TRAMONTO

Ho raccolto il mio cuore.
In questo mattino autunnale,
s’è confuso nella nebbia;
i vapori han formato una lacrima.
Ho guardato lontano;
la rosa ha i petali sfioriti,
a nulla è servito un pallido sole.
Ora tutti cadranno col freddo,
come ricordi atrofizzati:
per lei non tornerà la primavera.
Non resta che un pugno di fredde illusioni,
è rimasto in silenzio il mio cuore,
ad aspettare la dolce aurora.
Ma poi cala il sipario……….
C’è gioia e delusione
nel teatro della vita .
Qualcuno applaude,
altri fischiano.
Dopo, insieme se ne vanno.
C’è chi commenta,
c’è chi tace,
sanno, che tutto finisce.
Scende la cupa e fredda notte,
io, come una barca senza timone,
come un navigante senza stella,
cerco di orientarmi nel buio,
sperando di vedere la strada ,
per raggiungere meta e quiete.


 RIFLESSIONI

Note stridenti di vita sbagliata,
versi stonati in concerti di malinconia,
ansie tempestose in anni tutti uguali..
Inutili attese in tunnel senza uscita,
lamenti soffocati nella notte,
risposte, non risposte a grida di dolore.
E’ all’epilogo questo film di vita,
con colonne sonore sbiadite e silenti,
con tinte fosche in un mosaico finito.

FEBBRAIO 2004


IO, DOPO DI ME

Quando le luci si spegneranno,
quando il cerchio si chiuderà,
e tu , figlio mio…….
Avrai rimorsi nella mente,
avrai nostalgia dentro al cuore,
avrai lacrime senza fine.
Poserai la mano sui ricordi,
carezzerai i vuoti remoti,
cercherai ricordi invecchiati.
Ed io?
Tenderò la mano,
ma l’orizzonte s’allontanerà.
Vorrò stringerti,
sentirti ancora mio,
asciugare il pianto tuo.
Vorrò, ma la porta è chiusa,
non mi senti più,
l’orizzonte è sparito.
Vagherò nel disperato tramonto,
rincorrerò spazi irreali,
urlerò col pianto, il nome tuo.
Ma il sipario è calato,
la luce offuscata mi opprime,
la strada è finita per me.
Non mi appartieni più,
abbraccio il vuoto del silenzio,
tutto intorno è mistero.
Sosto ascoltando melodie di pace,
voglio ritrovare l’orizzonte,
ma sono oltre il nulla.
Il mio viaggio è finito,
non ci son più….e mi manchi!


IL VOLO 

Sogni precipitati dopo la tempesta,

senza ali per spiccare il volo,

senza aiuti per ripararsi dal maltempo.

La vita è andata oltre,

mi ha tolto simboli e serenità,

lottatrice prediletta per le guerre.

Eppure son nata vincente,

nel grembo di mia madre candidata a battaglie,

combattevo ribelle.

Poi con cuore di donna e madre,

lottavo in un mondo che non sapevo abbracciare,

troppo distorto per me,  troppo distorta.

Ho vissuto nel freddo di tempeste,

nelle nuvole che offuscavano i miei sogni,

nei tristi tramonti, per arrivare all’aurora.

Tante volte ho ripreso a volare,

tante volte son caduta,

senza drammi , mi son rialzata.

Dopo che ho perso tutto,

ho trovato altri porti da conquistare,

il dolore mi ha dato un’altra vita.

Il tempo mio è passato,

all’orizzonte s’è rinnovata la luce,

gli anni mutevoli, mi han lasciato la pace.

Dopo gli uragani, ho cercato,

ho trovato le stelle.

Ora fenice risorta,

son giunta all’ultimo volo;

io piccola donna, ho vinto la guerra,

la mia rivincita ha segnato il tempo;

son nata guerriera e vincente,

col cuore  ancora sognante,

assetata di vita e amore.


AD UN’AMICA

Ti   ricordo così,

speciale amica  di una vita:

capelli e risate  sparsi al  vento,

trame e piani nei tuoi viaggi,

allegria e lacrime nei tuoi occhi.

Le confidenze di una vita ,

mischiate ai nostri pianti,

le punizioni di una vita ,

divise tra silenzi e lacrime.

Tra spontanee  risate,

giovinezze esplose tardi,

ogni tanto, un gelido intoppo,

travolgeva le nostre strade.

Noi, unite nell’ideale amico,

fummo vere  e strette più che mai,

ridenti e impavide nel nostro legame.

Gli anni di silenzio e distacco,

non strapparono il filo del richiamo,

non spezzarono l’antica magia.

Poi, la gelida notizia:

te ne sei andata per sempre,

ma già da allora  ti ho persa.

Vorrei  ridisegnare quegli anni,

rivivere le nostre gioie,

cantare ancora gli inni alla vita.

Gli anni son calati su di noi,

andasti via allora,

con la tua eterna bellezza,

con la tua irriverenza,

coi tuoi sogni irrealizzati

e non mi hai detto addio.

Perché  addio non è…..

Sei dentro la gloria del ricordo,

sei dentro le parole non dette,

sei dentro i silenzi del commiato,

sei dentro il frastuono che ci teneva vive

e che ora ti ha spento.


ADDIO

Timido sole che lotti,

con malinconiche irose nubi,

vuoi mostrare la tua luce,

ad un mondo quasi spento.

Cerchi spazio tra gocce tempestose,

che minacciano severe,

il tempo terreno che fugge via.

Annaspi , sgomiti, gridi,

cercando lo spazio,

dove combatti stremato.

Ogni sforzo è vano,

perdi l’incontro col mondo,

ti nascondi dietro lunghe ombre.

E  la tempesta incombe!

Rassegnato e vinto,

saluti  con sguardo velato e perso,

imprimendo il mondo nei  flebili raggi.

Così la vita tua si spegne,

tra  la lotta contro il tempo,

la luce tua che non trionfa più,

il posto terreno  che reclami

e che perdi per sempre.

Ti spegni col silenzio,

il cuore che  urla senza voce,

la mano annaspante,

tra  lacrime e visioni affievolite.

E’ l’ora del trionfo dell’ addio.

Ti trascinano impotenza e nostalgia,

il film tormentato è giunto,

all’ultimo straziante atto.


 

FERMATE IL MASSACRO

Visi sconvolti di bimbi cresciuti,
sporchi, occhi vacui e sguardo assente,
alla ricerca di radici e conforto amico,
vagano tra macerie e voci agonizzanti.
Scossi da pianti accorati e senza voce,
spinti dal nulla, nel loro inutile peregrinare,
invocano muti, un segno che cancelli la realtà;
ma son urla nel deserto, passi nelle tenebre.
In nome dell’infanzia, fermate il massacro.
Visi di donne col velo cadente,
regine d’umiltà e schiacciate dalla vita,
trasportano il coraggio di violenze e prigionia,
piegate dal peso del dolore e dell’affanno.
Vagano nel puzzo nauseante della morte,
scavando tra resti di vita e dimore inesistenti,
accarezzando fogli sporchi di sangue ,
resti di un passato, che era solo ieri.
In nome delle donne, fermate il massacro.
Visi spenti di soldati bambini,
di esseri spezzati come rami secchi,
di viandanti stanchi e senza meta,
di anime accecate dall’orrore infinito.
Vagano tutti tra macerie fumanti,
tra bagliori, spari e boati sordi,
la mente irretita dalla feroce disfatta,
cercando, sfiniti, un approdo sicuro.
In nome della vita, fermate il massacro.
Nel silenzio urlato da lacrime di fango,
il sole splende ancora nel cielo fumoso,
dove polvere e luce si abbracciano insolenti,
in una stridente e angosciosa disarmonia.
Il film dell’orrore è completo,
l’inferno ha aperto le sue porte,
tutti vi trovano rifugio,
uniti da una strage annunciata.
In un silenzio assordante ,
gridato da un coro assurdo di anime,
dal cuore freddo e singhiozzi silenti,
si leva inorridito, un unico gelido lamento.
In nome di Dio, fermate la follia umana!


 

TEMPESTA

Navigo nel mare dei ricordi,
spinta da correnti di malinconia,
remando col mosaico ingiallito della memoria.
I muri vecchi del tempo,
aprono vicoli con sassi consunti,
dove correva con le trecce al vento,
una bimba matura e mai cresciuta.
Il povero piatto caldo bastava,
ma non leniva il freddo del cuore.
Le albe si avvicendavano a gelidi tramonti,
troppi domani passavano,
disegnando contorni e perimetri sofferenti.
Il pentagramma della vita,
scandiva note troppo basse,
rapiva i miei affetti, schiacciati dal peso del dolore.
Le attenzioni dei camici bianchi,
non colmavano l’angoscia della realtà.
Come vela alla deriva e viandante senza meta,
superavo tempeste impetuose e distruttive,
cercando accettazione nella lotta infinita.
Nessun vento girava a mio favore;
navigavo in un oceano di paura.
Il ring della vita mi ha battuto.
Sull’uscio del cuore, in un’overdose di ferite,
ancora forte l’anima mia si libra,
bramando ,pur nel crepuscolo,
percorsi di quiete ed approdo.


TERRA MIA

Il vento, chiassoso compagno di vita,
di una terra arida e dolce amara,
schiaffeggia gli alberi con colpi decisi.
I rami infreddoliti, si piegano,
sotto le frustate sferzanti ,
mentre l’aria profuma di terra.
Divorati dai fuochi estivi,
i tronchi son scheletri paurosi ,
nel nero frastuono, dal ghigno irreale.
Il sole accecante,
specchiato nell’immensità marina,
aggredisce il suolo arso e ferito;
brucia la crosta rugosa,
che solca strade e neri muretti.
Si ergono maestosi i nuraghi,
simbolo e forza di un’epoca nobile;
orgoglio di gente rude e rabbiosa.
Profumano le mie radici,
di tutti i profumi del mondo,
cisto, mirto, menta, agrumi e ….mare.
Dipingono le mie radici,
tutti i colori del mondo:
aurora, cielo, campi, nero del fuoco…..e mare.
Ma non so godere di ciò.
Il cuore è fisso al tormento,
dei poveri campi e pascoli avari,
di pastori col gregge distrutto,
di gente che pena la vita,
che piange la morte e l’esilio dei figli.
Povera terra mia malata,
fatta di case vuote,
di gente altera e disperata,
di dolore nascosto dentro al cuore.
Abbandonata per mondi lontani,
dai tuoi figli invecchiati,
che soffocano nel cuore la malinconia,
da dolce mamma, li rivuoi.
Tornano poi, vecchi ,stanchi e vuoti,
a chiederti perdono,
a riposare in pace ,
finalmente tra le tue braccia.


DONNE

 

 

Donne dal cuore di burro

e l’anima indurita,

amate, sognate, desiderate e

…spesso calpestate .

Donne che procedono da sole,

con lacrime schiacciate dentro,

ingabbiate in sogni d’amore.

Donne che dominano le paure,

camminando sotto nuvole scure,

con cieli dal volto violento e crudele.

Donne che non si fermano,

cercando valori mai spenti,

mangiando coraggio,

senza mai rinunciare.

Donne vestite di sorrisi,

inghiottendo lacrime,

imprigionate nella lotta,

sotto fili spinati,

in tortuose strade smarrite,

con trattenuti lamenti.

Donne incurvate da zavorra,

impassibili ai colpi,

che crollano e si rialzano da sole,

senza mai dichiarare resa.

Donne che amano e vivono col cuore,

sognando utopie.

Travolgeranno chi tenterà di fermarle,

raggiungeranno mete sospirate,

lasciando scie che sanno di buono,

su sentieri profumati di petali e d’amore.


 

TRAMONTO

 

 

Vado verso il tramonto,

donna ribelle e incompiuta .

Non ditemi che devo,

oggi, alla fine,

dico solo lo voglio.

Intrisa di sogni nel cassetto,

di progetti disattesi nascosti,

di vita consumata in folli corse,

mi affaccio alla luna.

Carica di ricordi ed ansie ,

cullata da concerti di malinconia,

respiro i sogni infantili,

rivivo ingenue illusioni,

proiettate in un futuro,

tanto vicino e tanto lontano.

Rinascono profonde emozioni,

vissute con forza di donna,

in una luce abbagliante ,

permeata di forte energia.

Ma il sapore del grigio passato,

sparito e mai scordato,

lasciando dubbi e domande,

incupisce il cielo ,

accompagnandomi, inesorabilmente,

all’ultimo valzer.


 

COME….

 

 

Come un’alba che non vuol spuntare,

come il passerotto che non riesce a volare,

come un cerchio che non si chiude,

come un tunnel senza uscita ,

come una voce senza eco,

come un fiore che non vuol sbocciare,

come un canto stonato,

come un passo inciampato,

come sabbie mobili che t’inghiottono ,

come…..come….come.

L’anima strizzata senza veli,

il cuore stretto nella morsa,

il ghiaccio che irrigidisce le membra,

la luce che non vuole arrivare.

Diversi e uniti,

vicini e lontani,

dispersi in un giorno che muore,

né più suoni né parole,

uniti nel ricordo,

di un abbraccio lontano.

Solo un addio !


 

 SONO ANSIA I MIEI GIORNI

 

Sono ansia i miei giorni,

ansia rinnovata all’alba,

ansia che si accompagna al crepuscolo,

ansia che porta dietro i sogni nella notte.

 

L’esistenza è passata,

tra lotte infinite,

sperimentando l’arte del donare,

contrastando il lavoro del guerriero.

 

Giorni, mesi ,anni, passati

con la fedele compagna di sempre:

tristezza, fatta di attesa.

 

Il mio penare ,soffrire ,lottare,

mi segue ovunque,

in un percorso chiuso di vita stanca.

 

Ancora vorrei immergermi nel tempo finito,

cercando come allora ,l’essenza della vita,

rivivendo brani di speranza,

con animo leggero e cuore attento.

 

Ma in questa folle realtà,

il treno della vita, corre veloce

e invecchio, sempre più bambina,

cercando di vivere giovane nel tempo,

con spirito di chi, è al capolinea,

ma sempre alla partenza.


ERI SPECIALE

Eri speciale
e non sapevi di esserlo.
In ogni cosa mettevi il cuore.
Davi, non per ricevere,
ma per il piacere di vedere sorrisi.
Guardavi il mondo con occhi d’amore ,
vedendo ciò che non si vede,
ascoltando solo la voce del cuore.
Nei tuoi anni sofferti,
regalasti a tutti il meglio di te,
senza essere ripagata ,
senza mai chiedere un grazie .
Il colore ed il calore dei tuoi petali,
sparsi nelle nostre vite,
ancora donano il tuo profumo ,
e col tuo esempio d’amore,
parlano per te,
senza fine.


 

VORREI TEMPO

VORREI TEMPO,
PER CIO’ CHE NON HO PIU’ ,
PER L’INFANZIA SPRECATA CERCANDO PERCHE’,
NEL REALIZZARE IL FILM DELLA VITA.
VORREI TEMPO PER VIVERE A MODO MIO,
GLI ANNI GRIGI DELLA GIOVENTU’.
VORREI TEMPO PER RIAVERE ,
IL FIGLIO SUL SENO E
CHIUDERLO IN UNO SCRIGNO SICURO.
VORREI TEMPO PER STUPIRMI,
GUARDARE ALBA E TRAMONTO,
VIVERE IL MIRACOLO DELLA NATURA.
VORREI TEMPO PER ACCAREZZARE ,
VISI SPARITI NELLA CRUDELTA’ DELLA VITA
E IMPRIGIONARLI A ME.
VORREI TEMPO PER CANCELLARE RIMORSI
E RIANNODARE FILI INTERROTTI DALLE COLPE.
VORREI TEMPO PER DONARE,
SANARE LE FERITE DEL MONDO,
PER SOGNARE ANCORA.
VORREI TEMPO PER SPERARE,
PERDONARE E PERDONARMI,
CERCARE LA STRADA CHE NON TROVO.


 

 SONO ANSIA I MIEI GIORNI

 

Sono ansia i miei giorni,

ansia rinnovata all’alba,

ansia che si accompagna al crepuscolo,

ansia che porta dietro i sogni nella notte.

 

L’esistenza è passata,

tra lotte infinite,

sperimentando l’arte del donare,

contrastando il lavoro del guerriero.

 

Giorni, mesi ,anni, passati

con la fedele compagna di sempre:

tristezza, fatta di attesa.

 

Il mio penare ,soffrire ,lottare,

mi segue ovunque,

in un percorso chiuso di vita stanca.

 

Ancora vorrei immergermi nel tempo finito,

cercando come allora ,l’essenza della vita,

rivivendo brani di speranza,

con animo leggero e cuore attento.

 

Ma in questa folle realtà,

il treno della vita, corre veloce

e invecchio, sempre più bambina,

cercando di vivere giovane nel tempo,

con spirito di chi, è al capolinea,

ma sempre alla partenza.


ERI SPECIALE

Eri speciale
e non sapevi di esserlo.
In ogni cosa mettevi il cuore.
Davi, non per ricevere,
ma per il piacere di vedere sorrisi.
Guardavi il mondo con occhi d’amore ,
vedendo ciò che non si vede,
ascoltando solo la voce del cuore.
Nei tuoi anni sofferti,
regalasti a tutti il meglio di te,
senza essere ripagata ,
senza mai chiedere un grazie .
Il colore ed il calore dei tuoi petali,
sparsi nelle nostre vite,
ancora donano il tuo profumo ,
e col tuo esempio d’amore,
parlano per te,
senza fine.


 

VORREI TEMPO

VORREI TEMPO,
PER CIO’ CHE NON HO PIU’ ,
PER L’INFANZIA SPRECATA CERCANDO PERCHE’,
NEL REALIZZARE IL FILM DELLA VITA.

VORREI TEMPO PER VIVERE A MODO MIO,
GLI ANNI GRIGI DELLA GIOVENTU’.

VORREI TEMPO PER RIAVERE ,
IL FIGLIO SUL SENO E
CHIUDERLO IN UNO SCRIGNO SICURO.

VORREI TEMPO PER STUPIRMI,
GUARDARE ALBA E TRAMONTO,
VIVERE IL MIRACOLO DELLA NATURA.

VORREI TEMPO PER ACCAREZZARE ,
VISI SPARITI NELLA CRUDELTA’ DELLA VITA
E IMPRIGIONARLI A ME.

VORREI TEMPO PER CANCELLARE RIMORSI
E RIANNODARE FILI INTERROTTI DALLE COLPE.

VORREI TEMPO PER DONARE,
SANARE LE FERITE DEL MONDO,
PER SOGNARE ANCORA.

VORREI TEMPO PER SPERARE,
PERDONARE E PERDONARMI,
CERCARE LA STRADA CHE NON TROVO.


