della Spedizione dei Mille operata dall’Eroe quando farà ritorno in Italia, approderà alla sospirata unificazione nazionale.

 

Giovanni Presutti