In ricordo dei miei genitori

(stralci di scrittura)

La magia del teatro! Sakespeare diceva di averla percepita fin da bambino, quando marinava la scuola e raggiungeva trafelato la piazza principale di Stratford per seguire le performances dei pageants che arrivavano da Londra o da Manchester o da Oxford.
Anch’io ho sentito prestissimo questa magia grazie a mio padre. Ero una scolaretta delle elementari e, per la prima volta mio padre mi portò a teatro a vedere un’operetta: il Paese dei Campanelli. Ricordo il rosso delle poltroncine nei palchi e nell’arena, i luccichii delle collane e degli anelli delle vecchie signore in attesa dell’inizio dello spettacolo, l’odore del legno dorato e del velluto e le note dei violini che provavano le aree principali nella buca dell’orchestra. “Luna tu non sai dirmi perché……” cantava la subrette sul palcoscenico ed io mi perdevo in quel mondo di lustrini e di llusioni fantastiche. Poi sono seguite: La principessa della Czarda, la vedova allegra, Al cavallino bianco, La danza delle libellule. Mio padre mi sedeva accanto, mi aiutava a comprendere la trama delle storie lasciando però qualcosa di non svelato per non rovinare l’attesa della conclusione che, a differenza delle opere, nelle operette, è sempre un lieto fine. Lui conosceva tutte le aree a memoria e al rientro, in auto, le canticchiava sottovoce per aiutarmi a non dimenticarle.
Ora che ci penso ho condiviso con mio padre un intero percorso teatrale che ha accompagnato la mia crescita: dalle operetta, alla prosa, alla lirica, ai concerti. Lui sempre accanto a me. Quando sono nati i miei figli mio padre si è raccomandato che non facessi mancare loro il teatro, convinto che sia un’ottima forma di crescita umana e culturale, ma anche uno splendido modo per divertirsi e, per qualche ora, dimenticare la propria dimensione entrando in un’altra che di volta in volta, può portarci nel passato e nel futuro, in luoghi reali o immaginari, fra esseri come e diversi da noi .
Nel suo ricovero precedente, una sera, durante una delle mie tante visite, mi ha detto:
“ Ti ricordi Calderon De la Barca? Molti anni fa siamo andati a vedere il suo: La vita è sogno.”
“Sì, lo ricordo bene. Sulla scena c’era una grossa giostra che non faceva che girare e poi gli attori recitavano in versi. Ricordo che mi piacque molto.”
“Il protagonista era in catene e dormiva spesso. Nel sonno sognava, sempre più frequentemente, fino a non distinguere più la sua vita reale da quella fantastica che lo aspettava durante la notte. Io mi sento così. Le luci del reparto, i medicinali che mi costringono a riposare per non sentire il dolore alla schiena, le voci sussurrate degli infermieri. Qui è tutto rallentato e sembra irreale, fuori del tempo. Poi arrivi tu e mi parli del mondo fuori dove tutto è frenetico, ma anche rutinario. Io sono sospeso fra queste dimensioni e non so più chi sono e se questa malattia è reale, se questa sofferenza è reale.”
“Anch’io sogno spesso adesso. Sogno che tu non sia più qui in questo letto di ospedale, fra le lenzuola bianche. Sogno di aprire gli occhi e di scoprire che tutto questo è stato solo un incubo e di sentirti arrivare alla porta per passare qualche ora con i ragazzi dopo il lavoro.”
“Sì, magari domani mi risveglio e sono a casa accanto a tua madre a cercare di risolvere i piccoli problemi di sempre.”
Mi ricordo che poi non ci siamo detti più nulla. Entrambi abbiamo continuato a perderci nell’illusione che stessimo davvero vivendo un brutto sogno e che prima o poi ci saremmo risvegliati presi dai nostri soliti affanni. Sapevamo benissimo che quel gioco ci avrebbe fatto solo più male, ma lo stavamo facendo insieme e questo era sufficiente in quel momento.