E LA VITA RISPOSE

Prima di addentrarmi nei meandri della mia vita ,vorrei fare due precisazioni . Perché, come titolo ho scelto di parafrasare un celebre libro? Semplice: ritengo che in un certo qual modo, la vita mi abbia dato delle risposte, forse non quelle che cercavo, quando da bambina sognavo di vivere, come tutti, una romantica esistenza felice, ma me le ha date . IL mio racconto, non sarà un’esposizione di malattie, non rientra nella mia personalità prorompente, allegra, non sono il genere di persona che si piange addosso, ma piuttosto sono stata spesso paragonata all‘araba fenice.
Il nome dato a questo concorso ”DONNA SOPRA LE RIGHE”, penso mi calzi a pennello.
Non credo di essere una persona comune: penso di avere nel DNA, lo spirito di opposizione verso le regole imposte, la ribellione istintiva e convinta verso tutte le ingiustizie, un’iperattività cucita addosso che spaventa chiunque, ma anche una generosità che mi porta a dividere tutto il poco ed il molto che ho.
Questo spirito romantico, sognatore ,battagliero, pronto ad arrivare in cima al mondo per risolvere un problema di chi ha bisogno d’aiuto, un innato infantilismo, che mi espone a continui pericoli, ma mi permette di essere l’eterna bambina, non mi hanno mai abbandonato e penso che mai mi lasceranno e sono stati il perno della mia vita e ……..forse la mia salvezza.
Perciò, non intendo annoiare il lettore, cercherò di dare al tutto un’impronta giocosa ,narrando la mia vita sin dall’inizio, per far meglio capire chi sono.
Sono nata a Macomer,in provincia di Nuoro,il 5 novembre del 1952.
Qua, prima di tre figli, ho trascorso la mia infanzia ,nella realtà di un paese di circa 13.000 anime, con un’economia in espansione, tipica degli anni 60 . L’educazione che mi è stata impartita è simile a tante famiglie dell’epoca :grandissima severità, dopo la scuola dovevo aiutare in tutto la mia mamma a casa, portare a scuola il mio fratello più piccolo, nei periodi in cui non era ricoverato, in quanto essendo poliomielitico, trascorreva i suoi anni in ospedale. Mio padre, molto in là con l’età, ebbe vari ictus e finì allettato per anni, per cui le mie responsabilità aumentarono e diventai la seconda donna di casa, contribuendo anche a mandar avanti un’attività commerciale, che era ormai sulle spalle di mia madre.
Nell’intensità di questa vita, riuscii comunque a conseguire brillantemente il mio diploma e a continuare ad essere la bambina terribile che son sempre stata: maschiaccio, insofferente alle rigide leggi familiari, che mi imponevano sottomissione, obbedienza, solo sacrificio, nessuno svago adolescenziale e autostima zero. Avevo un vuoto terribile dentro :un gran bisogno di affetto .
Dopo un anno di università, vinsi, la più giovane della provincia, il concorso magistrale che mi permise di accedere a soli 19 anni, al campo dell’insegnamento. Si spalancarono le porte del lavoro e interruppi i miei studi universitari, nel momento in cui conobbi Michele, il mio futuro marito, convinta che l’amore ed il lavoro, mi sarebbero bastati, non era il caso di perdere altro tempo sui libri.
La mia strada prendeva una piega diversa per la prima volta nella vita.
Niente però riusciva a placare l’inquietudine che mi portavo e mi porterò per sempre dietro: il mio fidanzato era l’ultima persona al mondo che potesse colmare i miei vuoti affettivi :era gelido, egocentrico, tiranno. Ritrovavo in lui le stesse caratteristiche di mio padre .
Tutto continuava come in passato. Nonostante ciò, innamoratissima e completamente succube, lo sposai lo stesso.
Trascorsi anni di solitudine e mortificazione, senza poterne parlare con nessuno ,visto il mio carattere chiuso ed orgoglioso. Mia madre sospettava, ma feci sempre in modo che non dovesse preoccuparsene, poiché tra di noi non c’era dialogo né confidenza e , come tutti, aveva sempre cercato di dissuadermi dall’unione.
Neanche l’arrivo di Cristian, che divenne la luce dei miei occhi, dopo 5 anni di matrimonio, cambiò la situazione.
Dopo quasi 12 anni, andai via di casa col mio bambino e con una separazione molto travagliata e ostacolata da Michele. Stetti 3 anni in casa di mia madre, poiché con sacrifici immensi, mi ero imbarcata nella costruzione di una casa .
Finalmente per me ed il mio Cristian, giunse il momento sospirato di entrare nella nostra casa.
Eravamo felici ma tormentati da mio marito, che usava il bambino per farmi la guerra, che si trasformò in stolking ,nonostante ancora non se ne parlasse.
Passarono pochissimi giorni, ma qualcosa dentro di me, cominciava a dare dei segnali: il motore iniziò ad incepparsi.
Fu come se, una volta in possesso della mia casa, fosse caduto dell’olio, che iniziò a spargersi e ad allargarsi e non si fermò mai più per il resto dei miei giorni.
Ebbi due lunghi ricoveri per delle allergie strane, delle quali non si veniva a capo, che mi sfiancarono: persi parecchi chili e tutto ciò che mangiavo, mi creava problemi.
Un giorno poi, accompagnai un’amica che voleva fare un esame al seno ed era terrorizzata.
Col mio carattere giocoso ed incosciente, la rassicurai con allegria e per essere solidale con lei, mi feci visitare anch’io. Lei era sanissima, a me venne diagnosticato un pericolosissimo seno fibrocistico che necessitava di urgenti controlli e molta attenzione.
Come è naturale per me, non chiedere aiuto, feci le visite di rito per mesi, senza parlarne con nessuno.
Giunse molto in fretta il momento di dover asportare un nodulo nel seno sinistro, che cresceva a dismisura .
Vista la mancanza di dialogo con la mia famiglia, avevo un pudore strano a parlarne con mia madre: era come se dovessi confidare una mia colpa; inoltre avevo tanta paura della sua preoccupazione e di quella degli altri componenti di famiglia. Ricordo il giorno dell’intervento, come uno dei più traumatici della mia vita.
La sala d’attesa era piena di donne che parlavano solo di tumori al seno, nominavano alcune di loro conoscenza ormai morte, altre che erano distrutte nel corpo e nello spirito dalla malattia, qualcuna che s’era salvata, ma pscologicamente era finita.
Io guardavo tutto come spettatore e mi sembrava di assistere ad un film; andai subito all’aperto e non feci altro che fumare, concentrandomi in altre cose, non volevo farmi coinvolgere dai loro discorsi macabri.
Entrai in sala operatoria a fine mattinata . Ciò che mi aspettava era un episodio di bassa macelleria: :il chirurgo era pronto con la siringa per l’anestesia locale, senza un colloquio preliminare, nonostante io avessi gravi allergie.
Tutto si svolse in anestesia locale, molto velocemente perché era tardi ed ero l’ultima; era evidente negli sguardi di tutti, la fretta di finire. Non mi venne rilasciato nessun foglio che documentasse quel che era stato fatto.
Feci il viaggio di ritorno con la persona che mi aveva accompagnata ,dolorante, stordita, e amareggiata. Per dei giorni stetti male e dovetti recarmi dal mio medico di base per la medicazione giornaliera, e sempre con un po’ di temperatura.
Dopo 9 giorni, tornai a Sassari in ospedale, per togliere i punti e ritirare l’esito istologico.
Tutte le donne operate con me, rientrarono col loro esito benigno in tasca; il mio non si trovava.
Per 2 mesi tempestai di telefonate il chirurgo ,per avere notizie, mentre il mio seno operato, era ancora sofferente e ricoperto da un ematoma.
Poiché la mia preoccupazione aumentava e nessuno mi dava risposte, andai all’ambulatorio senza appuntamento .Il chirurgo mi sgridò per questo, vigorosamente; la sua assistente, impietosita dai torti che stavo subendo, si diede da fare e fece saltar fuori il mio esito.
Assistetti alla fase successiva come in trance: il medico disse prima di tutto che dovevo essere sottoposta ad un altro intervento per poter asportare l’ematoma ancora presente .Non ebbi il coraggio di dire che questo derivava(come mi era stato detto dal mio medico),da un’eccessiva fretta nel cucire i tessuti, dunque la responsabilità era solo sua.
Poi lesse con molta superficialità il mio responso, nel quale si parlava di un carcinoma in situ e affermò che avrebbe approfittato dell’operazione per togliere il pezzo di seno circostante e la cosa si sarebbe ripetuta nel futuro, in quanto la situazione doveva essere controllata.
Ero sola e feci il viaggio di circa 80 chilometri che mi separavano da casa, come un automa e sbagliando anche la strada.
Completamente in confusione, andai dal mio medico, il quale ,una volta a conoscenza dei fatti, incredulo e molto arrabbiato, mi consigliò di recarmi presso un’altra struttura ospedaliera, con la speranza di avere più attenzioni.
Eravamo sotto Natale ed io ero sempre più confusa .Inoltre non avendo un dialogo con la mia famiglia, non avevo il coraggio di dire apertamente che la situazione era grave. La mia mamma era vecchia ed invalida, c’erano altri parenti molto stretti in famiglia, che stavano male, io mi occupavo di tutti, come avrei fatto ad assentarmi, lasciare mio figlio in mano a chi, come organizzarmi ?Quale sarebbe stato il mio futuro? Avevo un futuro ?Chi avrebbe pagato i debiti che avevo contratto per la casa?
Non avrei sopportato che mi venisse portato via il frutto dei miei immensi sacrifici.
Passavano i giorni ed io, con la mente nel caos più completo, mi arrovellavo e trascorrevo notti in bianco, senza capire che strada prendere, preparavo piani dentro di me, che non arrivavano a nessuna conclusione e senza che riuscissi ad esprimere ai miei, la mia angoscia.
Mi venne in aiuto una cara amica, la quale riuscì a fissarmi un incontro col primario della chirurgia d’urgenza di Nuoro, uomo di professionalità certa e dotato di indiscussa umanità.
Mi ricevette in modo informale e senza compensi subito dopo Natale.
Con modi rassicuranti chiese che mi procurassi i vetrini dell’intervento, che lui avrebbe fatto esaminare a Nuoro, dal suo patologo di fiducia, prima di prendere qualsiasi decisione.
Il mio peregrinare continuò: :riuscii ad ottenere a Sassari i vetrini richiesti e recapitarli al chirurgo.
Questo li fece riesaminare e mi chiamò.
Con fare sicuro, ma anche in modo sdrammatizzante, mi disse che a suo parere, avrei dovuto asportare il seno sinistro e molto probabilmente, in sede d’intervento, dopo l’estemporanea, si sarebbe reso necessario anche asportare il destro. Aggiunse però che capiva che stava facendo un discorso scioccante ad una ragazza, per cui, molto umilmente, mi propose di andare a Milano per chiedere un consulto a Veronesi.
Mi congedò dunque lasciandomi il tempo per riflettere ,tempo che corrispondeva ad………una settimana, non di più. Poi ,se non fossi andata a Milano, sarei dovuta tornare da lui per concludere.
A differenza di quando rientrai dall’intervento di Sassari, tornai con uno spirito diverso, maggior sicurezza, calma e voglia di combattere.
In cuor mio avevo già deciso: non potevo permettermi un viaggio ed un consulto dispendioso con Veronesi, non avevo nessuno che mi accompagnasse, avevo grande fiducia in questo chirurgo, che mi aveva trattato in modo paterno e sincero e mi sentivo tutelata da lui.
Passai il tempo, una volta a casa, ad organizzare il mio imminente soggiorno in ospedale: fu la prima di tante trasferte che nel corso degli anni avrei dovuto affrontare.
Cercai di sistemare mio figlio , mia mamma che dipendeva da me, gli altri parenti ai quali io provvedevo, trovai una persona che mi avrebbe dovuto portare e riportare .
A cose fatte, mi rendo conto con grande malinconia ,che ogni mio ricovero è stato sempre un fatto organizzativo di famiglia e problemi, la mia condizione, il mio incerto futuro, son sempre stati dei dettagli di poca importanza.
Partii con lo sguardo triste negli occhi e nel cuore, del mio Cristian ,che mi stringeva forte con la sua manina e diceva:<Mammina, buona fortuna ,vedrai che poi ti ricresce>.
A Nuoro, in chirurgia d’urgenza, venni trattata con i guanti di velluto da tutti e questo influì positivamente in tutto.
L’intervento andò bene :il mio seno sinistro venne asportato, poiché il tumore era isolato, non si rese necessaria altra terapia, il destro, per il momento era al sicuro, ma dovevo tenerlo sotto stretto controllo, perché proliferava di noduli. Mi dimisero, complimentandosi per il mio comportamento da “malato ideale,” e dicendo che dispiaceva perdere un paziente perfetto come me.
Nel periodo successivo di convalescenza, ebbi una solidarietà incredibile :colpiva soprattutto la mia reazione: non mi risparmiavo in casa, ripresi subito ad assistere i miei familiari malandati, facendo anche notti intere in ospedale, nonostante non mi avessero neanche tolto i punti, per assistere una mia zia, anch’essa colpita da un tumore .
Ero instancabile e senza nessuna cura per me stessa. Tutti erano enormemente colpiti dalla mia forza ed una collega di lavoro, che non si capacitava, mi disse che al posto mio, sola come me, si sarebbe suicidata. Ora mi rendo conto che le mie emozioni, il mio stato d’animo, passava in secondo piano, non c’era tempo per piangermi addosso, c’erano situazioni più gravi in famiglia, che mi ero sobbarcata . Passò solo un anno e mezzo e già ero sotto i ferri per asportare completamente il seno destro. Ebbi sempre il solito problema organizzativo, nei confronti della famiglia, ma niente altro mi impensieriva, mi rendevo conto che la mia mente era entrata in un vortice pericoloso: dovevo essere una perfetta regista di tutto il film e riprendermi il prima possibile perché c’era bisogno di me.
Lasciai nell’ufficio della scuola dove lavoravo e lavoro tutt’ora ,le disposizioni necessarie, in modo che, se io fossi morta, avessero portato avanti le pratiche per poter assicurare un assegno minimo di mantenimento a mio figlio.
Tutto andò bene anche stavolta ed io ripresi la mia solita vita di superlavoro, stress, debiti per la casa, che mi dissanguavano, controlli per la malattia, che non sempre facevo regolarmente perché la vita mi assorbiva e consumava: ero un perfetto robot.
Ero ancora giovane, ma guardandomi allo specchio, il mio aspetto, senza seno completamente, non mi piaceva, avevo problemi col costume da bagno, con gli abiti, allontanavo tutti i corteggiatori perché ero inadeguata. Rinunciai a tutto, anche a trascorrere una nottata fuori casa con un’amica, l’imbarazzo era sempre in agguato. Feci una visita da un chirurgo plastico molto quotato, il quale mi chiese una cifra enorme per la ricostruzione, perché l’intervento non era finanziato dalla sanità ed io non potevo permettermi neanche di pensarci ,visto che navigavo nei debiti , per la mia casa.
Ancora una volta , chiusi la mia porta di donna e mi rassegnai, anche se con l’amaro in bocca.
Passava la vita, la giovane età, le mie corse erano continue, il mio stress infinito, ma mantenevo agli occhi di tutti, una disinvoltura, un’allegria contagiosa che mi rendeva simpatica a tutti, che mi permetteva di crearmi tante amicizie e tanta ammirazione: pian piano, stavo diventando un esempio.
Nel frattempo la mia terribile escalation fisica continuò in un turbinio senza fine.
Mi scoprirono parecchi grossi fibromi uterini, che in breve mi portarono in fin di vita, perché pur cosciente che stavano schiacciando il mio apparato urinario, non mi era possibile, tornare sotto i ferri e fermarmi per lungo tempo, per la solita situazione familiare ingarbugliata. Mi arrivò una pielo -nefrite terribile che mi costrinse ad un ricovero urgentissimo con temperature vicine ai 42 gradi e senza garanzia di risoluzione.
La mia forte fibra che ormai si era abituata a tutto, mi aiutò :seguì un lunghissimo e difficile intervento, tre mesi dopo, durante il quale, il chirurgo si prodigò per me in maniera eccezionale: mi tolse 21 fibromi, mi ricostruì l’utero in modo perfetto, dicendomi ,che visti i miei trascorsi ,non voleva che avessi altre amputazioni :orgoglioso del suo lavoro, mi disse che mi aveva messo in condizioni ,volendolo, di essere ancora madre. La ripresa fu dura :troppi colpi si abbattevano sul mio fisico molto debilitato e troppi i parenti che stavano male e avevano bisogno di me .Avevo solo una certezza: dovevo andare avanti per gli altri, per me come donna non c’era posto : Giusy, era un motore da aggiustare continuamente perché serviva in forma :si doveva rattoppare, tamponare e stare sempre in pista.
Questa divenne la mia filosofia di vita: visto che il motore subiva in continuazione danni gravissimi, dovevo trovare dentro di me la forza, le energie necessarie per revisionarlo. In sala operatoria ero ormai un ospite fisso, dovevo andare avanti a qualsiasi costo e portare a compimento tutto ciò che avevo avviato nella vita, ancora non potevo cedere.
Qualcosa di incredibile stava per accadermi ancora.
Dopo alcuni mesi, sulla cicatrice del seno sinistro asportato, in quello dove c’era stato il tumore, si formarono dei noduli grossi e dolorosi . Non c’erano più pause :il mondo continuava a crollarmi addosso senza pietà.
Altri viaggi ,visite ,diagnosi, pianti dei miei, altra organizzazione da parte mia , stress ,stanchezza mortale ,altro intervento invasivo.
I medici che anni prima mi avevano asportato i seni, erano increduli: dissero che una cosa simile non era ancora capitata.
Ripresi in mano la valigia, sempre pronta per le mie vacanze in ospedale, riorganizzai per l’ennesima volta il mio viaggio della speranza e il giorno dopo pasqua, ripartii, con la morte nel cuore, ma sperando che tutto si concludesse in fretta perché i problemi a casa, che occupavano la mia mente ,mi chiamavano.
Ancora una volta, il pensiero di ciò che lasciavo, aveva la precedenza sul mio grave stato di salute.
La vecchia ferita venne riaperta, venne eseguita un’ulteriore dolorosa, toilette chirurgica con tutta la prassi del caso.
Avevo la triste consapevolezza che il mio fisico era diventato un pezzo di carne da fare a fette.
Ero convinta che un giorno o l’altro, sarei morta sotto i ferri, mi pareva che alla fine non avrei più retto le anestesie, che non sarei riuscita più ad avere la forza di riprendermi e continuare a soccorrere gli altri.
Erano passati già tanti anni, dalla prima asportazione ed io ero sempre dentro il tunnel, senza trovare la via d’uscita .E poiché nessuno mi sentiva mai lamentarmi, piangere ,disperarmi, mi ero creata l’immagine di una persona invincibile, che niente poteva piegare.
Mi veniva detto continuamente che ero una donna forte e avrei superato tutto.
Ormai, recarmi in ospedale, sottopormi a tutte le torture del caso, farmi amputare sempre nuove parti, era diventata una routine consolidata: per me non c’era altro nella vita.
Solo quando, alla fine delle mie lunghe giornate massacranti, ero sola con me stessa, davo sfogo alla mia tristezza ed alle mie paure e mi davo domanda e risposta, augurandomi di resistere e portare a compimento il compito che avevo con la famiglia e sperando di vedere mio figlio sistemato.
Cristian era il mio chiodo fisso.
Ormai era cresciuto, si era diplomato, era ed è uno sportivo nato, qualità che ha preso da me, riportava in continuazione numerosi successi in tutte le attività sportive, partecipando anche a campionati regionali e nazionali, nella disciplina nella quale era iscritto.
Volendo, avrebbe avuto un brillante futuro in quel settore, bastava mandarlo avanti.
Quale scuola è migliore dell’ISEF, in queste situazioni?
Entrambi avevamo questa consapevolezza, le nostre ambizioni non avevano via d’uscita.
L’accesso era a numero chiuso e non in Sardegna. Questo significava mantenerlo oltre mare .
Rinunciammo in partenza perché il mio mutuo in corso, i debiti contratti per la casa, non mi permettevano di fare altri progetti.
Il mio ex marito non ci fu mai d’aiuto nelle tristi vicende della nostra vita, anzi costringeva il figlio, allora ed in tutto il suo corso di studi, a lavorare praticamente gratis e con grande sfruttamento, nella sua attività commerciale.
Il ragazzo era esausto, mortificato, sofferente e senza mai far trapelare niente, come facevo io, in ogni situazione.
Voleva scappare dalla trappola che il padre aveva disegnato per lui, che lo voleva al servizio completo nella sua azienda , che si avviava al tracollo, per i troppi debiti contratti, a causa delle sue manie di grandezza .
A quel punto, il mio Cristian, non potendo frequentare l’ISEF, come suo desiderio e volendo allontanarsi dal pericolo paterno, diede dei concorsi nell’esercito e li vinse tutti.
La mia soddisfazione fu grande, ma anche il mio dolore: si allontanava da me per la prima volta,
il mio cucciolo, che era diventato un bellissimo ragazzo e stava diventando un “piccolo grande uomo”.
L’allontanamento fu graduale, dapprima, trovandosi ancora in Sardegna, rientrava il fine settimana e poi, quando partì oltremare, lo rividi dopo mesi.
La mia vita, che procedeva come sempre, diventò ancora più vuota : a casa mia ero sempre di passaggio, tanto ero impegnata; la sera come rientravo a dormire, sentivo un vuoto opprimente, un silenzio che mi divorava l’anima.
Entravo nella sua camera e accarezzavo le sue cose parlando da sola: il nido era vuoto.
Nel lavoro e nell’adattamento alla vita militare, Cristian fu eccezionale: da allora ad oggi, si è sempre fatto apprezzare e notare per le sue straordinarie qualità: si è sempre sacrificato al massimo, non tirandosi indietro di fronte a niente, ha dato il meglio della sua onestà e dei valori che lo caratterizzano.
Si è speso per il lavoro in modo raro, generoso, soffrendo in silenzio per i bocconi amari che spesso doveva inghiottire e partecipando a tante missioni, dette di pace e che di pace non hanno niente, dando sempre il massimo delle sue energie, della sua vitalità e non curandosi mai del pericolo e dei rischi quotidiani , tipici del suo lavoro.
Cosa succedeva qua, nella mia vita lontana da lui?
Niente di nuovo rispetto alla situazione precedente : tra un intervento e l’altro, continuavo ad insegnare, mi dedicavo alla cura di mia madre, ormai in sedia a rotelle, alle sue sorelle, che avendo un’età avanzata come lei e niente figli, passavano da un ricovero all’altro, da un problema all’altro.
Nel frattempo anche una mia cugina, cresciuta con me come una sorella, se ne andò per una malattia rara a 40 anni e anche in quest’occasione, dovetti rimboccarmi le maniche per far fronte alla situazione.
La mia famiglia non era molto fortunata e in quanto a malattie, non si era fatta mancare niente e……..neanche io.
La mia escalation fisica infatti, nel frattempo non aveva subito rallentamenti.
Avevo dimostrato di non riuscire a star lontana dalla sala operatoria, da quel lontano novembre del 91,quando tutto ebbe inizio.
Ed infatti, tutto proseguì come sempre.
Non so quante altre volte dovetti finire nel corso degli anni sotto i ferri per “revisionare ,raschiare,
il mio apparato riproduttivo, che continuava a crearmi dei gravi problemi: un’infinità!
Nel frattempo però, quasi casualmente, a metà degli anni 90, mi venne diagnosticato un glaucoma ad entrambi gli occhi.
Faticai un po’ a comprendere il significato della malattia, visto che mi ero fatta una cultura sui tumori femminili, dei quali avevo sperimentato tutto e li spiegavo con proprietà di vocaboli.
Questo però era ancora terreno vergine per me.
Anche qua, dovetti ben presto diventare esperta e succube del collirio salvavita che dovrò usare, senza dimenticanze, e nella migliore delle ipotesi, fino alla fine dei miei giorni.
La mia vista infatti, è calata abbastanza da allora ed il mio “campo visivo”, si è ridotto notevolmente, segno della malattia che avanza.
Come se non bastasse, in tutto questo tempo, pare che il glaucoma sia stato responsabile di una degenerazione retinica, che mi ha creato gravi lesioni ad entrambe le retine, per via delle quali, ho subito vari interventi laser, l’ultimo dei quali, 5 mesi fa.
A questo punto, mi scappa una risatina, perché di fronte a questa mia vita disastrata, qualcuno mi ha chiesto perché, non sono andata alla ricerca di rimedi preparati da maghi o vari, me lo disse anche un medico una volta, che vedendosi impotente davanti al mio corpo, assalito da tutto, mi consigliò, tra il serio ed il faceto , di rivolgermi a forze occulte, pur andando contro la propria professionalità, ma nella speranza che la mia situazione si aggiustasse.
Non l’ho fatto, perché con lo spirito che mi caratterizza, risponderei……. che non ho conoscenze, in questo mondo.
E poi, nel corso di tutti questi anni ………non è certo finita qua.
Da parecchi anni, mi ero resa conto di non sentire bene e col passare del tempo, la cosa peggiorava.
Al controllo che feci, risultò un effettivo problema grave all’orecchio sinistro, lieve al destro, derivato da un impazzimento ormonale che aveva fatto grossi danni in me.
Ovviamente, (mi sarebbe sembrato strano il contrario ) mi venne consigliato un intervento, con la raccomandazione, che venisse effettuato il prima possibile, per evitare che peggiorasse.
Io presi atto della situazione e decisi che appena possibile, l’avrei fatto.
Aspettando il momento opportuno……passarono dieci anni.
Perché non ho provveduto prima? Innanzitutto perché questo era un problema silente…..in tutti i sensi. L’unica cosa che produceva in me ……..era il silenzio, mentre gli altri problemi sui quali ero intervenuta, mi han spesso portato in fin di vita.
Dunque non si poteva rimediare perché prima c’erano cose molto più urgenti, molto più gravi e non c’era spazio tra un’ operazione e l’altra.
Avevo imparato a mascherare la mia mancanza d’ udito con tante strategie, per evitarmi l’imbarazzo generale.
Negli uffici, con finta disinvoltura, mi mettevo dal lato destro, dal quale sentivo meglio e mi appoggiavo totalmente allo sportello, per capire.
La stessa cosa facevo davanti alle persone che non sapevano, idem col telefono ed in mille altre situazioni. Il mio lavoro non mi aiutava sicuramente, perché dovevo e devo stare ore in mezzo al chiasso esagerato e questo mi innervosiva e mi impediva di capire.
Era così consolidata questa mia posizione, che ancor oggi, per abitudine, continuo a tenerla, dimenticando, che ho riacquistato buona parte dell’udito.
Perché, sette anni fa decisi che era arrivato il momento di rimediare anche a questo?
Dall’orecchio sinistro, mancava ormai il novanta per cento di udito; la situazione per me, oltre che imbarazzantissima, era diventata penosa.
Dopo varie peripezie, approdai ad un ottimo specialista che mi avrebbe operato a Roma.
Mia madre, tra il letto e la sedia a rotelle, era assistita in quel momento da una badante, a mio parere affidabile e decisi di affrontare il problema, sapendo che avrei cercato come sempre, di riprendermi subito, per riprendere la situazione in mano.
Partii con mio figlio, che riuscì ad avere una settimana di licenza ed in tre giorni, si risolse tutto.
Pur con un ‘influenza che, dopo l’intervento, ostacolò l’immediata riuscita, tornai a casa con l’orecchio fasciato, un po’ di vertigini che mi costrinsero a non usare l’auto e una convalescenza davanti che avrebbe decretato, il successo, o meno dell’intervento.
Poteva andare tutto liscio? Ovviamente no.
La badante che accudiva mia madre, ci mollò di punto in bianco, senza preavviso.
Non mi restò altro da fare, che riprendere la macchina in mano, fare i bagagli e trasferirmi da lei per accudirla.
Le mie condizioni erano precarie: a pochi giorni dall’intervento, ero senza energie, spossata, depressa, avevo necessità di riposo, di qualcuno che si prendesse cura di me e mi ritrovavo invece ad assistere una moribonda, che non aveva perso il suo carattere autoritario, ma al contrario, questo era amplificato dalla sofferenza e dalla morte vicina.
Quando riuscii a trovare un’altra badante , che venne ad aiutarmi, nonostante la mia presenza fosse comunque indispensabile per gestire tutta la situazione, dopo solo una settimana, mia mamma morì.
Oltre che debole e triste, ero piena di rimorsi per non aver saputo essere paziente nei suoi ultimi giorni, per non aver accettato i suoi modi con più pazienza, per aver osato in quella fase, lamentarmi del mio stato fisico, mentre un’altra persona se ne stava andando.
Quel periodo è scolpito nella mia mente: non credo di riuscire a perdonare a lei la mancanza di tenerezza che l’ha sempre accompagnata, anche se le trovo mille alibi, considerando la vita tormentata che ha dovuto fare, i disagi dell’epoca in cui è vissuta, con le rigide leggi che sono state il perno della sua esistenza dura e segnata dal dolore.
Non credo di riuscire neanche a perdonare me stessa.
Ho passato anni e anni a riparare il mio motore sempre rotto, anche quando sembrava che non ci fosse rimedio, mi son subito risollevata con la forza di un leone, con sprezzo del pericolo e allora…….come ho fatto a non essere sempre paziente con la mia madre che moriva?
Questo triste interrogativo, col senno di poi, mi accompagnerà sempre.
Dopo di allora, ho cercato di ricostruire la mia vita, che dopo tanti anni, perdeva un pezzo importante e faceva dare una svolta a tutti.
Mio fratello, quello poliomielitico per il quale mia madre aveva lottato tanto, al quale aveva restituito un vita quasi normale, alla sua morte, rimase solo.
Il nostro legame si rafforzò, anche se, essendo molto chiuso ed orgoglioso, come è la nostra famiglia, aveva la solitudine e la tristezza scritte in faccia, ma non si apriva alla confidenza nei miei confronti, né in quelli di nessuno.
La sorella più piccola di mia madre, molto vecchia anche lei, senza figli, dopo averne superate tante, lentamente si adagiava e necessitava di tutto.
Ho preso in carico anche lei.
Da allora, me ne occupo totalmente, anche se la presenza fissa di un’ottima badante, mi ha permesso di concentrarmi maggiormente sulla mia vita. E’ comunque indispensabile per tutto, la mia presenza giornaliera.
Alcuni mesi dopo la morte di mia madre, ovviamente ripresi a star male: abbondanti emorragie, accompagnate da dolori e tanti altri disturbi, mi costrinsero, per evitare che finissi un’altra volta in fin di vita, a farmi rivedere dal ginecologo che tante volte mi aveva salvato.
Molto pessimista, visto i miei trascorsi, mi fissò subito un intervento radicale, di svuotamento totale, preceduto venti giorni prima da un altro più leggero, per stabilire le condizioni del mio apparato.
L’ultimo fu veramente duro: mi vennero effettuati quattro interventi in uno, durante il quale rischiai una deviazione perché la situazione, apparve più grave di ciò che lui aveva prospettato.
L’anestesia, ancora una volta fu con dosi massicce, la ripresa molto dura e lunga, con mille veti, le forze tardavano a tornare; il fisico era sempre più debilitato, dall’operazione e dalla vita.
L’unica cosa positiva fu , che per la prima volta, potei permettermi il lusso, dopo una vita di privazioni, visto che ero sola a casa, di pagarmi un aiuto per il periodo della malattia: i miei debiti ormai erano stati saldati, mio figlio lavorava.
Ad un mese esatto dall’operazione, dovetti scattare un’altra volta : il mio caro fratello finì in fin di vita per una recidiva della sua malattia e dopo tanto tempo, tornò a casa, con l’uso costante dell’ossigeno.
Stress, paura, viaggi, sforzi, non giovarono alla mia ripresa, che tardava a venire.
Tutto si complicò e per tanto tempo, non riuscivo ad uscirne fuori.
Cominciai a star meglio, quando anche mio fratello, iniziò a riprendersi e ad accettare la sua nuova condizione di vita : condannato all’uso dell’ossigeno, anche se faceva in modo, di usarlo, per non esser visto, quando era solo.
Che aggiungere? La vita mi appariva come una lunga scala : dalla mia nascita in poi, non avevo fatto altro che cercare di salirla, ma ad ogni gradino, trovavo un grosso ostacolo che mi obbligava a fermarmi per tanto tempo o a retrocedere: non riuscivo mai a trovare il gradino giusto per fermarmi e riposare.
Nonostante questa triste riflessione, non perdevo la speranza ed il desiderio di avere uno spicchio di vita mio, anche se forse era molto tardi.
Volevo assaporare dei giorni lieti, lontani dalle malattie, dagli ospedali, dai controlli.
Desideravo fare un viaggio, andare come una ragazzina, alla scoperta del mondo, fare dello sport, uscire, fare le cose più strane e pazze: riprendermi un po’ di tutto ciò che era stato buttato al vento.
Come prima cosa decisi che mi sarei fatta ricostruire il seno, se solo ci fosse stata una possibilità di aggiustare le cose.
Come se qualcuno m’avesse letto nel pensiero, dopo qualche tempo, aprirono a Nuoro un reparto di chirurgia ricostruttiva.
Trovai due ragazzi, che mi visitarono, molto colpiti dal fatto che i seni asportati erano tutti e due, cosa che nella loro breve carriera non avevano ancora visto e molto entusiasti di poter fare un lavoro che avrebbe fatto acquisire loro esperienza e gratificare me.
Mi dettero tutti i dettagli della situazione, il percorso che avrei dovuto intraprendere, che si prospettava molto lungo e con varie incognite.
Il mio seno era inesistente da circa vent’anni, dunque dopo l’intervento, avrei avuto davanti un altro lungo periodo di fermo, evitando anche movimenti fatti da sola, compreso il vestirmi.
Inoltre, non ricordo con quale frequenza, mi sarei dovuta recare da loro che mi avrebbero iniettato una soluzione, fino a conclusione del tutto.
Cosa da non trascurare, sarei dovuta essere molto prudente per evitare che le protesi subissero urti, colpi, cosa impossibile per me che sono frenetica.
Poi c’era anche l’eventualità che queste protesi non andassero bene e subissero un rigetto.
Ed allora occorreva ripetere l’intervento.
Era la prima volta che mi trovavo davanti ad un intervento che sarebbe stato riparatore e non demolitivo.
Ebbi questa consapevolezza durante il viaggio di ritorno, con una strana euforia dentro, come se volessi dire a me stessa che forse stava iniziando una fase di risalita, che forse mi sarei gratificata finalmente , anche se stavo diventando vecchia, che forse……………
Quante cose mi passarono in mente! Avevo uno strano ottimismo, mitigato però da un percorso che non sapevo, sarei stata in grado di concludere.
Ci riflettei a lungo e vedevo sulla bilancia, più rischi che riuscita, più tempi lunghi, che non avevo più la pazienza di sobbarcarmi, che risultati effettivi.
Poi, come una stilettata mi arrivava il pensiero che non avevo il coraggio di respingere : mi chiedevo perché, dopo aver passato gli anni più giusti per una donna, in mezzo alle sofferenze, amputata di tutto ciò che la femminilità rappresenta, ora, alla soglia dei sessanta anni, mi intestardivo in un’impresa incerta? Io stessa mi rispondevo e mi dicevo che dentro mi sentivo come una ragazzina, pronta a vivere la vita, pronta e speranzosa di spaccare il mondo, perché dunque in un’epoca di donne rifatte, di plastica, io non dovevo premiarmi?
La prima persona con cui ne parlai, fu mio figlio, il quale dopo avermi ascoltato, mostrò molte paure e mi chiese di poter venire con me per fare un altro colloquio con gli esperti.
Le mie amiche poi mi sconsigliarono tutte: dicevano che avevo sofferto troppo e questo percorso davanti a me, era troppo tortuoso ed incerto.
Tornai a Nuoro per continuare il discorso con i medici, con Cristian, il quale una volta con loro, prese in mano la situazione e parlò con competenza, senso di protezione nei miei confronti e obiettività.
Lo guardavo incantata e quasi non osavo interrompere. Ero commossa.
Mio figlio era diventato un adulto, bellissimo, maturo: era la prima volta che di fronte ad un medico, qualcuno parlava per me e si prendeva cura di me.
Ero sempre stata io ad occuparmi di tutto e di tutti i parenti, avevo preso da sola, decisioni di ogni genere, per me e tutti.
Mi soffermo, forse in maniera noiosa, su quel colloquio, ma mentre ero lì pensavo che, non importava ciò che avrei deciso, ma avrei prolungato quei momenti all’infinito: era bellissimo vedere quest’uomo che per la prima volta, coccolava la mamma, quasi decidendo per lei!
Fu la vita stessa a decidere per me: come sempre mi aspettava con le sue sorprese.
La zia che assistevo ebbe un brutto infarto e dovetti scattare come sempre, raccogliere le mie energie per aiutarla a riprendersi, conciliando il tutto col mio lavoro, con tutto ciò che faceva parte della mia vita e della sua.
In più subito dopo, dovetti sottopormi all’intervento laser ad entrambi gli occhi, perché vennero diagnosticate le prime gravi lesioni alle retine. Ed il tutto avvenne con grande urgenza.
Per tanto tempo, presa dai soliti problemi che per me, non avevano tregua, non pensai più all’intervento ricostruttivo .
Dopo, quando le acque si calmarono, arrivai ad una considerazione, che avevo già fatto in passato: nella mia vita era consentito solo demolire, nel momento in cui, mi proponevo di rimediare e darmi una parvenza normale, accedeva qualcosa che mi distoglieva immediatamente dall’idea.
Visto l’ostacolo che si era frapposto tra me e questo progetto, cominciai a farmene una ragione, in quanto mi convinsi che non potevo permettermi di fermarmi per tanto tempo, nella mia vita c’erano troppe cose che richiedevano la mia attenzione.
In più si fece strada nella mia mente l’idea che, visto che una sorta di cattiva stella mi seguiva, poteva succedere che l’intervento, dopo tanta sofferenza, non andasse a buon fine ed allora avrei dovuto raccogliere i cocci anche di questo.
A questo punto, una rassegnazione strana, unita alla grande determinazione, che sempre mi accompagna, s’impadronì di me.
Avevo vissuto gli anni migliori senza seno, dovevo sfruttare gli anni o i mesi, o i giorni restanti, in modo da prendere il meglio dalla vita.
Una che è già in là con gli anni, che è vissuta tanto senza seno, senza apparato femminile, senza sesso, è già madre, perché deve complicarsi la vita?
Senza…….senza…..senza.
Questa era stata la mia esistenza.
Ma che problema è questo rispetto a chi è senza gambe? Senza braccia?
Quando rifletto su questo, penso a tutti coloro che son come vegetali, a coloro che hanno perso la vita in giovane età, a coloro che vivono in un letto d’ospedale, a coloro che vivono in tristi centri d’accoglienza, senza l’amore ed il sorriso di nessuno.
Penso a tutti quelli che non hanno avuto la mia forza, la mia fortuna, a quelli che ormai non possono raccontarsi più, come faccio io ora.
Fu dopo la mia ricostruzione fallita, che le rinunce di sempre, stavano comunque dandomi un premio, per la prima volta nella vita, avevo avuto il tempo di pensare ad una ricostruzione, avevo avuto l’aiuto di un figlio che mi aveva sostenuto da “adulto” in una situazione di salute; la vita mi stava regalando dei ritagli di tempo da dedicare a me stessa.
Avevo sempre supportato la mia famiglia in tutto ed ora lentamente, il carico si stava allentando.
Avevo vissuto anni di tremendi sacrifici per potermi pagare la casa ed ora tutti i debiti erano saldati.
Mio figlio, lavorava e stava facendo una brillante carriera.
Cosa potevo volere di più?
La mia esistenza mi sembrava più leggera.
Per prima cosa, dopo aver organizzato le cose in famiglia,( penso che dopo tanti anni, io sia diventata una perfetta manager in questo), andai in un centro dove, in poco tempo, mi sistemai tutti i denti.
Quando vidi la mia bocca, il mio sorriso cambiati, mi commossi e per la prima volta nella vita mi resi conto, con piacere, di aver fatto , qualcosa di molto giusto per me e per il mio aspetto.
Questo, non fece altro che accrescere la mia autostima, da sempre inesistente e mi diede una carica che nel corso degli anni è aumentata.
Poi, da sportiva quale sono, realizzai un sogno che coltivavo da anni: mi iscrissi in piscina.
Apportai personalmente una sorta di modifica al costume olimpionico richiesto, che metteva in luce miseramente le mie mancanze.
Ottenni un risultato discreto e da lì iniziò, un felice periodo che ancora continua.
Frequento una o a volte due la settimana, perché il lavoro mi assorbe tanto, ma è una gioia che attendo tutti i giorni: nuotare e vedere la cerchia di amici che mi son fatta e che vedo anche al di fuori, mi riempie il cuore di tanta felicità.
E siam giunti ad oggi.
Come vive la donna che si è descritta fin qua?
Vive da sola nella sua casetta, carina, linda, decorosa e con tutti i comfort, costruita come dice mio figlio, col mio sangue.
Cristian, mi ha lasciato da anni per andare a convivere con la sua dolce metà.
Continuo apparentemente con la vita di sempre: molto lavoro, perché anche le leggi mi remano contro e dopo 43 anni di servizio, non posso ancora diventare padrona del mio tempo.
Continuo a prendermi cura della mia zia vecchina, che ha raggiunto la veneranda età di 90 anni ed è dotata come me, di tanta voglia di vivere, che, né il cancro, né le avversità della vita, hanno spento.
Continuo ad essere in famiglia il punto di riferimento: a me si rivolgono per tutto, a me chiedono consiglio, a me ringraziano.
Il tempo libero che mi resta è poco, ma ho saputo estrapolarlo al meglio dai miei doveri.
Anche la pausa pranzo, da trascorrere coi miei colleghi, è motivo di gioia e di grandi risate condivise.
Faccio parte di alcuni gruppi, compreso quello della piscina, dove è un gran piacere incontrarsi, pranzare o cenare assieme e ridere fino alle lacrime.
La mia casa è un porto di mare, a tutte le ore squilla il telefono e qualcuno mi cerca per confidarsi,
salutarmi o chiedere consiglio Ricevo tante attestazioni di affetto e tanti inviti per eventi di ogni genere .
Ho un carattere dicono, così solare, così allegro, son così assetata di vita, che mi vogliono in compagnia perché porto risate e divertimento Chi mi ha conosciuto da poco e non sa niente delle battaglie della mia vita, una volta che ne viene a conoscenza, vedendomi come un vulcano in eruzione, stenta a crederci.
Ogni tanto mi concedo un viaggio, nei limiti del mio tempo e delle mie possibilità. Entrare in altri mondi, mi entusiasma e mi ricarica per i mesi a venire.
Ho rinunciato ad avere un compagno di vita perché nonostante la mia ostentata disinvoltura, quando devo parlare del mio stato fisico, ho un blocco tremendo che mi impedisce di portare avanti un’eventuale conoscenza .
Inoltre, dopo tanti vissuti, così di corsa, alla ricerca di una soluzione, non so più fermarmi ad una normale vita di coppia .Mi è talmente capitato di tutto che , un menage a due, sarebbe ostacolato da qualche mio problema.
Eppure i corteggiatori non mi mancano.
Non avrei mai immaginato, di poter essere a quest’età, ancora ricercata dagli uomini, che ammirano molto la mia forza, la mia allegria, il non far mai pesare i miei problemi.
Anche se sotto sotto, forse hanno anche paura di questo vulcano che non si ferma mai.
Non parlo mai dei miei problemi di salute: è un mio principio, non annoiare nessuno, a meno che non debba farlo con chi sa tutto di me.
Onestamente devo dire che non tollero persone che passano la vita a piangersi addosso per tutto, per il brutto tempo, per due centimetri in più, per un mal di testa o per qualsiasi sciocchezza, che a me sembrano solo segni di vita.
Dopo che ho la pazienza di ascoltarle…….per qualche minuto, mi assale una rabbia tremenda, mi manca l’aria Solitamente reagisco subito e rispondo in maniera, a volte scortese, metto lo stop alle lagne, invitandole a guardare la tristezza del mondo che ci circonda con le sue sofferenze.
E non posso fare a meno di pensare a quanti anni ho passato e….passo, a rodermi dentro per i miei problemi, senza spesso riuscire a parlarne con nessuno, né a chiedere aiuto.
La notte vado a letto molto tardi, cerco sempre di sfruttare al massimo la giornata.
Spero che il nuovo giorno, mi ritrovi, viva, allegra, con lo stesso spirito di sempre, la stessa allegria ed il senso dell’umorismo che mi accompagnano e mi portano, per mia fortuna, a sdrammatizzare tutto.
Appena alzata, faccio per un’ora circa, attività fisica con gli attrezzi che ho acquistato e tengo nel mio garage, dove mi son organizzata al meglio.
Vivo col mio mondo d’affetti, di fantasia, con la mia musica ed i miei sogni, con la mia collezione di bambole e peluche.
Non ho paura della solitudine, né fisica, né dell’anima, perché la mia vita è ricca e faticosa. Vivo alla giornata, non faccio mai progetti a lunga scadenza, perché so che la mia situazione fisica, mi riserverà forse, altre sorprese ,altre amputazioni. Aspetto con gioia il momento in cui rivedrò le persone che amo e le mie amicizie.
La mattina quando salgo in auto per raggiungere il posto di lavoro, mi perdo in tante considerazioni: la più importante è la consapevolezza che la macchina, dopo tanti anni, va quasi da sola e all’inizio della mia malattia, nel 1990, non avrei mai pensato di poterla ancora guidare con, a me sembra, i riflessi giovanili. In genere, alzo gli occhi al cielo e a volte, tra le lacrime, ringrazio per esserci e mi sento privilegiata, fortunata per poter ammirare ancora lo spettacolo attorno a me.
Qualcuno mi ha definito una forza della natura.
Non so se sia vero, ma il carattere forte, duro come una roccia e dentro tanto fragile, che ho acquisito, è sicuramente il frutto di una grande sofferenza, ma anche di una grossa fortuna, che mi ha dato la possibilità di non deprimermi, di combattere e mantenere lo spirito giocoso ed infantile che mi porta, nonostante le mie limitazioni fisiche, a commettere imprudenze e sforzi tipici della giovane età.
Ho fatto da poco un test su internet, per verificare l’età che uno si sente dentro ed ho avuto la sorpresa di vedere che la mia è di 18 anni.
Ho riso tanto e mi son convinta che si è fermata a quando facevo i sogni di giovinetta, sperando come tutti, in una esistenza romantica, col mio principe, avventurosa e piena di gioie e sorprese.
Le sorprese ci son state, tante, ed anche le gioie.
La vita non mi ha dato le risposte romantiche che volevo, ma mi ha dato altre risposte: la capacità di essere utile a tutti, la fortuna di essere amata e richiesta dalle persone, la generosità di condividere il poco ed il molto che ho, un’allegria innata e contagiosa , un carattere forte e volenteroso come una roccia, che ha potuto combattere contro i fantasmi che hanno invaso la mia vita.
La scarsa autostima che mi ha accompagnato da sempre, si è trasformata in consapevolezza di aver fatto anche del buono.
Quando mi assale la malinconia, o la casa mi sembra vuota e qualche lacrima viene giù, mando un messaggio a mio figlio, a qualcuno a me caro, lo annoio con qualche dichiarazione d’amore o penso a qualche evento a breve, ad un caffè con le amiche, alle risate che mi farò.
Godo di ogni piccola cosa, di ogni, per altri sciocchezze, che mi dia serenità.
Nelle avversità quotidiane, quando il peso mi sembra enorme, per consolarmi, cerco di trovare il lato positivo di ogni cosa.
CARPE DIEM è diventato il mio motto e non lascio sfuggire più nulla dalla mia vita.
L’eterna bambina è una donna vissuta e solida oramai.
Continuo a vivere freneticamente e di corsa.
Ho quella che io chiamo, deformazione professionale, guardo continuamente l’orologio: non posso rimandare niente né tralasciare qualcosa che potrei non riuscire più a fare.
Son però serena e grata di tutto quello che la vita mi ha dato; sicuramente mi ha tolto tanto, ma mi ha premiato con una vitalità che fa invidia.
Per arrivare a questo era necessario soffrire così tanto e far scempio del mio corpo?
Era necessario diventare grande, depauperata, privata della femminilità, sottoposta a umiliazioni, tormenti nel corpo e nell’anima?
Forse si………In fondo, ognuno di noi, si fa carico di tutto quello che può sopportare e se Dio esiste, sa a chi deve dare le prove ed i carichi più pesanti.
Mi è stato detto che non ci viene dato più di ciò che possiamo sopportare: non so se questa teoria sia vera, non importa.
Non ho potuto decidere niente della mia vita……..è stato tutto scritto per me, imposto.
Son comunque riuscita nel mio intento: son serena e scrivo la mia storia.
Che gran fortuna è questa! Son ancora qua a tormentare il prossimo.
Grazie vita………mi hai risposto comunque in maniera soddisfacente!