Anche dopo, dopo mio padre, ci saranno teatri, e opere a cui assistere, poltrone rosse e legno dorato, ma forse quella magia, per me, non sarà più la stessa.

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La chiesa è gremita di gente. Dal posto dove mi trovo è davvero difficile distinguere quella che conosco da tanto tempo e che ha fatto insieme a me un pezzo di strada e quella che non ho mai incontrato prima, ma in qualche modo, è legata a qualche componente della mia famiglia.
La cerimonia funebre è appena terminata. I presenti aspettano un pensiero, una preghiera da me o da mia sorella. Abbiamo già svolto questo ruolo quando papà se ne andato, tre anni fa, ma anche oggi è difficile salire sull’altare e provare a parlare senza lasciarsi andare alla commozione e al dolore.
Mi alzo e raggiungo l’altare. Intorno un gran silenzio.
Allora comincio:
“Quando è morto mio padre sono stata travolta da una miriade di sentimenti: il dolore, la paura, la rabbia ed ho trovato con facilità mille parole da scrivere che sono diventate la migliore terapia per superare quello che era successo.
Non è accaduta la stessa cosa con la morte di mia madre. Sono caduta nel vuoto, in un vuoto di sentimenti, di emozioni, di reazioni. Per giorni mi è sembrato di trovarmi in una stanza senza pareti e senza pavimento, un luogo dove nessuno riusciva a raggiungermi per consolarmi, per sorreggermi, per aiutarmi a capire. Mi sono guardata dentro e non riuscivo a capire quello che provavo. All’inizio silenzio, solo silenzio tanto che ho pensato di non provare dolore o che forse il dolore fosse troppo grande da non riuscire a riconoscerlo.
Non riuscivo a capire il motivo di quello che mi stava succedendo e allora mi sono imposta di richiamare alla mente i ricordi con lei: gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e poi dell’età adulta nella quale ci siamo spesso perse e poi ritrovate, così diverse nel modo di vedere ed affrontare la vita, eppure unite quando ci confrontavamo nel ruolo di mogli e di madri.
Ripercorrendo la nostra vita insieme ho scoperto di aver accettato una sorta di secondo posto nel suo cuore dove mia sorella Titti la faceva da padrone forse perchè più simile a lei. Quante volte è capitato che parlando al telefono con me, nel bel mezzo di una conversazione, mi lasciasse frettolosamente perchè Titti stava aprendo la porta di casa o che, quando le chiedevo di raccontarmi qualche novità, mi riportava con trasporto gli impegni di mia sorella e quel che le era successo nella giornata. Io ho sempre accettato questa situazione, in fondo, tutti lo dicevano, io ero più simile a mio padre. Forse ho spiegato a me stessa, era questo il motivo che causava in me tanto silenzio e non mi permetteva di piangere come avrei voluto.
Poi ho capito che stavo guardando nella direzione sbagliata.
Mia madre ha trascorso l’ultimo mese di vita in un letto di ospedale e noi familiari turnavamo per l’assistenza rispettando gli orari del reparto. Io, mia sorella, mia figlia, mio marito, la signora che si prendeva cura di lei a casa. La sera che se ne è andata, l’ultimo turno è stato il mio. Le tenevo la mano quando è successo.
Di quell’ultima mezz’ora ho un ricordo forte, nitido.
Sono entrata e mi sono seduta. I suoi occhi erano chiusi, il suo respiro, dietro la mascherina, affannoso, stanco. Ho guardato le sue poche cose sul comodino: un fazzoletto, l’immagine di san Gaspare, un vasetto di frutta omogenizzata aperto, le pillole della sera…. ho sentito nauseante l’odore dei farmaci nelle narici e il rumore sempre uguale dei monitor. Poi tutto intorno è scomparso ed è rimasto solo il suo viso. Ricordo che ho pensato quanto fosse bella nonostante i tanti anni passati in compagnia delle malattie. Mi è sembrata piccola in quel letto ed ho sentito l’impulso di abbracciarla e tenerla stretta. Ho capito che il tempo insieme stava finendo ed allora ho avuto paura di non averle detto tutto quello che dovevo: che l’amavo tanto, che i miei giorni senza di lei non sarebbero stati più gli stessi, che sentivo sordo il dolore della radice che si spezza, che mi sentivo già sola, che avevo paura di cadere…..