 

IL FIORE NEL FANGO

La piccola Zineb, in quel malinconico e struggente autunno, che concludeva il lungo periodo turbato dalla guerra, era lacerata da una caotica mistura di emozioni fluttuanti e dolorose, tinteggiate di colori strazianti.
Ma non poteva esprimersi.
Faceva parte del grande esercito Afghano, delle donne senza volto, senza voce, senza corpo.
Viveva in un povero villaggio alla periferia di Kabul. La sua vita era stata stabilita secondo le tradizioni e l’ignoranza radicata da sempre.
Quinta di dieci figli, trascorreva le sue giornate nella capanna di fango che era la sua casa, ad accudire i fratelli più piccoli, a governare e cucinare il poco riso a disposizione. Non conosceva altri modi di vivere, ed essendo donna non aveva diritto di parlare, pensare, non doveva alzare la testa, né guardare negli occhi gli uomini di casa, neanche attraverso le maglie del burka. Il tutto era accompagnato dai bombardamenti continui, che devastavano il paese, dagli efferati e incredibili rituali bellici che i soldati russi compivano nei confronti del suo popolo, il quale, di rimando, in nome della libertà, ricambiava con altrettanti crimini orrendi e innominabili. Fu così che la miserabile capanna di Zineb venne bombardata e a lei ed alla sua famiglia non restò che incamminarsi verso il centro di Kabul, lungo strade disseminate di mine, accompagnati dalla povera gente dei villaggi.
Fu la prima di una serie di fughe che caratterizzò la sua vita, alla continua ricerca di pace. Si mise in fila con tutti gli altri nell’ufficio russo competente, che obbligava gli uomini all’iscrizione al partito, i bambini ad andare a scuola ed in cambio assicurava un alloggio. L’impatto con la città fu tremendo: polvere, asfalto, rumori di auto, case comuni di pietra, era tutto una continua scoperta. Dopo alcuni giorni, Zineb, fece il suo ingresso a scuola, venne fatta sedere su una vera sedia davanti al banco e non sul pavimento, com’era sua abitudine, fu costretta a togliersi il velo ed a seguire le lezioni di una giovane insegnante, che ai suoi occhi sembrava nuda, perché truccata e con le braccia ed il viso scoperta. Il tutto cominciò ad appassionare la bambina, che imparò a comunicare, a pensare, allargò i suoi miseri orizzonti, scoprendo di poter giocare, contare, parlare con tutti. Scoprì l’esistenza del denaro ed imparò a contarlo, capì che poteva mettere per iscritto le proprie sensazioni e che oltre alla sua Afghanistan, esistevano altre terre, altri modi di vivere, altre religioni. Il suo rendimento scolastico era ottimo, la sua sete di conoscenze insaziabile. Appena adolescente venne data in sposa a Maud, uno sconosciuto, in cambio di una somma di denaro, utile alla famiglia per la sopravvivenza, ma Zineb, diventata moglie e donna da un giorno all’altro, continuò di nascosto ad andare a scuola anche quando, com’era d’uso fra le donne del suo popolo, mise al mondo, sola e sul nudo pavimento, la sua prima figlia.
Nel frattempo, dopo aver sterminato per anni ed essere stati sterminati, i russi andarono via e Zineb, diventata madre di altri due bambini, continuava a leggere all’insaputa di tutti, i libri regalati dalla sua insegnante e accarezzava il sogno di poter diventare un’insegnante anche lei. Si era convinta che l’ignoranza del suo popolo, fosse la causa della sua rovina. Nei giorni che seguirono però, irruppe nella città un nuovo gruppo molto forte e temuto, che continuò a distruggere ciò che era rimasto. Il movimento dei Talebani, costringe le donne ad indossare il Burka, a vedere il ristretto mondo, attraverso una fitta reticella davanti agli occhi, le scarpe non devono vedersi, le donne non devono andare a scuola, né lavorare, né pensare, né parlare: non devono esistere. Gli uomini devono coprirsi con una tunica bianca, non devono più tagliarsi la barba. Vengono distrutte tutte le musicassette, videocassette e ogni fonte di comunicazione proveniente dal mondo esterno. I bambini devono imparare a memoria i versi del Corano.
I Talebani picchiano le donne per strada, stuprano, ammazzano, combattono i loro fratelli Afghani senza motivo.
Riprende da un villaggio all’atro, la fuga della giovane Zineb con la sua famiglia e riceve rifugio qua e là da gente che ha meno di lei e l’accoglie come una principessa, perché sa leggere e scrivere e parlare. Libertà e guerra all’ignoranza diventano la sua parola d’ordine. Dentro di se si fa strada l’idea di fuggire dall’Afghanistan, di andare in Iran.
Continua il pellegrinaggio, nonostante il suo cammino sia segnato da violenze sessuali da parte di un gruppo di Talebani che dopo averla derisa picchiata e sputato addosso, la lasciano incinta di un altro figlio.
Dopo mesi di sofferenza, riesce a raggiungere l’Iran, senza mai dimenticare di ringraziare il suo Dio, di averla lasciata in vita, di aver fatto sì che nessuno dei suoi abbia messo piede nelle mine, di averle concesso di raggiungere la meta. Trova un campo profughi, dove le viene assegnata una stanzetta, una tessera e generi di prima necessità.
Zineb, dopo aver messo al mondo il frutto della violenza subita, ed averlo affidato alla sua bambina, trova lavoro come donna delle pulizie presso una famiglia benestante che l’apprezza per la sua intelligenza ed assicura a lei ed ai suoi, pasti ed abiti smessi e libri ormai letti, che arricchiscono la sua sete di cultura. Zineb crede di toccare il cielo con un dito, e di essere sempre più vicina all’obiettivo racchiuso da sempre nel suo cuore di diventare insegnante.
Il marito lavora come garzone presso un negozio e la giovane donna, dopo aver messo al mondo un’altra bimba, crede di essere una delle poche privilegiate della sua terra. La tregua non è di lunga durata. Gli Iraniani, dopo aver dato tanto, dopo aver diviso con gli Afghani lavoro, scuole e tutto senza sovvenzioni, si trovano in grosse difficoltà e non sono più in grado di dare ospitalità. A tale scopo organizzano dei centri di raccolta, dove gli Afghani possono essere riportati a casa con dei carri.
Zineb non vuole ritornare indietro. Ha saputo che molti suoi connazionali, prima di andarsene, lasciano in Iran alcuni dei loro figli. Ha saputo che tanti di loro rimasti in Afghanistan, sono impazziti, vivono per strada, molti hanno perso braccia, gambe, le donne chiedono l’elemosina. No, non tornerà indietro e decide di riprendere la fuga. A questo punto iniziano gli scontri con Moud, che nonostante le grandi difficoltà, non vuole più scappare. La mente del marito è ottenebrata dall’oppio, grande piaga che si è portato da casa e vuole con se il figlio maschio. Zineb, con la morte nel cuore, deve andare via comunque, il paese che le ha ospitate per anni, non le vuole più. Deve cercare un’altra via di scampo da un’altra parte, con la segreta speranza di riunire un giorno la famiglia in un paese libero. Con pochi soldi in tasca, la razione di acqua e viveri stabilita dal governo, si mette in marcia con un gruppo di disperati, che vengono caricati nei camion e nei carri per essere espatriati.
Rinizia l’ennesima fuga, questa volta ancora più sofferta, ma più determinata che mai. Zineb ed i suoi compagni non sanno più da quanto dura il viaggio. Respirano polvere, sono costretti a fermarsi davanti a tante pattuglie, attraversano vecchie strade, mulattiere, sentieri deserti tra zone infuocate e la resistenza dei vecchi mezzi di trasporto viene meno. Il tempo sembra essersi fermato, il paesaggio è sempre uguale, il clima è infuocato di giorno e molto freddo di notte. Zineb e le sue bambine sono sempre abbracciate, mentre gradatamente molti compagni finiscono il loro viaggio, stremati dalla stanchezza e dalla mancanza d’acqua e cibo. Zineb non dimentica mai, nonostante tutto, di ringraziare il suo Dio per essere ancora viva e tanto fortunata rispetto agli altri. Ogni tanto le sue preghiere vengono ascoltate, trovano dei ruscelli dove possono dissetarsi e presso una locanda incontrano delle persone generose che danno loro del tè caldo ed un pò di riso. Implacabilmente però, il carro che li trasporta, cede e si rifiuta di proseguire e durante la sosta notturna viene depredato di tutto da dei miserabili. Zineb riesce a nascondere le sue bambine dietro alcune macerie, ma subisce le violenze più atroci, perde la conoscenza e crede di essere giunta all’inferno. Il tutto sembra non finire mai.
Lentamente riemerge dall’abisso, scossa dal pianto delle sue piccole che la invocano e col corpo e l’animo contusi, sanguinanti, si rialza e non si arrende. Le abbraccia, prende il contenitore dell’acqua, qualche straccio, il tappetino della preghiera che non l’abbandona mai e si rimette in marcia senza una meta. Trova un fiumiciattolo, dove cerca di lavarsi le offese subite, fa scorta d’acqua e continua il viaggio. Giunge in un villaggio dove delle povere persone la rifocillano e permettono loro di passare qualche notte in una stalla. L’interminabile viaggio si è concluso in Turchia. Dei contrabbandieri propongono alla donna, in cambio dei suoi servigi, di accompagnarle in Europa con altri disperati in una carretta del mare. Zineb non ha alternative e considera il ricatto come un altro prezzo da pagare per raggiungere il suo scopo. Non ha mai visto il mare e affronta quest’altra fuga, così diversa dalle precedenti, con ammirazione e terrore. Dopo le prime miglia, il mare dimostra il suo aspetto più crudele ed insidioso: onde gigantesche sommergono la vecchia barca e le urla degli occupanti si confondono nella lotta tra la massa d’acqua proveniente dal mare e quella tempestosa dal cielo, squarciato da fulmini che illuminano a giorno. Zineb, senza mai lasciare le sue bambine, lotta disperatamente contro la forza della natura e si convince che Dio sta punendo la sua audacia. Ancora una volta il tempo sembra essersi fermato. In stato di semi incoscienza, sente dire che la Grecia è vicina e sente che la barca urta con violenza inaudita con qualcosa e poi si ferma. Il dopo è un susseguirsi di strane situazioni: i contrabbandieri vengono braccati dalle guardie costiere, i pochi superstiti, si ritrovano stesi sulla terraferma. Quanto tempo Zineb, stretta in una morsa d’acciaio con le sue bambine, fradicia, stremata con la mente annebbiata, è in quella posizione? Non sa se questa sia la morte o se è ancora viva. Scorge accanto a se una pozzanghera fangosa, sopra vi è posato un fiore, volato da chissà dove; è bellissimo, lei non l’ha mai visto e lo interpreta come un segno divino: Dio le sta dicendo che è viva, in un altro paese e le dà il benvenuto.
Attorno a lei c’è un via vai di persone trafelate qualcuno adagia lei e le bimbe su delle barelle e la portano via. Nel tragitto percorso, Zineb vede campi fioriti, animali che pascolano, campi sportivi ed un immenso palazzo bianco dove sventolano tantissime bandiere tutte di nazionalità diverse. Vengono portate all’interno, adagiate su dei veri letti, si avvicina una donna in camice bianco e dopo averle tolto il burka logoro e fradicio, le parla in una lingua dolcissima che lei non capisce, ma sente che è il linguaggio dell’amore, mai nessuno le ha parlato così. Dopo essere state visitate e rifocillate, Zineb e le sue piccole, cadono in un lungo sonno ristoratore. Al loro risveglio vengono condotte in un bagno, il primo della loro vita e vengono dati loro abiti normali. La giovane si sente nuda e continua a stare a testa bassa.
Si presentano un uomo ed una donna che parlano la sua lingua e le spiegano che si trova in un grande centro di accoglienza, dove trovano rifugio immigrati, ragazze madri ed in un’ala del palazzo a parte, anche drogati. A gestirlo sono medici, infermieri, personale specializzato e non, volontari di tante nazioni; ciascuno s’interessa di un settore e riceve sovvenzioni dal proprio paese d’origine e tutta la comunità collabora nella più grande fratellanza. Viene condotta a visitare lo stabile e Zineb nota con meraviglia, che tutti, lavorano e producono, senza distinzione di razza o di colore. Un’ala del palazzo è destinata alle chiese: sono presenti tante stanze con diverse cappelle, ciascuna per ogni religione. Ci sono poi le scuole, frequentate da bambini fino all’età dell’adolescenza, aperte al confronto tra le varie culture, promotrici di un messaggio che non vuole rimanere chiuso: tra le aule si va compiendo l’evoluzione da una cultura della tolleranza a quella dell’interculturabilità. I laboratori sono i più svariati e rappresentano una fetta importante e consolidata della comunità. I vari componenti, pur mantenendo le proprie radici e tradizioni, comunicano non sempre con la lingua, ma anche creando un ponte tra le varie culture, basato sullo scambio dell’esperienza di vita e con i loro prodotti, destinati alla vendita e all’esportazione, evidenziano un universo fatto di pezzi diversi ma con un unico sistema di valori, indicato della positività del crescere in una società multietnica. Zineb osserva tutto col cuore gonfio di commozione e meraviglia e ascolta con attenzione la proposta che la coppia che l’accompagna, le rivolge: se vuole, potrà far parte della famiglia, il suo contributo sarà quello di intraprendere l’attività a lei più congeniale. Se vuole potrà dedicarsi ad insegnare a leggere e scrivere ai bambini che arrivano dalla sua terra. Insieme si recano poi in una grande sala ricreativa, c’è molto fermento e sono tutti attorno ad un grande televisore, che lei non ha mai visto. Le viene spiegato che ad Atene iniziano le Olimpiadi ed è in corso la sfilata dei vari partecipanti. Come una bimba eccitata, Zineb osserva i vari paesi ciascuno con la propria bandiera. Ad un certo punto, nel corteo sfilano i 5 rappresentanti Afghani: davanti c’è una donna, senza burka e con la bandiera di casa propria. Il loro viso è segnato, sono pochi, dimessi negli abiti, ma con una gran fierezza e sono pronti, tra gli applausi generali, a dare il loro contributo sportivo, come tutti. La forte, eroica Zineb, si lascia andare ad un pianto dirotto, che porta con sè la sofferenza di una vita, il figlio lontano e la nuova vita che porta in grembo, che è il frutto di una violenza, ma è anche la speranza del suo futuro, nell’angolo di paradiso che ha trovato. Si dirige in silenzio verso la sua chiesa, s’inginocchia e dice ” Dio, uguale per tutti, grazie per essere stato così generoso con me. Mi hai accolto qui con un fiore, mi hai donato un’altra vita, in questa nuova vita. Qui ho trovato la ricetta di base, dalla quale trarrò la medicina giusta per il futuro mio e dei miei figli. Lotterò fino al mio ultimo respiro per far sì, che tanti come me diventino cittadini del mondo e affinché i graffi e le ferite del corpo e dell’anima mia, diventino urla di dignità e di senso di questa stupenda vita”.


LE STANZE DEL CUORE

Seduta davanti alla finestra, al calar del sole, Alessandra assisteva  al tramonto, con lo stesso spirito malinconico che i l’accompagnava da sempre.
Era il giorno del suo ottantesimo compleanno e le tenebre che si avvicinavano, erano le stesse che
segnavano quelle della sua vita.
Ogni cambio di decennio, aveva portato in lei gli stessi sentimenti tristi: ogni cerchio che si chiudeva, significava lasciarsi alle spalle una parte di vita che non sarebbe tornata più e il tempo che, inesorabilmente, si accorciava.
Questa volta era ancora più grave. Dopo gli ottanta, quanta vita ancora avrebbe avuto a disposizione? Sapeva di essere stata fortunata: la sua esistenza era stata molto lunga, il suo spirito battagliero, aveva sconfitto tutto e tutti ed ora, dalla sua poltrona, dominava il mondo che aveva attorno.  Il vuoto la circondava, quel vuoto che non l’aveva abbandonata mai, in quella nicchia fissa costruita dentro il suo cuore.
Si alzò con grande fatica, ingobbita dagli anni, con le ossa che facevano una gran fatica a rimettersi in moto dopo una pausa, con gli occhiali che non dovevano mancare, ma con lo stesso piglio autoritario ed orgoglioso di sempre, che non le avrebbe mai permesso di ammettere con nessuno e  con  sé stessa, la sua stanchezza.
Andò a cercare l’ennesima sigaretta, quelle sigarette, che non l’avevano ancora uccisa, ma che sicuramente l’ avevano danneggiata.
E mentre aspirava con avidità l’eterno veleno, ripercorse con struggente malinconia, le varie fasi del suo travagliato ottantennio.
Chiuse gli occhi e rivide la sua infanzia nella povera dimora della Sardegna  degli anni40, subito dopo la guerra, a Macomer.
Vivevano in 5 nella casa col pavimento di terra battuta, senza bagno, costituita da una stanza dove si cucinava nei fornelli in muratura, dove era necessario tenere sempre viva la fiamma e soffiare per questo in continuazione, per poter mangiare.
Un grande camino era situato al centro della stanza e aveva un forno che veniva utilizzato soprattutto per la cottura del pane, ogni dieci giorni circa. Per le feste principali, qualche volta si aveva la fortuna di cucinare della carne, sacrificando una gallina o usufruendo di qualcosa che veniva regalato dai compaesani, in cambio di altri alimenti.
Nell’altra camera, si dormiva tutti assieme, i genitori nel vecchio lettone, con la testata in ferro e nell’altro letto stava Alessandra con la sorella e Franco, il fratello, nel lettino di fortuna adattato   .
Un grande quadro con l’immagine di Gesù Cristo, troneggiava nella povera camera da letto.
Nonostante questo fosse lo stile di vita di tutti in quel periodo, la mancanza di privacy, era la cosa che più la disturbava  : desiderava ardentemente una stanza tutta sua, come più volte aveva letto nei libri che le venivano prestati a scuola, dove poter sognare una vita meno sacrificata, con uno scrittoio dove eseguire i compiti, scrivere  le sue aspettative segrete, con l’immancabile principe azzurro che l’avrebbe amata e le avrebbe regalato una vita senza privazioni.
Sicuramente col giovane che avrebbe rubato il suo cuore, avrebbe parlato di tutto, avrebbe potuto manifestargli il suo amore, lo avrebbe aspettato al rientro dal lavoro, per raccontargli in che modo era trascorsa la giornata ,sarebbero usciti assieme e tutti nel paese, li avrebbero ammirati.
Quelli si, sarebbero stati giorni, non questi in questa casa fredda e piccola, con una madre invecchiata dal lavoro che le rivolgeva la parola, solo per darle qualche ordine, con un padre che tornava alla sera stanco e quando  si sedeva a tavola, nessuno doveva fiatare per non disturbarlo.
Lui non sapeva nulla di come trascorrevano le giornate i figli, non chiedeva niente, non dava mai loro una carezza od un bacio, non c’erano risate o battute complici.
Alessandra aspettava la notte per stare sola coi suoi pensieri e lamentarsi con Dio per il suo disperato desiderio d’affetto, sperando che lui intercedesse coi suoi genitori, ma tutto taceva, ed allora si rifugiava nei suoi sogni ad occhi aperti, dove c’era posto per una bella casa ed un bel ragazzo. Ma poiché aveva appena fatto le preghiere, sentiva su di sé l’immagine accusatoria del quadro di Gesù e a questo punto, piena di sensi di colpa, cercava di dormire.
La sua infanzia si consumò così: la scuola elementare, dove la figura della maestra era simile a quella dei suoi genitori, fredda e severa, il clima nella classe gelido  e dittatoriale, se qualcuno si permetteva di trasgredire, doveva sottoporsi alle bacchettate sulle mani e non poteva permettersi il lusso di far notare i segni della punizione a casa, perché ,avrebbe ricevuto il resto dalla mamma.
Alcuni dei compagni, a conclusione del ciclo elementare, venivano avviati nel lavoro nei campi; le  femmine, mandate a servire presso le famiglie più abbienti.
Solo i più fortunati, furono iscritti al grado d’istruzione successivo di allora, l’avviamento.
Alessandra, dovette combattere presso la sua famiglia, affinché le concedessero di poterlo frequentare. Aveva una smisurata voglia di sapere, di riuscire a cambiare vita, di uscire dai confini della sua modesta esistenza, di diventare qualcuno.
Mantenne la promessa fatta a se stessa e concluse il ciclo di studi in maniera brillante.
Per poter accedere alle superiori, che si   trovavano a circa sessanta chilometri dal suo paese, era necessario trasferirsi a Nuoro, nella provincia e questa era la cosa più difficile da ottenere : i suoi genitori non potevano assolutamente permettersi una spesa simile.
Inoltre, secondo la mentalità dell’epoca, per la donna non era necessario un titolo di studio, visto che il suo avvenire era rappresentato  dal matrimonio, dove il marito prendeva il posto del padre e doveva solo ubbidire e servire questo, in cambio del mantenimento.
Alessandra aveva un’altra visione della vita : voleva diventare qualcuno, fare delle cose importanti, conoscere il mondo e …innamorarsi…non sposarsi solo  perché così doveva fare.
La sua mente era alla disperata ricerca di una soluzione; il suo spirito ribelle, si rifiutava di sottomettersi alle usanze pre-confezionate; la sua anima anelava alla libertà.
A questo punto, involontariamente, le venne in aiuto, un’anziana zia, Anna,  che da ragazzina, si era trasferita dal paese natale, a Nuoro, e si era mantenuta lavorando al servizio delle famiglie più in vista. La donna, cominciava ad accusare una certa stanchezza, dopo una vita di fatica e gli acciacchi che la tormentavano e confessò che, avrebbe gradito dividere il suo piccolo appartamento, con qualcuna che l’aiutasse nella conduzione della casa  e delle  famiglie presso le quali  lavorava.
Ad   Alessandra sembrò la manna mandata dal cielo.
Timidamente, manifestò il desiderio di poter essere lei la persona adatta  e parlò alla zia dei suoi progetti di studio, promettendo, in cambio dell’ intercessione nei confronti dei genitori, tutto l’aiuto possibile in casa e fuori.
La donna , per quanto avesse paura della responsabilità di una giovinetta, pensò però al tornaconto di entrambe e ne parlò con loro.
La lotta fu dura. Ai genitori,  non andava giù il desiderio strano, per quel periodo, di quella figlia ribelle, che voleva istruzione e libertà .
Lasciarla andare significava rinunciare al suo valido aiuto in casa ,significava darle un’indipendenza ed un futuro diverso da quello delle sue coetanee.
La cosa che alla fine li convinse, fu il fatto che avrebbe avuto il controllo della zia e sarebbe stata una bocca in meno da sfamare, in un’epoca, in cui  regnava l’economia del dopoguerra .
Dopo innumerevoli discussioni, in cui trattarono solo con la zia, dopo tante minacce nei suoi confronti, dopo mille accordi e ricatti , decisero di lasciarla andare.
Fu così che nell’estate dei suoi quattordici anni, abbandonò per sempre Macomer, con la consapevolezza che, fatto questo primo passo, non c’avrebbe vissuto mai più.
Prese la corriera con la zia Anna, con una sola vecchia  valigia, legata con lo spago, contenente le sue poche cose e si stabilì nella casa di questa. Era un piccolissimo appartamento nel centro storico, con pochissime comodità, con un gabinetto fuori : anche qua avrebbe dovuto dormire nell’unica stanza da letto, con la zia .Aveva però il vantaggio di essere vicina al centro, con alcuni negozi vicini, le scuole e la strada principale, che in alcune ore del giorno, brulicava di persone.
La prima cosa fu quella di iscriversi, accompagnata dalla zia, al liceo della città, non molto distante dall’abitazione.
Poi, mentre Anna era al lavoro, Alessandra si dedicava alla casa, tenendola pulitissima e occupandosi della cucina.
L’uno ottobre, fu per lei il primo giorno di scuola. Fece il suo ingresso in aula, dopo l’appello, molto intimidita dal nuovo ambiente, vergognandosi del suo semplicissimo abitino, che pure era il suo capo migliore.
L’imbarazzo durò poco perché le sue compagne erano vestite molto modestamente, non si conoscevano tra loro e tante provenivano dai paesi limitrofi .
In breve tempo, si ritrovò a parlare con le sue vicine di banco e ciascuna svelò le proprie paure rispetto al nuovo ambiente .
I libri vennero acquistati a poco a poco e con i soldi dati dai suoi genitori e dalla zia.
Ben presto, la routine scolastica, divenne un piacere: aspettava il momento con ansia ed entusiasmo: apprendere era per lei fonte di vita. Chiacchierare con le compagne, soprattutto all’ora dell’intervallo, rappresentava un vero divertimento .
Il pomeriggio e la sera li  passava occupandosi dell’appartamento,  e sui libri.
Si adattò abbastanza in fretta all’ambiente nuorese, anche se sentiva la mancanza dei suoi e quel sottile malessere che faceva parte della sua anima, non l’abbandonava mai.
Non c’era mai nessuno che l’abbracciasse, che la coccolasse, che la facesse sentire amata.
I rapporti con la zia erano molto formali, come con i genitori e come nel costume dell’epoca, dove non si dialogava, né c’ erano contatti fisici, che dessero un segnale di affetto.
Inoltre la gente del centro Sardegna, era per cultura ed educazione, molto chiusa, fredda, non dava spazio ai sentimenti, alle confidenze, all’allegria.
Alessandra si trasformava pian piano in una splendida adolescente. Era andata via bambina da casa e la nuova realtà, l’età, il nuovo stile di vita, ne fecero ben presto una ragazza che non passava inosservata, per la sua avvenenza, la sua intelligenza, la sua curiosità verso la vita.
Rientrò a casa sua durante le vacanze di Natale e di Pasqua.
Si sentiva un’ospite.  La distanza coi genitori, aumentava sempre più: la lontananza li rendeva sempre più estranei. Presi dai loro problemi, freddi come non mai, parevano poco interessati alla sua nuova esistenza, soprattutto la mamma. Non si stancavano di raccomandarle di non uscire con nessuno la sera e di non dare confidenza ai ragazzi.
Non facevano che ripeterle che nessuno avrebbe dovuto sparlare di lei, né a Nuoro, né a Macomer: la sua reputazione doveva essere intoccabile.
La sorella ed il fratello, al contrario, la colmavano di domande, volevano sapere tutto di lei, erano invidiosi di quella coraggiosa sorella maggiore, che aveva osato ribellarsi alle abitudini di vita locali, che si era iscritta ad una scuola riservata alle persone più abbienti, che sognava in grande,
che voleva essere lei a decidere del suo futuro.
Il primo anno di liceo andò via senza intoppi e Alessandra lo concluse con risultati brillanti, rivelandosi la studentessa migliore del suo corso.
A giugno, la zia Anna, che andava a servizio in varie case, le chiese di aiutarla nel lavoro, durante  il periodo estivo. Col suo aiuto, avrebbero potuto dividersi i compiti e Alessandra, avrebbe avuto modo di sdebitarsi nei suoi confronti.
La ragazza, accettò di buon grado perché non aveva alcun interesse , nonostante la perenne nostalgia, a rientrare a Macomer e così facendo, avrebbe avuto la possibilità di continuare a vedere alcune compagne di scuola residenti a Nuoro.
La mattina ed il pomeriggio  andava con la zia nei suoi vari posti di lavoro: insieme si dedicavano alle pulizie degli appartamenti ed in alcune, preparavano anche il pranzo.
L’estate volò via in un soffio. Iniziò con entusiasmo il secondo anno, ritrovò le compagne di scuola, tutte donne, perché le classi miste erano ancora inesistenti.
Le sue giornate divennero molto intense: la mattina scuola, dopo un pranzo frugale, andava con la zia  a pulire le case e solo verso le 6 di sera poteva dedicarsi allo studio, fino a tardi.
A letto crollava, sfinita di stanchezza e tutto ciò aveva il vantaggio di farla dormire subito, allontanando i fantasmi che la assalivano da anni, quando era sola con sé stessa.
Per la prima volta non aveva il tempo di sentire quel malessere  sottile chiamato tristezza e solitudine che la portavano a versare continue lacrime notturne.
Dopo alcuni mesi, la zia Anna, le disse che, poiché si era fatta un nome, per la sua correttezza, serietà e onestà, le richieste di lavoro erano aumentate ed erano superiori al tempo che lei aveva a disposizione. Con il  solito passa-parola tra le famiglie più in vista di Nuoro, aveva ricevuto la proposta di andare a servizio presso una coppia di signori milanesi, da poco arrivati in città.
Poiché la cosa era molto allettante, la zia aveva pensato di mandare Alessandra da sola il pomeriggio, garantendo per lei, per non rinunciare agli altri lavori.
Non le chiese il parere, semplicemente lo impose.
La ragazza timidamente cercò di contraddirla.<Non posso andare da sola zia, non l’ho mai fatto >.
<Non c’è niente di più, né di diverso, da quello che hai fatto tutta l’estate>, rispose la zia e continuò.< Io andrò al mattino per preparare il pranzo, tu di pomeriggio ti occuperai delle pulizie della casa, in questo modo, io potrò dedicarmi agli altri lavori. Ti ricordo che lo stipendio è ottimo e ci servono i soldi per comprare i tuoi libri ed il materiale per i tuoi studi>
Alessandra non poteva replicare: aveva paura dell’impegno fisso da portar avanti da sola e di dover sottrarre tempo alla scuola.
Tuttavia, come allora era consuetudine, dovette ubbidire.
La prima volta la zia l’accompagnò e la presentò alla padrona di casa, che insegnava presso un istituto superiore, mentre il marito non era presente perché essendo il nuovo primario del reparto cardiologico dell’ospedale locale, era impegnatissimo.
Alessandra si guardò attorno smarrita: la casa era una bellissima, col   bagno in casa, l’arredamento moderno, una biblioteca fornitissima ed un giardino molto curato.
Si chiese come avrebbe fatto a tenere in ordine tutto e da sola.
La signora, che disse di chiamarsi Carla, era molto elegante, truccata e aveva tanti gioielli addosso.
La mise subito a suo agio, spiegandole con modi formali e decisi, quali sarebbero stati i suoi compiti, con la condizione della più assoluta pulizia.
Con molta umiltà, Alessandra accettò tutto, promettendo onestà e devozione.
Iniziò un’altra fase della sua vita: alle tre del pomeriggio era già in villa, doveva ripulire la cucina, la sala da pranzo ed il bagno tutti i giorni, le altre camere, venivano fatte a turno ed erano quelle meno impegnative,  perché poco trafficate.
La signora Carla, dopo aver consumato il pranzo, preparato dalla zia Anna, andava a riposare qualche ora, dopo la mattinata trascorsa a scuola e dopo, spesso, riceveva delle amiche per un caffè o spiegava alla ragazza come voleva si svolgesse il lavoro.
A seconda dei giorni, non c’era da stancarsi tanto perché in casa viveva in prevalenza la signora, Alessandra non aveva ancora conosciuto il marito, che solitamente rientrava dall’ospedale all’ora di  cena. Spesso la signora usciva con le amiche e lei restava sola e a volte, avendo finito tutto, aspettava che lei rientrasse a casa e nell’attesa, sfogliava i libri della biblioteca, con una certa invidia, visto che per lei avevano il fascino di un bel ragazzo.
Fu così che iniziò ad accrescere le conoscenze e le competenze scolastiche grazie a quei libri.
Prese anche la buona abitudine di portare i propri e durante i tempi morti, studiava e faceva i suoi compiti, sapendo che una volta tornata a casa, sarebbe stato tardi e aveva in questo modo la possibilità di recuperare del tempo.
Fu, immersa nei libri, che Carla la trovò una sera al suo rientro. Sorpresa, la osservò a lungo senza essere vista. Solo dopo un po’, manifestò la sua presenza.
Alessandra si alzò con molto imbarazzo e si rivolse a lei scusandosi per l’intrusione in biblioteca, ma giustificandosi perché il suo lavoro era concluso.
<Non ti sapevo interessata ai libri >, disse la signora.
<Quando finisco il lavoro, approfitto  per farmi i compiti e uso qualcuno dei suoi  libri>, fu la risposta. < Come, fai i compiti? Ma allora ,vai a scuola!>
Iniziò una conversazione tra le due, molto diversa da quelle limitate al rapporto di lavoro, che si erano svolte fino ad allora.
Carla guardò per la prima volta con occhi diversi, quella ragazza timida e vestita in modo molto dimesso, che per lei era solo una fedele domestica, ma che ora scopriva studiosa , tenace e con obiettivi  molto diretti ed ambiziosi nella vita.
Provò per lei un impeto di tenerezza, pensando all’immenso sacrificio che affrontava giornalmente, per mantenersi agli studi.
La congedò con un sorriso, promettendole che ogni sera, dopo aver finito i suoi doveri a casa sua, avrebbe potuto fare i suoi compiti tranquillamente lì, usando a suo piacimento tutti i libri disponibili e  poteva contare anche, in caso di difficoltà, sul suo aiuto di insegnante.
Alessandra corse verso casa , leggera come una piuma, felice come mai: sapendo di poter andare avanti col lavoro e con gli studi, senza sotterfugi e con la complicità della signora.
Pur con tanti sacrifici e molta stanchezza, portò avanti il suo secondo anno di liceo, con brillantissimi risultati.
La signora, per premiarla, le comprò un bellissimo abito da una boutique.
La ragazza rimase senza parole, era la prima volta che riceveva un regalo tanto prezioso e bello e pensò di essere la persona più fortunata del mondo: aveva un lavoro invidiabile, i suoi studi andavano avanti senza intoppi e qualcuno le dimostrava affetto.
Si commosse e non trovava argomenti per ringraziare la signora.
L’estate era alle porte e Carla cominciò ad organizzare il suo trasferimento presso la villetta di proprietà sua e del marito in una spiaggia della zona.
Una sera, , la signora le si avvicinò e le disse<Ti   piacerebbe trascorrere l’estate con noi al mare?>La ragazza rimase di stucco.
<Signora Carla, io non so cosa rispondere, non sono mai stata al mare, devo lavorare, devo aiutare mia zia>.Questa di rimando:< Cara, non ti porto con me per regalarti una vacanza, dovrai occuparti della casa, non solo di pomeriggio, ma anche di mattina. In agosto ci sarà anche mio marito , riceveremo degli amici e ci sarà molto da fare. Tuttavia, avrai del tempo libero, nel quale sarai libera di andare al mare, abbronzarti e stare con le amiche che vorrai>
La tentazione di accettare era forte, però sapeva di doverne parlare con la zia e aspettare il suo ok.
Lo fece all’ora di cena, il giorno stesso.
La zia Anna ascoltò con attenzione e vedendo che la ragazza fino a quel momento, aveva mantenuto tutte le promesse e si era fatta benvolere dalla signora, acconsentì.
<Prima di partire , prendi la corriera e vai a salutare i tuoi, a Macomer. E’ da Pasqua che non li vedi, fai vedere i voti che hai preso a scuola e spiega tutto quello che stai dicendo a me>
<Va  bene zia. Domani vado a casa e poi al rientro parto con la signora e ci vediamo a fine settembre. Dopo qualche giorno, raccolse le sue poche cose estive e con la solita vecchia borsa, dopo i saluti alla famiglia ed alla zia, raggiunse la casa di Carla.
Un autista le aspettava. Lo aiutò a caricare nella macchina, le numerose valige della coppia e raggiunsero la villetta al mare.
Questa si presentò agli occhi di Alessandra come una meravigliosa visione.
Un vialetto d’ingresso conduceva alla casa, composta da una luminosa cucina moderna, un bagno, la sala da pranzo e al piano superiore tre camere da letto con un altro bagno bianco .
Attorno c’era un giardino molto curato e ricco di fiori vari e coloratissimi.
La luminosità ed i colori invitanti  della casa , affacciata sul mare calmissimo, erano uno spettacolo.
La ragazza trovò per la prima volta in vita sua, una camera tutta per sé , dove dispose le sue poche cose nel moderno armadio ed i libri che la signora le aveva prestato per l’estate, nello scrittoio davanti alla finestra. Per andare in bagno non aveva bisogno di uscire all’aperto, come era abituata e finalmente poteva farsi una doccia completa, senza lavarsi a pezzi.
La sua gioia era incontenibile e pensò ancora una volta alla sua fortuna.
L’indomani si diede subito da fare ed eseguì alla perfezione tutto ciò che Carla le ordinò, anche il pranzo, cucinando per la prima volta, i frutti di mare.
Di pomeriggio, la signora decise di scendere  in spiaggia  e diede alla ragazza un suo costume con un abitino estivo, sapendo che ne era sprovvista.
Dopo il primo imbarazzo,questa, accettò di buon grado e si stese sulla sabbia dopo essersi spalmata una crema che Carla aveva portato per entrambe.
Questa incontrava qua tante amiche e chiacchierava animatamente con loro.
Alla ricerca di privacy, le disse:< Alessandra, vai a farti una passeggiata. Sicuramente troverai qualche compagna di scuola e potrai farti il bagno con loro. Vai pure , cara>
La ragazza capì e si allontanò .
Era molto a disagio, non conosceva nessuno, entrò in acqua, fece una passeggiata e poi si stese al sole.
Ogni mattina, Alessandra si  occupava della casa, preparava il pranzo per lei e la signora, mentre questa raggiungeva le amiche ed i conoscenti in spiaggia.
Intorno alle cinque del pomeriggio scendeva anche lei e faceva sempre le stesse cose .
Il primo sabato di vacanza, era intenta a pulire le stanze della zona giorno, quando si spalancò la porta ed entrò in casa un signore molto distinto, alto e con un abbigliamento elegante.
<Tu, devi essere Alessandra>, le disse. <Si, signore sono io>, rispose.
<Io sono il marito di Carla, sono il dottor Valentini, Stefano Valentini. Mia moglie mi ha parlato di te, sei diventata il suo braccio destro, non si muove più senza di te.>
La ragazza arrossì violentemente, sotto il suo sguardo canzonatorio ed ironico e non  seppe cosa rispondere. Lui la tolse dall’impaccio chiedendole di aiutarlo a portare dentro le sue cose.
Portarono tutto nella camera da letto e Alessandra chiese educatamente se avesse bisogno d’altro.
Poiché lui rispose negativamente, lei riprese il suo lavoro, fino a quando l’uomo non comparve davanti a lei con un paio di pantaloni corti , una maglietta bianca ed un cappellino sulla testa.
Lei continuò le sue faccende, evitando di guardarlo e pensando che non sarebbe stato facile, abituarsi a quella presenza maschile in casa.
Lui le disse che andava a salutare la moglie e farsi un bagno e prima di uscire, dopo un ultimo sguardo provocatorio, le augurò buon lavoro.
Era la prima volta che aveva a che fare con lui e anche a tavola, quando si riunirono per il pranzo, la cosa le procurava un certo imbarazzo.
Quando il pomeriggio scese in spiaggia, lo fece più tardi del solito, sapendo che ci sarebbe stato anche lui. Si fermò ad una breve distanza da loro, che parlavano animatamente con gli amici, e evitando di guardarsi attorno, si tolse l’unico abitino da spiaggia in suo possesso,  rimanendo in costume.
Pur senza girarsi, sentì su di sé lo sguardo dell’uomo e, per darsi un contegno, si stese subito sull’asciugamano, concentrando la propria attenzione sul libro che aveva portato.