Le ho stretto la mano e senza parlare penso di averle detto Grazie e di non temere che papà la stava aspettando e che anche io aspettavo il suo ritorno nei sogni.
Poi il monitor è come impazzito. Sono arrivati gli infermieri, mi sono allontanata, ho raggiunto gli altri nell’anticamera.
Non mi era mai successo di accompagnare qualcuno alla soglia dell’altra vita. E’ stata un’esperienza per la quale non trovo l’aggettivo giusto. Un’esperienza che non riesco a razionalizzare.
Forse le mie lacrime le ho versate in quegli attimi terribili, senza piangere. Forse proprio allora mi sono persa in quella stanza senza pareti e senza pavimento dalla quale ancora non riesco ad uscire.
Le parlo in tanti momenti della mia giornata, chiudo gli occhi e la rivedo seduta in casa, sulla sua poltrona, dietro i vetri, l’aspetto prima o poi nei miei sogni e prego il Signore per quella pace eterna nella quale credo davvero.”

Giulia Calfapietro


DOPO LA PIOGGIA

Ne è venuta giù di acqua: prima timidamente quasi non volesse disturbare la pennichella di molti nel pomeriggio estivo, poi sempre più ardita, incessante, con quel rumore inconfondibile dello sbattere sulle cose che prima ti spaventa, ma poi diventa una nenia che ti rassicura. La strada ha cambiato volto: i colori si sono come smorzati, ingrigiti e l’atmosfera si è riempita di tristezza. Eppure ora che è finita i contorni delle case sembrano più nitidi, i muri più puliti ed i pneumatici delle auto di fretta sull’asfalto riproducono quello scroscio tipico che mette allegria. I rivoli sono andati pian piano diminuendo scorrendo lungo i marciapiedi, le foglie sui pochi alberi della piazza non gocciolano più ed io sono rimasta sola….
Ho riempito quasi tutta la buca fra il mattonato ed il cemento che circonda questo vecchio palazzo di tre piani ed ora che le gocce di pioggia non mi increspano più riesco a specchiare quello squarcio di cielo timidamente azzurro sopra di me. Mi godo per pochi attimi quel silenzio irreale tutto intorno e aspetto che la strada prima, e tutto il quartiere poi, torni alla vita di sempre. Non devo attendere molto: sento il calpestio di passi lenti e stanchi che si avvicinano. Li riconosco. Subito appresso il portone di legno scuro del palazzo di cemento c’è la panchina dove è solito passare i pomeriggi soprattutto durante l’estate. Sta attento a non bagnarsi le scarpe di cuoio un po’ malandate per troppa vita, ma, nonostante la giusta distanza che ci separa, la superficie trasparente dell’acqua specchia quegli occhi chiari ed un angolo di barba quasi completamente bianca. Prende dalla tasca della giacca un fazzoletto di cotone bianco e si curva appena per asciugare gli ultimi segni di pioggia sulla panchina. Finalmente si siede.
Riesco a percepire i lenti movimenti delle mani che dopo aver ripiegato il fazzoletto si poggiano stanche sulle ginocchia. Lo sguardo si fissa lontano: non credo cerchi qualcosa in particolare su cui poggiarsi, piuttosto finge di scrutare l’orizzonte, che ora sta tornando sereno, e si perde in pensieri che lo portano lontano. Vive da anni nella stessa strada di questo paese, credo nella stessa casa bianca un po’ più giù, verso la chiesa, ma questa piazza, questa panchina hanno da sempre fatto parte della sua vita.