La domenica sera sul tardi , Stefano riprese il suo abbigliamento cittadino e con la borsa da viaggio, si diresse verso la sua fiammante macchina bianca, per tornare a Nuoro.
Prima di avviarsi lungo il vialetto, si girò dicendole:< Arrivederci a sabato, Alessandra.> E abbozzò un sorriso che metteva in risalto dei denti molto curati.
Tutto il mese di luglio , trascorse in questo modo per Alessandra: pulizia giornaliera della casa, preparazione dei pasti e mare a metà pomeriggio. Il  sabato arrivava il dottor  Stefano e lei faceva in modo, al suo ingresso, di farsi trovare nell’altra ala della casa , per superare l’imbarazzo .
Lui cercava, anche in presenza della moglie, di sollecitare una conversazione, che lo portasse a capire meglio quella ragazza timida, solitaria, obbediente ed onesta, ma  Alessandra si concentrava in qualcosa, per non dover guardare in faccia l’uomo.
Un pomeriggio assolato, questi, in un impeto di tenerezza, nel vederla sempre sola, immersa nei libri, silenziosa, le disse:< Vai a farti una passeggiata sulla spiaggia e comprati un gelato, nel chiosco lì in fondo> . Contemporaneamente mise mano al portafoglio ed estrasse 20lire per dargliele. Lei, orgogliosamente, rifiutò e gli rispose ringraziandolo, che  non aveva voglia di gustarlo in quel momento. Però si alzò e dignitosamente andò a farsi un giro, maledicendosi, perché  non  aveva avuto il coraggio di accettare il gelato, che tanto desiderava.
Arrivò agosto e Stefano, si stabilì definitivamente nella casa, perché aveva un mese abbondante di ferie.
Per Alessandra non fu facile accettare l’idea che quell’uomo sarebbe rimasto con loro.
Era estremamente imbarazzante, sapere che a pochi passi dalla sua camera, lui dormiva con la moglie. La mattina, lei,  si alzava prima di  tutti, preparava la colazione e iniziava a pulire le terrazze ed il vialetto del giardino, in modo che non la incontrassero, al loro risveglio.
Era incuriosita inoltre, dallo strano legame che univa la coppia . Si chiedeva spesso come mai la signora, sia a Nuoro, che al mare, stesse tanto tempo con le amiche e lui fosse arrivato solo ad agosto.
Nel suo ambiente, non si usava, le donne stavano coi mariti.
Poi non capiva perché non avessero figli, dopo tanti anni di matrimonio.
Non aveva mai parlato di sesso con nessuno, a casa era un argomento tabù. La sua mamma non l’ aveva preparata neanche all’evento del ciclo, qualche anno prima. Era un periodo in cui, non esisteva nessun dialogo coi figli, si lasciava che crescessero coi loro problemi, i loro pensieri solitari, non si chiedeva il loro parere su niente, le regole si imponevano e basta.
In un ambiente così rigido, Alessandra aveva saputo le poche cose della vita di donna, solo grazie ai discorsi con le compagne di scuola, perché tutte erano allo stesso livello.
La signora Carla ed il signor Stefano, a differenza delle coppie che lei conosceva, avevano un rapporto più libero ed inoltre, prima di ogni partenza, li vedeva abbracciarsi e baciarsi in bocca, li vedeva ridere e scherzare tra di loro ed in compagnia.
Non aveva mai visto i propri genitori comportarsi in modo così disinvolto : loro si parlavano per discutere le cose giornaliere, per risolvere problemi, per litigare .
Non aveva mai pensato a loro come coppia, che poteva essere stata innamorata, ma semplicemente come padre e madre autoritari, incapaci di dispensare affetto.
Senza esser vista, osservava in continuazione i suoi datori di lavoro, cercando di darsi una spiegazione e contemporaneamente sognando nel suo intimo, di essere la loro figlia, non la loro domestica. In questo caso la sua vita sarebbe stata completamente diversa : avrebbe vissuto con delle persone benestanti che, non le avrebbero fatto mancare niente, non avrebbe avuto bisogno di andare a lavorare , i pomeriggi sarebbero stati dedicati tutti allo studio e alle passeggiate con le amiche, che di sicuro non le avrebbero proibito. E ……la cosa più importante…….bella ed elegante, sarebbe stata colma d’affetto e contatti fisici, che desiderava spasmodicamente. Alessandra era in vacanza, ma non era felice. L’inquietudine che da sempre l’accompagnava, le impediva di vivere quella strana estate, gioiosamente : soprattutto il pomeriggio, al mare, si metteva prona sull’asciugamano e lasciava che le lacrime scendessero.
Pensava alla famiglia lontana, alla zia da sola, alla sua vita “da ultima” in questa casa, dove era una dipendente,  molto intelligente si, che aveva conquistato la coppia, ma pur sempre una domestica, che usava gli abiti smessi che la  signora  le regalava.
Giurò a sé  stessa che la sua vita sarebbe cambiata a qualsiasi costo; un giorno sarebbe stata qualcuno e sarebbero finite quelle umiliazioni: sarebbe stata ciò che desiderava da sempre.
Mentre piangeva, si riscosse al tocco di una mano sulla spalla: era il signor Stefano, che le parlava. Questi rimase ammutolito vedendo le sue lacrime e le chiese gentilmente cos’avesse. Alessandra, umiliata ed orgogliosissima, si asciugò dicendo che le era entrata della sabbia negli occhi. Lui  non la contradisse, ma capì che c’era qualcosa, aspettò un attimo e le disse:< Per favore, vai al chiosco e porta i gelati per tutti, di gusto misto, per te sceglilo come vuoi.>
La ragazza si alzò velocemente e si avviò.
Prese i gelati ordinati e questa volta anche per lei, visto che aveva l’alibi stavolta.
All’uscita, sentì un voce che la chiamava. Sorpresa si girò a quella voce nota e vide Eleonora, una sua compagna di scuola. Si abbracciarono  e quasi le caddero i gelati. <Cosa fai qua e con chi sei?> chiese la compagna.<Son qui con una coppia, li aiuto perché la casa è grande e mi faccio le vacanze>Questa fu la sua dignitosa risposta, mai avrebbe ammesso che lei lavorava da quando si era trasferita a Nuoro.< E tu invece Eleonora?><  Io son qua con la mia famiglia, hanno affittato questa casa per tutto il mese. >Alessandra era però sulle spine, dovendo consegnare i gelati e le disse:< Aspettami qua , consegno questi e torno subito>
A passo veloce , si diresse presso il gruppo, diede loro i gelati e chiese il permesso di tornare dall’amica. Carla, glielo accordò di buon grado e le disse di tornare verso le 8.
Le due ragazze si ritrovarono e per un po’, non fecero che parlare di tutto, dell’anno scolastico finito, di quella bellissima estate e dei loro progetti futuri.
Eleonora, felice di averla trovata le propose di incontrarsi tutti i giorni,  mattina e sera per divertirsi assieme. <Stiamo qua con un gruppo che ho conosciuto e facciamo il bagno assieme, giochiamo e passiamo il tempo a ridere e scherzare. Vieni domattina qua, che ti presento tutti. Vedrai che ti diverti, cosa ci fai sempre con quei vecchi?>
Alessandra organizzò mentalmente la sua mattinata e acconsentì ad incontrarli, verso le undici e trenta. <Perché così tardi?> chiese stupita l’amica. <Devo dare una mano alla signora>, fu l’orgogliosa risposta. < Ok . Però cerca di sbrigarti e poi ci troviamo anche il pomeriggio>
La sera a casa, felicissima di aver trovato l’amica, decise che avrebbe sveltito  tutto  il suo lavoro e sarebbe scesa in spiaggia anche il mattino.
L’indomani, la raggiunse al punto stabilito e la trovò con altre 5 persone :due ragazze e tre ragazzi. Quando venne presentata, Gianni, il  giovane più alto disse :<  Eleonora, dove tenevi nascosta questa bellezza ? Perché non l’hai portata prima? Avevi paura della concorrenza?>
Tutti risero e dopo un po’ , superato l’imbarazzo iniziale, Alessandra, si trovò a parlare col gruppo in modo allegro e giocoso, come non le era mai capitato prima.
Venne a sapere dunque che erano tutti studenti agli istituti superiori di  Nuoro e Gianni stava per iniziare  l’ultimo anno del liceo.
Dopo, la giovane età di tutti prese il sopravvento e si gettarono in acqua.
Alessandra , li seguì, pur non sapendo nuotare e si lasciò travolgere dai loro giochi, dalle grida, dalle risate.
Un po’ prima dell’una, lasciò di colpo e con tanta fretta il gruppo, dicendo che era attesa per pranzo. Per la prima volta, Carla non la trovò a casa e vide il grande imbarazzo della ragazza, che velocemente apparecchiava il tavolo, scusandosi del ritardo e dicendo che aveva ritrovato delle compagne di scuola.
Alle cinque, la ragazza, scese come sempre in spiaggia e disse ai signori che sarebbe rimasta con le amiche fino al rientro.
La signora la lasciò andare molto volentieri e si rivolse al marito ed agli amici dicendo che Alessandra era una perla rara, per onestà, laboriosità, educazione, ma non ne poteva più di averla sempre attaccata. Stefano , al contrario non fiatò e nascose la sua delusione :la ragazza con la sua bellezza e la freschezza dell’età, era un gran bel vedere.
Questa aveva finalmente trovato una certa serenità: faceva tutte le faccende velocemente per raggiungere la comitiva, dove le ore trascorrevano in fretta,  con risate, giochi acquatici e allegria. Riuscì, con l’aiuto degli amici, a stare a galla e fare delle nuotate, che diventavano sempre più lunghe e divertenti. Quando Gianni l’aiutava a non affondare e la teneva, spesso troppo a lungo, con le braccia attorno al corpo, lei si liberava subito, cercando di superare il turbamento che quel contatto le procurava. Non era corretto, secondo la morale dell’epoca, avere dei contatti fisici con quelli di sesso opposto. Eppure le piaceva quella sensazione che le dava la vicinanza di quel bel ragazzo alto e simpatico, che non perdeva occasione per divertirla .
Inoltre, il modo in cui tutti i ragazzi la guardavano, con ammirazione e desiderio, le fecero capire, nonostante la scarsa autostima, che piaceva molto.
Si divertiva e per la prima volta, aveva abbandonato le sue letture. Non vedeva l’ora, durante le sue occupazioni, di raggiungere la compagnia e divertirsi.
Agosto volò via in un soffio . Ai primi di settembre, dovette far trovare pronta la biancheria del signor Stefano, che doveva riprendere servizio in ospedale e andava via malvolentieri e con una bellissima abbronzatura . Lo aiutò a portare tutto in macchina e mentre lei riponeva dei pacchi sul sedile posteriore, lui le sfiorò il braccio, forse involontariamente e lei provò una scossa che la mise in tumulto,  le aumentò i battiti del cuore e ……..le diede un segnale di pericolo.
Lo salutò educatamente e senza alzare la testa, mentre lui con un sorriso sornione, le dava l’arrivederci al sabato successivo.
A settembre, tanta gente tornò al lavoro, la spiaggia non era più gremita come prima. Eleonora rientrò a Nuoro con la famiglia, rimase solo un’altra ragazza .Anche Gianni dovette far ritorno a casa, ma promise che il sabato sarebbe tornato con la corriera e poi si sarebbero visti a scuola.
Prima di andar via, le disse :<Non mi sfuggirai più> e accompagnò tutto con un sorriso da diciottenne infatuato.
Le giornate non erano più le stesse per Alessandra : la compagnia degli amici le mancava da morire, tutto sembrava vuoto ; vedeva ogni tanto l’altra amica , ma non era la stessa cosa.
Gianni ne  era stato l’anima, con la sua esuberanza, le simpatia e l’ allegria contagiosa.
Il gruppo era stato il simbolo della sua giovane estate .
Ora si ritrovava sola con la signora Carla, la quale in spiaggia continuava ad avere una cerchia di amiche, facendo pensare alla ragazza che le persone benestanti non devono tornare a lavorare  con la stessa urgenza della povera gente.
Una ragione di più perché lei si migliorasse nella vita, lo voleva con tutta sé stessa: lei avrebbe volato alto, senza se e senza ma.
Anche le ore trascorse a casa, doveva ammettere, erano  diverse: l’assenza di Stefano si notava.
Era lui che la mattina la spingeva ad alzarsi presto per non farsi trovare con l’abbigliamento di sempre e per non incrociarlo di prima mattina , mentre l’uno o l’altro usciva dal bagno. Per quanto imbarazzanti, le mancavano anche i suoi sguardi ironici ed indagatori che le penetravano l’anima.
Lui però arrivava il sabato come a luglio e andava via la domenica sera.
Gianni venne l’ultimo sabato del mese, all’ora di pranzo e riuscirono a vedersi a metà pomeriggio, quando lei andò in spiaggia. Le raccontò che era arrivato in auto stop perché aveva perso la corriera, ma lei pensò che fosse una scusa per mascherare la mancanza di soldi. Naturalmente si guardò bene dal farglielo capire. Ad un certo punto, le propose di andare a fare una passeggiata un po’ all’interno, in direzione della pineta. Con un certo imbarazzo, perché senza gli altri amici, la situazione le sembrava diversa , accettò.
Una volta giunti nel mezzo degli alberi, Gianni le prese la mano, aspettando una sua reazione.
La ragazza ebbe un fremito ma lasciò fare e camminarono così, assaporando la pace attorno ed il silenzio carico di tensione da parte di entrambi.
Poi lui, si girò guardandola in viso e l’attirò a sé, stringendola per la vita.
Alessandra sentiva i battiti impazziti del suo cuore ed un senso di languore che la avvolgeva.
Lo lasciò fare fino a che il ragazzo, la strinse forte e con avidità e poca esperienza la baciò sulla bocca .Lei rimase ferma e lasciò che quel bacio si prolungasse, mentre lui cercava di aprirle la bocca con la lingua e diventava sempre più impaziente e la stringeva fino a farle quasi male.
Un turbinio di sensazioni la tempestò: le piaceva quel bacio, anche se era stato tutto improvviso, ma quella morsa che la teneva stretta e le faceva sentire tutta l’ eccitazione del ragazzo, la spaventò e si ritrasse allontanandolo con voce stridula.
Lui, in preda agli impulsi di diciottenne  inesperto, ubbidì e le chiese scusa.< Non volevo spaventarti, ma mi piaci da impazzire: è da quando t’ho conosciuto che sogno questo momento>
Non ottenendo risposta e vedendo il suo sgomento,  si riavviò con lei.< Perdonami Alessandra, ma io credo di volerti molto bene, mi sto innamorando di te>, continuò.< E tu cosa senti per me? So che ti piaccio>Lei , ancora sconvolta, rispose arrossendo timidamente <Si, mi piaci anche tu, ma per oggi basta così , ora rientriamo.>
Si lasciarono. Gianni sarebbe tornato a Nuoro in autostop e la ragazza a casa con la signora. La sera, una volta a letto, ripensò a quei momenti con dolcezza e nostalgia, ma le sembrava di fare qualcosa di scorretto, sapeva che quest’intimità si doveva avere tra fidanzati e questa non era una delle sue priorità. Spesso aveva parlato con le amiche delle effusioni di questo genere, nessuno le aveva mai preparate al sesso; erano tutte molto confuse e quasi tutte convinte che ad un rapporto sessuale seguiva una gravidanza . Per cui,  dopo tante risatine ingenue e divertite, vedevano l’attrazione ed il rapporto con un  uomo, con lo spauracchio della maternità.
Si era alle soglie degli anni 50 e tutto era ancora molto chiuso e represso. I genitori non dialogavano coi figli, il sesso era un argomento completamente tabù e mentre i ragazzi facevano le prime esperienze sessuali , nel  momento in cui si recavano ad effettuare la visita di leva, nel capoluogo, le ragazze si accontentavano delle notizie distorte e frammentarie che tra amiche, riuscivano a procurarsi. Nella mente di Alessandra  c’era tanta confusione. Le sensazioni che aveva provato al contatto con Gianni, erano contradditorie : aveva desiderato il bacio e l’abbraccio, ma quell’irruenza, la spaventava. Era il preludio a qualcosa che le sembrava molto scorretto, peccaminoso, proibito. Tuttavia il ragazzo le piaceva molto: era alto, bello, brillante, simpatico e ….audace.
Anche settembre se ne andò. Alessandra e la signora Carla prepararono  i  bagagli e tornarono a Nuoro con lo stesso autista che le aveva portate lì.
Una volta in città, si tornò alla routine di sempre : la ragazza tornò a casa dalla zia, col gruzzoletto che si era guadagnata in estate e che le servì per dotarsi di tutto il materiale scolastico necessario e per la prima volta si concesse un regalo: comperò una gonna alla moda, che le avrebbe fatto fare un figurone in inverno e coi soldi avanzati prese qualcosa per i fratelli e la zia .
Tornò a casa orgogliosa dei suoi acquisti e della piega che stava prendendo la sua vita.
Si sentiva molto autonoma: a sedici anni, aveva dei soldi in tasca che le consentivano di provvedere alle sue necessità, un lavoro che le avrebbe permesso di mantenersi agli studi…….ed un ragazzo del quale si stava innamorando.
Il primo ottobre si riaprirono le scuole e Alessandra riprese la sua vita di studentessa –lavoratrice.
Ritrovò con tanto entusiasmo le compagne, i professori degli anni precedenti ed i nuovi e rivide Gianni, che sin dal primo giorno, l’attese all’uscita per accompagnarla a casa.
Era imbarazzata perché Nuoro era un paesone e temeva di essere vista in sua compagnia, se la zia avesse scoperto che frequentava un ragazzo, l’avrebbe rimandata a casa, considerata la mentalità chiusa di quegli anni, non avrebbe accettato la responsabilità della situazione.
Decise perciò di agire con prudenza: avrebbe fatto in modo di incontrare il ragazzo, la sera all’uscita dal lavoro, con la complicità del buio e contando sul fatto che a quell’ora la zia era rincasata. Per mesi, la vita continuò come prima, scuola , lavoro e …….Gianni all’uscita, che la prendeva per mano e percorrevano insieme i vicoli più nascosti, dopo una corsetta per recuperare tempo . Dietro una casa semi diroccata, si fermavano e si abbracciavano e i baci diventavano ogni giorno più audaci. Il ragazzo si faceva più appassionato e cercava di infilare le mani sotto il cappotto per accarezzarla e toccarla, anche se in modo maldestro. A quel punto, Alessandra, carica di paure e tensione per una situazione che le sembrava  peccaminosa, lo allontanava con la scusa che era molto tardi e la zia avrebbe sospettato.
Quella che le sembrava cambiata era la signora Carla: usciva molto più spesso, lasciandola sola a sfaccendare. Quando  era presente, era sfuggente, pensierosa, poco disposta alla conversazione e curava ancora di più il proprio aspetto, presentandosi, in modo impeccabile ed elegante.
Alessandra non capiva cosa stesse succedendo, ma era in quella casa per lavorare, non per indagare sulla vita privata dei suoi principali, che avevano un tenore molto diverso dalla gente come lei. Passarono i mesi e durante le vacanze di Natale , Carla e Stefano, partirono per Milano, mentre lei e la zia , si spostarono per alcuni giorni a Macomer, per trascorrere  le feste coi parenti.
Alessandra, nonostante l’affetto immenso per loro, si sentiva un ospite.
Le sue abitudini di vita erano completamente diverse da quelle , molto modeste dei suoi cari.
Inoltre la distanza dai suoi genitori, era diventata enorme, il rapporto era formale e le faceva capire, con la morte nel cuore, che quella non era la sua casa e la sua vita.
Rispetto ai fratelli, si sentiva un ‘adulta piena d’esperienza.
Tornò a Nuoro,  con le sue consapevolezze nel cuore, con la malinconia, che non l’avrebbe lasciata per il resto dei suoi giorni.
La vita tornò alla normalità.  Il 7 gennaio, la zia le comunicò che la signora Carla, era rimasta a Milano, perché doveva fare accertamenti medici importanti, ma la rassicurò dicendole, che non avrebbe perso il suo lavoro, anzi, il suo impegno sarebbe aumentato.
< Ora dovrai preparare anche la cena per il dottor Valentini, perciò tornerai più tardi la sera. Dunque portati  i libri lì, in modo che quando finisci tutto, ti metti a studiare.>,le disse.
<I signori si fidano di te, perciò avrai la chiave di casa e dovrai comportarti, fino a che non torna Anna, come se fossi la padrona di casa. Fai tutto per bene, senza brutte figure>.
Alessandra rimase di stucco .Pensava alla stranezza di quella situazione, ma sapeva di non poter opporsi. Chissà se gli incontri con Gianni sarebbero potuti andare avanti!
A malincuore, acconsentì.
Come sempre, dopo pranzo andava nella casa dei signori, faceva, tutto ciò che era necessario ed anche velocemente, per potersi poi dedicare agli studi.
Andava via più tardi del solito, lasciando comunque tutto in ordine e la cena in caldo per  il signor Stefano. All’uscita c’era quasi sempre Gianni ad attenderla.
I due giovani correvano verso il loro rifugio, ridendo e scherzando :lui, spesso intirizzito per l’attesa e lei combattuta tra la paura di far tardi e la voglia di stare con lui.
Dopo qualche abbraccio frettoloso e appassionato, Gianni diventava sempre più audace e lei sempre più timorosa di quel  che sarebbe potuto accadere , anche se ancora non era al corrente di niente che riguardasse il sesso. Tuttavia, col candore e la freschezza dei suoi 16 anni, si rendeva conto che il contatto col ragazzo, la faceva fremere ed accendeva i suoi sensi , ma la paura dell’ignoto, la bloccava e faceva di tutto per fermarlo.
Una sera, mentre tra una faccenda domestica e l’altra, ripeteva a voce alta una lezione, sentì la chiave che girava nella toppa e come un ladro colto in flagrante, si voltò, chiudendo il libro .
Il dottor Valentini, apparve in cucina e dopo aver osservato compiaciuto il suo imbarazzo, le disse:<Continua pure a studiare, fa’ come hai sempre fatto, non ti disturberò>
<Grazie signore, ma ora le apparecchio il tavolo e poi vado via, è tutto pronto>, fu la sua risposta.
<Non preoccuparti di me, lascia pure tutto e vai , se vuoi, c’è molto freddo ed è tardi >aggiunse Stefano. Alessandra, completò le sue faccende frettolosamente e si preparò per andar via.
<Buonanotte dottore >, fu tutto ciò che riuscì a dire, rossa in viso per l’imbarazzo.> <Buonanotte a te cara, a domani>, lui rispose, seguendola con sguardo indagatore.
La ragazza andò via di corsa, chiedendosi cosa significasse quella frase: aveva forse intenzione di tornare a casa ogni sera, nonostante non ci fosse la moglie? Forse voleva verificare il suo operato, in modo che lei sapesse di essere sotto controllo. Questi interrogativi non la lasciarono e l’indomani tornò al posto di lavoro con grande apprensione.
Sbrigò le faccende con maggior cura, pensando di veder entrare il padrone di casa da un momento all’altro. Ma non accadde niente per giorni .Un’altra volta , l’uomo rincasò alle 5 del pomeriggio. Alessandra  entrò nel panico.
Questi, dopo un saluto formale, andò in bagno e si ritirò nel suo studio, lasciandola tranquilla.
Ben presto, il rientro del medico, divenne una quotidianità. La ragazza si tranquillizzò: raramente appariva in cucina, mentre lei, preparava la cena e studiava .
Una sera, particolarmente fredda e rigida, mentre stava per uscire di casa, lui comparve col cappotto in mano e le disse:<Aspetta, nevica, ti accompagno in macchina>.La ragazza, colta di sorpresa, rispose educatamente:<Non si disturbi, mi faccio una corsa>. <Non se ne parla neanche, è molto tardi, fa freddo e non puoi andar da sola a quest’ora. Copriti bene> , le disse.
Alessandra, di fronte a quell’ordine deciso, si avvolse con la sciarpa e lo seguì.
Gli indicò la strada di casa , tesa, perché non avrebbe visto Gianni e contemporaneamente grata per quell’esaltante esperienza da raccontare: il primo viaggio nella lussuosa auto del principale.
Giunti davanti alla porta di casa, lei timidamente ringraziò, e lui, le fece una carezza sulla guancia.
La ragazza trascorse il resto della serata in trance, sentiva ancora sul viso , la calda mano dell’uomo, l’unica, oltra a Gianni, che si fosse posata su di lei.
Per tanti giorni, il tempo fu molto rigido e il suo semplice abbigliamento, non la copriva abbastanza; comparvero sulle sue mani i geloni e soffriva tanto .
Stefano, uscì dal suo studio, mentre si grattava le mani insanguinate, si avvicinò e gliele prese delicatamente esaminandole. La ragazza, rossa per la vergogna, lo lasciò fare. Lui si spostò un attimo e tornò con una pomata dicendole:<Spalmala più volte al giorno e proteggile con questi guanti, all’aperto> <Ma son della signora Carla, non posso usarli> rispose Alessandra.
<Non devi preoccuparti, lei ne ha tanti e quando tornerà, sarò io a dirglielo. Inoltre, mettiti anche questo suo  cappotto, è molto più caldo e comodo del tuo>.L’uomo le mise una mano sulla bocca per impedirle di protestare, vedendo che stava per dire qualcosa  e l’accompagnò in macchina. Fece il breve tragitto come su una nuvola e  a casa, una volta a letto, ripensava al tocco gentile delle sue mani sulle sue, sulle sue spalle e al caldo prodotto dal bellissimo e profumato paltò che le aveva fatto indossare. Per fortuna,  in quei giorni così freddi, vedeva Gianni solo a scuola. L’uscita era diventata una meravigliosa consuetudine , di Stefano.
Si accorse di desiderarne la presenza, quando era in casa di lui a sfaccendare, anche se la intimidiva tantissimo. Una sera, apparve e le chiese di preparare un caffè e berlo con lui.
Lei ubbidì e si sedette di fronte. Lui intavolò una conversazione mirata alla conoscenza dei suoi studi e del suo futuro e lei si ritrovò a parlare della sua vita attuale, e del fatto che le sarebbe piaciuto andare all’università e dopo la laurea, trovare un lavoro. Si guardò bene dal dirgli che le misere condizioni economiche, la penalizzavano. Nonostante lui vedesse coi suoi occhi, la povertà della sua vita, un orgoglio tutto sardo, le impedì di lamentarsi, ma anzi la spinse a fingere .
La chiacchierata durò e lei in colpa, si alzò per rimettersi a lavorare, ma lui la bloccò delicatamente tenendole la mano e le disse di non preoccuparsi  e di fargli compagnia. Pian piano, divenne più semplice conversare con lui ed aprirsi: l’uomo aveva la capacità di farla dialogare ed il blocco di ghiaccio che l’avvolgeva, lentamente , iniziò a sciogliersi.
Avrebbe voluto chiedergli quando sarebbe tornata la signora, ma le sembrava di essere indiscreta. Fu lui che disse che la moglie si trovava nella casa milanese e stava facendo degli accertamenti che l’avrebbero trattenuta ancora lì. La pregò di non trascurare i suoi studi , per cui, se certe volte, aveva delle lezioni importanti, di lasciare qualcosa a casa non fatto.
Le corse col freddo serale con Gianni, le mancavano, ed anche i suoi baci focosi e gli assalti, , ma si rese conto dell’importanza che iniziavano ad avere, le conversazioni e il rientro in auto con un signore colto e raffinato  come Stefano, che la guardava negli occhi, leggendole dentro l’anima e parlandole con una calma ed un fare paterno che lei aveva sempre sognato. Ora era lei che ogni pomeriggio l’ aspettava col caffè fumante e dopo essersi guardata allo specchio, si sedeva con lui e diventava sempre più loquace.
Avrebbe voluto che quei momenti, non finissero mai: lui le disse che un giorno o l’altro, appena se ne fosse presentata l’occasione, sarebbe tornato a Milano, la sua città , perché nonostante si trovasse benissimo a Nuoro, la provincia, con le poche opportunità che presentava, gli stava stretta ., Alessandra, sentì un pugno nello stomaco; come avrebbe fatto senza quel comodo lavoro, senza quella casa che stava diventando il suo regno e senza…..il calore di Stefano?
Tuttavia, non lo diede a vedere e continuò a parlare con lui, che l’accarezzava con lo sguardo. Ad un certo punto le disse:< Sei una ragazza meravigliosa, figlia di questa terra, aspra ed orgogliosa. Potrai sempre contare su di me. Se tu vorrai, ti aiuterò a realizzare i tuoi sogni, saprò consigliarti sul tuo futuro. Meriti il meglio> L’abbracciò, lasciandola senza fiato e prendendole delicatamente il viso tra le mani, le diede un bacio sulla fronte. Quindi tornò nello studio.
Lei, pervasa da uno strano languore, che le indebolì le gambe, rimase bloccata per molti minuti; fu difficile tornare alle sue occupazioni e concentrarsi sui libri.
L’indomani, all’ora di ricreazione a scuola, uscì nel cortile e Gianni le disse che gli mancava molto e che la sera, visto che il maltempo, si attenuava, sarebbe tornato a prenderla .
Lei accettò con una certa riluttanza, sapendo che avrebbe rinunciato in questo modo, al passaggio del suo datore di lavoro, con ciò che ne conseguiva.
Al pomeriggio, fece le sue faccende con molta  tensione, rendendosi conto che gli incontri col medico, la emozionavano in modo assurdo. Non sapeva spiegarsi cos’erano le sensazioni che provava,  la gioia languida che le dava l’uomo, la voglia di vederlo  e contemporaneamente la paura che l’assaliva davanti a lui, così diverse dai sentimenti per Gianni, fatti di giochi e corse, abbracci maldestri e fresca allegria giovanile.
Quando Stefano entrò in casa, lei finse di non accorgersi, in realtà il cuore le batteva all’impazzata.
Lui si avvicinò e con un caloroso sorriso le si avvicinò, chiedendole come stava.
Poi le diede un buffetto sulla guancia ed andò via, lasciandola un po’ delusa perché avrebbe voluto parlare subito con lui. Arrivò dopo , per il caffè come sempre. E mentre lei , con mani tremanti, disponeva le tazzine, lui, la fece sedere e le accarezzò i lunghi capelli, raccolti in una lunga treccia.
<E’ da un po’ che sognavo di farlo. Hai dei capelli meravigliosi, perché li mortifichi, tenendoli legati?> Lei avvampò, non si aspettava questo, non trovò una risposta intelligente e farfugliò qualcosa che lo fece sorridere.
L’uomo, dopo aver consumato il caffè, si alzò, tolse l’elastico che saldava la treccia e la sciolse, le allargò i capelli ciocca per ciocca, con una lentezza e una delicatezza che la rilassò e pensò di addormentarsi sotto il tocco delle sue mani.
Era pervasa da un senso di impotenza totale, lui la fece alzare, la portò di fronte allo specchio e sollevandole il mento, la costrinse a guardarsi e le disse :< Sei bellissima coi capelli sciolti>E, continuava ad accarezzarglieli .
Lei era completamente in trance. <Quando non sei ai fornelli, qua , portali così, sei splendida>le disse. Dopo di che, la lasciò ancora attonita ed incapace di muoversi e tornò nello studio. Lei cercò di tornare in sé e con fatica immensa, riprese il suo lavoro.
La giovane età e l’ingenuità che la caratterizzava, le impedivano di capire le strategie degli adulti.
Al momento di andar via, lui si mise il cappotto per accompagnarla e lei con grande imbarazzo gli disse:< La ringrazio signor Stefano, ma ora non fa tanto freddo e viene un mio amico a prendermi>.
E mentre pronunciava queste parole, avvampò in modo vergognoso.
Lui rise fragorosamente e rispose:<Hai un fidanzato? Dalla tua reazione, direi di si. Come mai non ti ha mai detto che sei molto più bella coi capelli sciolti? E’ cieco. Vai pure e digli che non trascuri una meraviglia come te>.Subito dopo , senza darle possibilità di risposta, la prese tra le braccia, la strinse delicatamente  e dopo averle accarezzato i lunghi capelli, la baciò sulla fronte. Poi la spinse fuori dicendole :<A domani piccola>.
Gianni vide l’enorme massa di capelli al vento e le disse:<Ma che t’è venuto in mente di scioglierti la treccia? Sei molto disordinata, chissà cosa dirà tua zia!>
La ragazza prese l’elastico dalla tasca, li legò frettolosamente ed insieme corsero verso la loro strada nascosta. Qua le mani di Gianni, la palparono subito senza preamboli, mentre la bocca di lui si posava avidamente sulle sue labbra e la lingua cercava di invasa insinuarsi ovunque. Il distacco, aveva aumentato il suo desiderio e lo faceva smaniare. Lei rispondeva ai suoi baci con poca concentrazione, cercando di tenerlo a bada .
Lo respinse con fatica perché era come elettrizzato e freneticamente, cercava di farle sentire il suo desiderio sussurrandole all’orecchio :<Mi farai morire, dobbiamo stare di più assieme perché io ti voglio>.Lei sentì il segnale di pericolo e lo allontanò, facendo leva sull’ora tarda, che avrebbe fatto infuriare la zia. A malincuore lui la mollò e l’accompagnò a casa.
Dopo cena, la ragazza ripassò le sue lezioni e quando finalmente si mise a letto e fu sola coi suoi pensieri, si chiese cosa le stesse succedendo. Pensava con nostalgia alla dolcezza di Stefano, che sicuramente vedeva in lei una figlia da proteggere e coccolare. Era un adulto affascinante e delicato e le piaceva immensamente parlare con lui e sentire il tocco delle  sue mani esperte che la facevano cadere in una strana ipnosi.
Le mancava anche Gianni, con le sue battute e la risata da diciottenne , con le sue corse, quando la trascinava dietro la casa semi diroccata per mangiarla di baci ed era come se avesse mille mani che le frugavano addosso. Entrambi le piacevano, in modo diverso, ed entrambi le facevano paura.
Per alcuni giorni  Stefano non tornò a casa di pomeriggio; la casa improvvisamente era vuota.
Dopo circa una settimana, quando dopo pranzo entrò in casa per iniziare il lavoro, ebbe un colpo al cuore :  lui era lì che l’aspettava. Era la prima volta, da quando frequentava la casa, che lo trovava .
Alessandra tremava per l’imbarazzo e per l’emozione e si maledisse per essersi presentata con la solita treccia, con un ridicolo fazzoletto in testa, infagottata per il freddo e rossa in viso.
Lui, con un sorriso ammaliante, l’aiutò a togliersi il cappotto ed il copricapo; con grande delicatezza, le prese le mani e le strofinò per riscaldargliele, le sciolse la treccia e lentamente le accarezzò i capelli. Poi, la cinse per la vita e l’attirò a sé e con fare deciso, la strinse forte abbracciandola e sussurrandole all’orecchio:<Ti aspettavo piccola, mi sei mancata tanto. Oggi son libero tutto il giorno e ho voluto aspettarti. Ti è piaciuta la sorpresa?>
La ragazza era senza parole, con la strana dolce sensazione che la pervadeva, ogni qual volta lui la toccava. Le gambe erano molli per l’emozione e riuscì solo a rispondere affermativamente col capo, lasciando che lui la stringesse e continuasse ad accarezzarla.
Era entrata nel solito stato di trance: lui aveva il tocco gentile e sapiente di  un balsamo sulle ferite; con le labbra le sfiorava ogni parte del viso, giocava coi suoi capelli, la stringeva spasmodicamente dicendole sottovoce  parole e frasi carezzevoli che la inebriavano.
Alessandra, impotente di fronte a quella marea di coccole, non riusciva né voleva scuotersi.
Ad un certo punto lui si staccò, la sollevò e la condusse verso la camera da letto.
Dopo aver sollevato le coperte, la fece sedere, mentre lei  lo guardava impaurita, ed in modo ancora più dolce le prese il viso con entrambe le mani , la guardò fisso negli occhi e le disse:< Ti fidi di me?>. Lei acconsentì con un cenno del capo: era ormai senza fiato e senza voce, completamente ammaliata.
Lui continuò a parlare in modo suadente e senza mai smettere di accarezzarle il viso , i capelli , le spalle. <Non aver paura di me, io ti voglio bene dal primo giorno che ti ho visto, piccola. Non ti farò del male, lasciati amare. Sei un fiore e voglio essere io a coglierti. Rilassati, pensa solo alle mie carezze ed al bene che ti voglio> La ragazza, frastornata, viveva un tumulto di emozioni: tutto ciò che lui le stava facendo , le piaceva, ma aveva terrore di quello che stava per avvenire, anche se, in realtà, non ne era al corrente, ma l’istinto le diceva che non era corretto che lei si trovasse sul letto dei padroni e con tale intimità.
Cercò di dire qualcosa timidamente, ma lui le appoggiò le labbra sulla bocca per la prima volta e la baciò con delicatezza e decisione, facendogliela aprire lentamente .
Poi continuò a baciarla ovunque, coccolandola con voce sussurrata e con le mani, senza darle il tempo di fare o dire qualsiasi cosa.
Guardandola negli occhi, le tolse il grosso maglione, lei si vergognò, ma lo lasciò fare,
poi  le sfilò gonna e scarpe .Alessandra era al colmo dell’imbarazzo: era la prima volta che si trovava svestita davanti ad estranei; inoltre si vergognava di far toccare a lui i suoi vestiti e la biancheria scadenti. La situazione e l’emozione intensa le provocavano un blocco tale che non riusciva a ribellarsi, respirava affannosamente,  il cuore le batteva all’impazzata, i sensi erano impazziti e non riusciva a connettere.
Stefano le sfilò la sottoveste e la maglia di lana, d’obbligo all’epoca,  e la lasciò in reggiseno e slip. Alessandra cercò goffamente di coprirsi con le mani, la vergogna la paralizzava, la bocca era secca. La distese delicatamente e si  sdraiò accanto a lei attirandola.  Iniziò ad accarezzarla nuovamente dovunque , come se sfiorasse la seta e continuava a dirle sottovoce mille parole rassicuranti<Piccola, piccola, sei il mio fiore. Mi fai impazzire. Sei bellissima, ti voglio, tesoro, dimmi che mi vuoi  anche tu>
La ragazza, pur lasciando che lui facesse tutto, gli disse quasi con le lacrime agli occhi :<Ho paura, ho tanta paura> Lui , intenerito, la strinse ancora più forte e le prese il volto tra le mani parlandole come si fa ai bambini <Guardami piccola, stai tranquilla, sarai mia, ma non dovrai mai temere niente. Non farò niente che tu non voglia. Lasciati andare, rilassati, non fare resistenza, appena sentirai dolore, me lo dirai ed io mi allontanerò. Ok cara>Lei non rispose e fece il solito cenno di assenso.
A quel punto Stefano, si sollevò in piedi,  lasciò cadere i suoi indumenti e tornò accanto a lei , ricoprendo entrambi con le coperte. Si posò sopra di lei e riprese con calma infinita e con la  delicatezza con la quale si tocca un neonato, ad accarezzarla lentamente, senza mai smettere di baciarla ovunque, muovendosi sopra di lei e facendole sentire l’erezione. La ragazza, bloccata dalla paura e da un dolce languore che la rendeva incapace di muoversi e ragionare, lasciava che le mani esperte di lui la esplorassero, la abbracciassero, la rassicurassero. Chiuse gli occhi cercando di dominare la paura ed il tremito e cercò di rilassarsi e  abbandonarsi alle deliziose sensazioni che arrivavano.
Lui non smetteva di sussurrarle  parole dolcissime, di baciarla, di accarezzarla, fino a che , in modo
rapido, le tolse gli slip e le allargò le gambe. Alessandra ebbe la sensazione di ciò che stava per capitare , ma era come ipnotizzata. Sentì  Stefano che entrava  lentamente dentro di lei, pian piano spingeva e spingeva ancora e ancora . Sentì un dolore terribile,  le scesero le lacrime e  urlò cercando di liberarsi, ma lui la stringeva e con la bocca sul viso le chiedeva perdono gentilmente e la ricopriva di tenerezza, asciugandole il pianto. Poi spinse sempre più forte, e mentre la ragazza sentiva un bruciore acuto, misto ad una sensazione di pienezza e di piacere strano, lui con un gemito prolungato, venne, stringendola fino ad impedirle quasi di respirare e gridando il suo nome. Si sdraiò accanto a lei .Alessandra, vide tanto sangue nelle lenzuola e, finalmente sfogò con  pianto accorato l’immensità degli avvenimenti di quel pomeriggio. Sentiva tanto dolore fisico e morale, si sentiva sporca, violata e incredula .
Stefano, immaginando quel che lei provava, la prese tra le braccia stringendola forte e cullandola come una bimba. La riempì di baci, tenerezza, carezze e parole dolci, le asciugò il  viso, le giurò il suo amore, tranquillizzandola fino a che lei pian piano non si rilassò e si accucciò sotto le sue braccia.
Lui non smise mai di confortarla e le disse che il suo amore risaliva alla prima volta che l’aveva vista; le giurò di aver combattuto per mesi, di averla evitata inutilmente, di aver cercato di trattenere la moglie a casa, nonostante il matrimonio in crisi, ma i  suoi sentimenti avevano preso il sopravvento.
Le prese il viso tra le mani, la guardò fissa negli occhi e aggiunse:< Non riesco a fare a meno di te, , ti amo in maniera esagerata e non ti farò mai del male. Se sono andato avanti è perché credo che anche tu mi voglia bene. Guardami piccola: cosa senti per me?>
Imbarazzatissima, ma sincera, lei rispose :<Le voglio molto bene>.Al colmo della tenerezza, lui la abbracciò fino a farle mancare il respiro e dopo una risatina, le impose di dargli del tu.
<Ormai siamo una cosa sola, mia piccola bambina>, continuò.
Lei, più rilassata, gli chiese coraggiosamente quale sarebbe stata la loro  vita da quel momento in poi , considerato che lei era solo la domestica di casa e lui il suo datore di lavoro ed in più era anche sposato e lei stessa aveva un ragazzo.
L’uomo, le spiegò che da tempo il rapporto con la moglie era quasi giunto al termine, lei voleva tornare a Milano,  voleva un figlio che non arrivava e dopo varie discussioni, era tornata nella loro casa in città. Le assicurò che le avrebbe fatto continuare la sua vita senza crearle problemi, con solo qualche cambiamento: avrebbe assunto un’altra domestica , per far si che lei si dedicasse esclusivamente agli studi , ma avrebbe comunque continuato a pagarla.
Alessandra, non credeva a quelle parole e sentì una grande vergogna, chiedendogli  come avrebbe fatto a spiegare la situazione alla zia  e a Gianni, al quale non voleva rinunciare.
Stefano, in modo calmo e paterno, le disse:<Continuerai a venire qua di pomeriggio, come hai sempre fatto; io farò gestire la casa da un’altra persona di mattina, tu dovrai solo studiare qua, aspettarmi ed amarmi. Quando vai via, puoi ancora frequentare Gianni, ma dovrai essere solo mia.
Queste son le condizioni .In cambio avrai da me tutto l’amore che cerchi e meriti. Ti renderò felice>
La ragazza , ascoltò con grande attenzione e confessò che quella situazione la sconvolgeva e non sapeva se sarebbe stata in grado di accettare i suoi soldi senza lavorare.
L’ ingenuità infantile di  Alessandra, il suo totale disinteresse, la sua profonda onestà, la purezza fisica e morale , lo conquistavano totalmente. Non aveva mai incontrato una donna così e non voleva farsela scappare , la voleva sua per sempre, ne avrebbe fatto una sua creazione.
Colpito, la strinse forte, mentre cresceva ancora il suo desiderio.
Improvvisamente le disse:<Amore mio, non andar via, resta a dormire  con me. Domani sono libero, stiamo assieme, ti prego>
Intanto continuava, sempre più appassionato, ad esplorarla con le mani, con la lingua , a stringere quel giovane corpo , con i capelli lunghissimi che l’avvolgevano.
La stringeva disperatamente e pian piano lei ricambiò l’abbraccio e si strinse a lui, che lentamente le entrò  dentro, con dolcezza infinita e le chiese :<Ti faccio male?> Lei  all’inizio aveva paura , ma vista l’estrema delicatezza  dell’uomo, lo strinse sempre più, cercando di gustare le sensazioni sconosciute che le arrivavano. La stretta di lui era spasmodica ma gentile, il suo ritmo divenne sempre più incalzante, le parole e la tenerezza con la quale la prendeva , la fecero precipitare in un turbinio strano che le diedero un piacere misto ancora a dolore. Lui fu abilissimo nel guidarla e farla fremere di desiderio e portarla ad assecondarne il ritmo e farla gioire nel momento in cui lui venne.
Il dopo fu ancora più dolce : Stefano la ricoprì di tenerezza , d’ amore e la ragazza, sopraffatta dagli avvenimenti , si assopì tra le sue braccia.
Da quella sera, la piccola Alessandra, diventata donna, cambiò vita.
Continuò apparentemente tutto come prima: i pomeriggi li trascorreva a studiare in casa di Stefano e quando lui tornava erano ore sublimi d’amore . Lei si affidava a lui come un bimbo alla sua mamma, lui non riusciva a farsi bastare la sua presenza.
Passarono mesi, continuava ancora a vedere Gianni all’insaputa di tutti, gli voleva molto bene e non si sarebbe separata da lui: era il simbolo della normalità, della giovinezza .
Continuava a tenere a bada i suoi ardori, limitandosi agli approcci, da sempre avuti con lui.
Si chiedeva spesso se era questo l’amore, la segretezza del rapporto appassionato che la legava a Stefano, o l’allegro legame con Gianni. O amava entrambi?
Quest’ultimo dopo l’esame di maturità, andò a studiare a Cagliari all’università e i loro incontri si limitarono a quando tornava per le vacanze. Le mancava molto, era come la sua vita si svuotasse periodicamente .
Nessuno si accorse della doppia vita che la ragazza viveva. Passarono anni e anche per lei,
arrivò il momento dell’esame finale. Aveva ormai 18 anni e lo superò col massimo dei voti, con grande gioia della sua famiglia e di Stefano, che per l’occasione, le regalò un bellissimo girocollo. Fu a quel punto che le comunicò le sue decisioni per le loro vite.
Lui aveva chiesto il trasferimento a Milano e lì avrebbe portato la ragazza; avrebbero vissuto assieme e lei si sarebbe iscritta all’università, in medicina: lui avrebbe provveduto a tutto.
La ragazza vedeva risolte le sue aspettative di vita, ma provava un grande dolore a lasciare la sua terra ed i suoi cari. Però era l’unica soluzione.
Disse a tutti, che il signor Stefano le aveva trovato lì un’occupazione che le avrebbe consentito di completare gli studi e mantenersi.
Quando si ritrovò sul ponte della nave, in viaggio verso il continente, guardava la sua terra, piangendo disperatamente. Per la Sardegna aveva sempre sentito sentimenti contrastanti di amore e odio. Amava la sua unicità, ma ne detestava la povertà materiale e di pensiero. Ed ora abbandonava per sempre le sue radici; forse si stava vendendo ad un uomo che l’avrebbe fatta realizzare , ma lo amava? Cos’era l’amore?
Stefano la strinse forte :capiva quel che lei provava e  non l’avrebbe mai lasciata sola.
A Milano l’attendeva un bellissimo appartamento vicino all’università e all’ospedale Niguarda, dove lui sarebbe stato primario. Per Alessandra era un sogno, più di quanto avrebbe desiderato . Lui fece in modo che lei dovesse solo  dedicarsi agli studi, mentre la sua carriera raggiungeva i massimi vertici.
Lei si laureò senza sforzi e col massimo dei voti in medicina e subito frequentò il corso di specializzazione in cardiologia, mentre lavorava nello stesso ospedale di lui, che le aveva dato benessere e tanto amore.  Ogni tanto, per le feste tornava in Sardegna, dove veniva trattata con una sorta di riverenza: quella ragazza bellissima, sicura di sé, elegante e curata , non aveva più niente dell’impacciata bambina ribelle e ambiziosa che era stata anni prima.
In uno dei suoi ultimi viaggi, ritrovò Gianni, col quale era sempre in contatto epistolare.
Entrambi non credevano ai loro occhi: lui era un affascinante trentenne laureato e molto curato nell’aspetto, lavorava in banca e aveva la macchina; lei una donna splendida e con le abitudini cittadine. Dopo tante ore trascorse insieme a raccontarsi, andarono a cena, guardandosi negli occhi e ritrovando l’antica magia, che non s’era mai interrotta.
Dopo, fu una cosa naturale, far l’amore, entrambi erano cresciuti ed erano diversi : solo desiderio spontaneo, senza forzature.
Si amarono tante e tante volte, fino a che non giunse l’ora della partenza di lei. Si lasciarono con dolore: lei non gli aveva detto della sua vita con Stefano e lui le promise che presto l’avrebbe raggiunta a Milano.
Tutto tornò nella norma, ma un giorno Alessandra ricevette da lui una telefonata, nella quale le diceva con entusiasmo, che aveva avuto il trasferimento nella sede milanese e a breve, sarebbero potuti stare assieme.
La ragazza, dopo la sorpresa iniziale, accolse la  notizia con gioia: Gianni rappresentava la sua terra, le sue origini, la sua gioventù .Le mancava tantissimo e pian piano si sarebbe staccata da Stefano :in fondo lo aveva amato per anni , è vero che lui aveva realizzato tutti i suoi sogni, ma lei gli aveva regalato la giovinezza ed una dedizione totale.
Iniziò un’altra fase della sua vita : Gianni andò a vivere a Milano ed in pochi anni divenne il direttore della sua banca .Lei lo raggiungeva nella sua casa appena possibile e ogni qual volta lui cercava di proporle una vita in comune o un matrimonio, lei aveva sempre l’alibi del lavoro e della carriera che la assorbivano totalmente e della distanza notevole tra i posti di lavoro di entrambi.