Aveva cominciato a venirci da ragazzo con gli amici più fidati, finita la scuola ad aspettare l’imbrunire e con esso l’ora di cena. Proprio su questa panchina aveva confessato un giorno di volere partire, andare lontano e vivere la vita che desiderava tanto. Si sa, quando si è giovani i sogni sono tanti. Voleva trasferirsi in città ed andare all’università per diventare qualcuno. Era finita la guerra e nel cuore c’era tanta voglia di ricostruire la propria quotidianità e di guardare al futuro con occhi nuovi. Si immaginava medico, oppure professore, rispettato comunque e magari felice. Poi la felicità l’aveva trovata in paese e, sempre su quella panchina, aveva raccontato ai soliti amici di quanto era bella e quanto il solo guardarla gli riempiva il cuore e gli toglieva il fiato. “Teresa” : solo pronunciare il suo nome in un soffio di voce lo tranquillizzava ed eccitava insieme. Allora immaginava una vita insieme, piena di bene, accarezzato dall’invidia benevola di chi lo conosceva.
Anche il giorno del loro matrimonio alcune foto furono scattate su questa panchina, sotto il sole d’agosto che giocava con i capelli della bellissima sposa e prometteva ad entrambi un futuro luminoso. Da allora iniziava un cammino insieme, pieno di piccole gioie e di sofferenze, che li avrebbe uniti ancora di più: la ricerca di un lavoro stabile che gli avrebbe permesso di comprare mobili nuovi e la prima auto non usata, la nascita dei loro figli, la scelta della scuola giusta per loro, la vacanza al mare, le cure per la madre ormai anziana, la decisione di prendere un cucciolo, la recinzione nuova per il giardino dietro la casa….
Poi i figli erano cresciuti ed entrambi erano andati a studiare prima e a costruirsi un futuro poi in un altra città. Il più grande aveva anche trovato una cara compagna e aveva deciso di vivere con lei mettendo su una nuova famiglia. Su questa panchina, insieme a Teresa, aveva immaginato di diventare nonno, di raccontare favole e magari spingere il passeggino su per la piazza durante le vacanze estive. Aspettavano la fine del giorno godendo l’aria fresca del tardo pomeriggio, poi, al suonare delle campane per i vespri, tornavano a casa dopo aver salutato qualche amico di vecchia data con la comune abitudine di fare due passi prima di cena.
Pioveva come oggi il giorno che Teresa se n’è andata: con discrezione, in silenzio, come aveva vissuto, compagna leale e sempre presente, ma schiva e a volte timorosa delle sorprese che il futuro poteva riservare. Anche allora le campane avevano suonato, come ogni volta, ma erano apparse diverse, in un canto malinconico avevano suggellato la fine di una lunga storia d’amore che si portava via una quotidianità fatta di scelte condivise, di sguardi di protezione e di sostegno, di braccia intorno alle spalle, di sorrisi complici…..
Passare qualche ora sulla panchina della piccola piazza era rimasta un’abitudine fatta di ricordi e forse di rimpianti per non averle potuto comprare quel braccialetto di corallo rosso che faceva la sua bella mostra nella vetrina della gioielleria del centro o di non aver potuto fare quel picnic tutti insieme, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, perchè a causa dell’influenza il figlio più giovane era costretto a letto con una tazza di vino caldo e cannella fra le mani.
Così, anche oggi, dopo la pioggia, eccolo lì, puntuale, a fissare un luogo immaginario dove il tempo non è quello terreno. Avverto il rumore della carta cerata di una caramella che si accartoccia piano e l’odore intenso di menta e liquerizia. Il respiro più intenso, ma non a causa della profonda malinconia che gli riempie il cuore, piuttosto a causa dell’età che avanza e che gli fa avvertire, a tratti, il peso dell’esistenza che ora è divenuta più monotona.