Questa era comunque una verità: Alessandra, da tempo specializzata, era ormai un’affermata e stimata cardiologa, spesso in viaggio per convegni all’estero e sempre dedita agli studi . Era stata anche intervistata per il nuovo mezzo di comunicazione: la televisione .
La sua carriera era in fase ascendente , Stefano era il suo primario, ma lei giovane, bella e preparata, cominciava a soppiantarlo agli occhi di tutti e nel cuore di tutti. Lo amava ancora molto, gli doveva tutto, ma non aveva più rimorsi nei suoi confronti , sentiva di aver dato tanto anche lei, ma amando anche Gianni, non si sentiva di lasciare l’uno o l’altro.
Riusciva, anche se a fatica, a condurre una doppia vita, come aveva fatto da ragazza e a conciliare tutti i suoi numerosi impegni.
Gli anni passavano e spesso si ritrovava a chiedersi per quanto tempo avrebbe potuto vivere così; inoltre il suo orologio biologico, non l’avrebbe aspettata in eterno, c’era posto nella sua vita per i figli? Per una famiglia regolare?
Fu, a metà degli anni 70, che il dottor Stefano Valentini, commise, nella direzione di un intervento a cuore aperto, un errore imperdonabile, che portò il paziente quasi alla morte.
Fu Alessandra che, con freddezza, mano ferma e autorevolezza, evitò il peggio, togliendogli i ferri di mano e completando il tutto.
Riuscì a salvare la situazione , mentre i colleghi assistevano sbigottiti e ammiravano il suo coraggio.
Dopo di che, Stefano fu costretto a dare le dimissioni: Alessandra, lo sostituì e divenne da quel momento, un primario eccellente, autorevole, rispettato, ed invidiato da tutti.
L’uomo , ormai in età avanzata , si ritrovò a lavorare privatamente , mentre la sua donna, la sua creazione, spiccava il volo.
Svolgeva il suo lavoro con professionalità e sicurezza : esigeva il massimo da tutti e la sua presenza, incuteva un certo timore. Era sempre impegnatissima e con poco tempo per le sua vita privata. Questo creò delle crepe nel rapporto con entrambi i suoi uomini, che l’avrebbero voluta più presente .Ma lei, pur amandoli, dava la precedenza alla carriera.
Per Stefano era iniziata una fase discendente: carriera e successo erano finiti, la vecchiaia era vicina, mentre la stella che aveva creato, brillava sempre più.
Anche per Gianni non era un buon momento: la donna per la quale aveva lasciato la sua terra ed i suoi affetti, la donna che inseguiva da sempre, era diventata un miraggio. Non c’era più spazio in  lei per la famiglia che lui desiderava, gli dedicava solo i ritagli della sua vita, che velocemente  se ne andava. Lei era ormai immersa in un vortice inarrestabile e pur amando molto entrambi, non aveva tempo per loro, che l’adoravano.
Girava il mondo per convegni , stage , incontri con gli studenti all’università e dirigeva il reparto in modo impeccabile. Fu, durante un congresso in Germania che conobbe Ezio, un collega suo coetaneo piemontese. I primi incontri furono caratterizzati da divergenze d’opinioni su un argomento che occupava le cronache del periodo: il trapianto di cuore, da poco sperimentato e non ancora del tutto sicuro. Non erano d’accordo sul tipo e la qualità del trattamento post operatorio, anti rigetto.
La discussione si protrasse animatamente e a lungo nella sala convegni e poi ciascuno si ritirò nell’hotel che li ospitava. All’ora di cena, mentre lei  mangiava ripassando i suoi appunti , Ezio raggiunse la sala e la vide subito .Si avvicinò e le chiese :<Posso sedermi con lei ?>
<Se non ha intenzione di continuare a parlare di terapie e contraddirmi ancora , si >
Lui continuò :< Son qui per una tregua. Voglio discutere con lei solo sulla cottura della bistecca che sta mangiando > Lei sorridendo per la battuta, gli disse di accomodarsi.
La serata continuò al piano bar e lei scoprì un uomo  raffinato e affascinante, ma
freddo, polemico e presuntuoso. In ogni argomento doveva avere l’ultima parola, faceva ricorso ai suoi studi ed alle sue conoscenze altolocate  e poco lo impressionava la fulminante carriera di lei, in un periodo in cui, le donne trovavano ancora le porte chiuse.
Aveva moglie e 2 figli e ne parlava come di un piccolo dettaglio.
Tuttavia, per Alessandra, era intrigante, confrontarsi con uno che sapeva controbatterla, che non pendeva dalle sue labbra.
Si rividero ancora a Milano per motivi professionali , ma entrambi sentivano l’elettricità che ne caratterizzava la vicinanza. C’era un’attrazione particolare tra loro, oltre al lavoro, che li univa e li separava per la diversità di metodo. Dopo alcuni incontri-scontri, finirono per andare a letto assieme, senza parlare d’amore e senza nessuna promessa da ambo le parti. Lui non parlò mai di lasciare la famiglia, lei menzionò in modo superficiale, un rapporto di anni che era ormai in crisi.
Tra un incontro e l’altro, passavano mesi, considerati gli impegni di entrambi e la distanza.
Si sentivano spesso al telefono e nessuno dei due faceva cenno alla propria vita privata o ad un futuro insieme.
Per Alessandra era un rapporto molto diverso da quelli precedenti: si rendeva conto di aver a che fare con un uomo che a differenza degli altri, non la assecondava, non la inseguiva, non metteva la vita ai suoi piedi, non faceva che contrastarla .
Eppure, aveva un fascino particolare e gli incontri, la riempivano di gioia e apprensione. Era un amore maturo, che niente aveva dei sentimenti freschi e romantici della sua gioventù.
Da Ezio non s’ aspettava niente, eppure lo aspettava.
La sua vita scorreva in un’apparente normalità: divideva una splendida villa con Stefano, che, viveva al suo fianco come un’ombra; l’enorme differenza d’età, era evidentissima  , la vitalità anche, la stella che aveva creato, ora brillava da sola e lui si trascinava, malinconicamente e col sentore della fine della vita.