Soffia il vento umido e porta l’odore del terreno bagnato. Increspa la superficie dell’acqua e mi procura un brivido improvviso. Lo spicchio di cielo sopra di me non è più azzurro, una nuvola grigia lo ha ricoperto e porta con sè l’incertezza del tempo per la notte. Rivedo appena la barba bianca e l’ombra che si alza dalla panchina e, con lui, si avvia verso casa, lentamente. Si accendono i primi lampioni, anche oggi è passato. Domani….. speriamo……

Giulia Calfapietro


Con tanto amore dentro

Nel buio della piccola sala teatro avverto nitida la presenza delle tante persone, eppure intorno al mio cuore ed al suo battere sempre più forte tutto sembra silenzio. Mi sembra di intravedere nella penombra i contorni del palco e, a tratti lo scintillio dei piatti della batteria e la massa lucida del pianoforte a coda. Nelle narici l’odore del velluto impolverato e consunto delle piccole poltrone della platea e poi la percezione delle colonne rivestite di legno decorato e dei lampadari di cristallo.
E’ difficile spiegare persino a me stessa quello che provo in questo momento: un groviglio di emozioni che, a tratti, prendono il sopravvento l’una sull’altra. L’orgoglio, la paura, la gioia e, dal passato, tanto dolore, fitto, denso, pesante…….
Avevo perso Alessandro solo due anni prima della nascita di Chiara e tenendola fra le braccia appena venuta al mondo pensavo: ” A lei non dovrà succedere mai nulla. La proteggerò e la guiderò in ogni passo facendo del mio amore per lei una vera corazza contro le avversità della vita. ” Aveva gli occhi grandi Chiara e mi guardava pur non vedendomi con una dolcezza che, ancora oggi, a vent’anni, le appartiene. E così è stato. Sono stata la sua guida ed il suo rifugio, la sua confidente e la sua anima critica. Ho condiviso con lei ogni piccola conquista e sopportato ogni dolore, compleanno dopo compleanno, giorno dopo giorno. Ci sono stati anche i periodi di incomprensione e scontro: io che pretendevo lei ragionasse come un’adulta, lei che mi supplicava di considerarla quello che era, un adolescente che deve commettere i suoi sbagli per crescere davvero. Ho pianto di nascosto quando sentivo che era triste per l’amore non corrisposto delle sue amiche ed ho pregato perchè non sanguinasse troppo per la perdita del nonno, mio padre, con il quale per anni aveva vissuto in simbiosi e che andandosene via dopo una lunga malattia, lasciava un vuoto incolmabile di storie non più raccontate, complici passeggiate a contatto con la natura che non sarebbero mai avvenute.
Poi un giorno ho sentito Chiara cantare. Di nascosto nella sua stanza, una sera, dopo aver studiato per il compito in classe del giorno dopo. Nella sua voce ho sentito una forza pronta ad esplodere. La melodia era orecchiabile anche se non ricordo più che canzone fosse, ma quello che ricordo è la dolcezza, il colore della sua voce, le sfumature del timbro ed insieme la potenza delle note che, uscendo dalle sue labbra, si univano come in un gioco di incastri perfetti ed armoniosi.
Da quel giorno Chiara non ha più smesso e la musica è pian piano diventata il suo linguaggio, il suo modo di comunicare con gli altri e con se stessa o, meglio, con i meandri più reconditi del suo cuore. Naturalmente io l’ho seguita anche in questo e l’ho sostenuta momento dopo momento perchè non è facile trovare una propria dimensione anche nel canto. Ci sono state le lezioni individuali, poi le audizioni ed i concorsi, gli stage e le prime amicizie in campo musicale. E’ un mondo fantastico visto dal di fuori, ma dentro c’è tanto sacrificio e lavoro duro, ci sono gli incontri sbagliati, le invidie, le delusioni e i sogni infranti. Ma se ci credi davvero bisogna continuare, a testa bassa ma con determinazione. Chiara si faceva strada a spintoni io la seguivo, Chiara cadeva io l’aiutavo a rialzarsi, Chiara era delusa, stanca, indecisa, frastornata io lì pronta ad ascoltare in silenzio la sua delusione, la sua stanchezza, la sua indecisione.
Nelle note di una canzone ci siamo spesso perse e poi ritrovate, più solidali di prima, più vicine. A volte non abbiamo avuto bisogno di parlare perchè il testo di una canzone parlava per noi e la nostra storia si perdeva nelle storie degli altri per poi riconquistare la sua individualità ed unicità. Allora abbiamo cominciato a scrivere insieme, a quattro mani e sono nate delle canzoni che sapevano di complicità e scoperta, contenevano l’entusiasmo di una giovane donna e la pacatezza adulta di un’altra, ma soprattutto raccontavano di vita, emozioni, tempo, sussurri del cuore, sospiri dell’anima, amore, grande amore.
Si avverte, distinto, il suono di una chitarra basso. Cerca di trovare un accordo comune con il pianoforte. Un’ombra compare sul fondo del palco: qualcuno si siede dietro la batteria. Lo scintillio diventa più marcato. Ora il silenzio in sala è reale e si riempie di attesa. Sento in maniera nitida da qualcuno seduto accanto a me: “Ti piacerà, è davvero brava!” Poi più nulla. I minuti che seguono appaiono infiniti e le corde del cuore vibrano forte.
Dal fondo del palco appare una figura di donna, prima solo una sagoma indistinta, poi, alla luce di un faro che dal fondo della sala raggiunge il proscenio si intravede la chioma morbida di capelli ricci, l’abito che cade sui fianchi rotondi e ricopre le gambe fino alla caviglia, un microfono tenuto fra le mani in modo naturale ed elegante.
Un applauso scoppia, caloroso, lungo.
Al primo si uniscono gli altri fari del palco. Eccola! La mia Chiara. Della ragazzina che cantava nella sua stanza è rimasta la dolcezza, il resto è di una giovane donna: gli occhi, i movimenti, la sicurezza della voce.
Inizia il canto e le note del pianoforte gli fanno da cornice, sostengono le pause, smussano gli acuti, giocano con i colori del timbro.
Mi rivedo come in un flash in quel letto di ospedale con un fagottino fra le braccia. Le mie labbra si muovono appena: “Ti proteggerò! Sempre, non aver paura!” Il cammino fatto insieme fin qua ritorna nella mia mente: il tempo si dilata e si comprime, insieme. Vorrei gridare a tutta quella gente che non conosco: “E’ mia figlia! Che ne sapete della strada percorsa per arrivare fin qua. Io conosco le gioie, le sofferenze, le ansie, i sogni. Io sono la sua mamma. Sono parte di quella voce che ora ascoltate, ho abitato in quel cuore che ora vibra e vi fa vibrare.” Ma nel momento stesso in cui penso a quello che vorrei dire una nuova consapevolezza si impossessa di me e si fa chiara, limpida.
Mi sento stanca, felice, ma stanca. Forse è meglio che io mi fermi qui. Avrei dovuto già farlo, ma non ne ho avuto il coraggio. Il canto sembra allontanarsi da me, piano piano e…. non fa male. Guardo Chiara e sento l’affetto delle persone che la circondano. Mi fermo sul suo sorriso, sui suoi occhi da non più adolescente. E’ pronta ad andare. Ora è sicura di sè, di quello che vuole essere per se stessa e per il mondo. E’ forte, la vita non potrà più farle del male, ci proverà, lo so, ma non ci riuscirà se non per pochi istanti. Poi Chiara riprenderà a volare, sola, ma con tanto amore dentro, quello che io e suo padre le abbiamo dato e che ora è pronta per donare agli altri.

Giulia Calfapietro