Gianni, viveva da solo e viveva per gli incontri che riusciva ad avere con lei, strappandola ai suoi molteplici impegni. Non era mai riuscito ad innamorarsi di nessun’altra, aveva spesso avuto la tentazione di tornarsene nella sua amata Sardegna, ma il pensiero di non vederla più, lo faceva morire.
Entrambi erano vissuti per lei, le avevano dedicato la vita, ma lei era entrata in un vortice inarrestabile, che li aveva relegati, ad un ruolo marginale.
Eppure li amava tanto, non riusciva a separarsi da loro, non concepiva un’esistenza senza questi uomini che, per una vita intera, l’avevano adorata, annullandosi per lei, pur non sapendo dell’esistenza , l’uno, dell’altro.
Ma credeva anche di amare Ezio, in modo diverso dagli altri, ma lo amava comunque, forse per la sua diversità : lui non metteva condizioni al loro rapporto, non pretendeva niente di più di ciò che avevano, non dava più di tanto . Però nei momenti di intimità, le diceva di amarla molto.
Questa, mentre l’età avanzava, era la trappola in cui s’era infilata.
Passarono gli anni, la sua carriera, non subiva scosse, aveva raggiunto i massimi vertici per una donna. Continuava a dividersi tra gli uomini della sua vita, anche se materialmente, il tempo che dedicava loro, era poco, ma nel suo cuore c’era una grande nicchia per ciascuno di essi.
I suoi numerosi impegni, le impedivano di tornare spesso in Sardegna , dove i genitori e la zia, che tanto avevano gioito orgogliosamente, per quella figlia che s’era fatta strada da sola , erano morti da tempo. Restavano i due fratelli, che vivevano la loro semplice vita a Macomer e pensavano che quella sorella cos importante, così diversa da loro, avesse dedicato la vita al lavoro e per questo, non avesse famiglia.
Mossi da una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, quando la vedevano o si sentivano telefonicamente, non osavano far domande in proposito, per loro , lei era il “famoso primario.”
Quando ormai aveva superato da un bel  pezzo i 50 anni, Stefano morì. Sia lui che lei avevano riparato cuori per una vita, ma alla fine, non riuscirono, né materialmente, né psicologicamente, a rimediare al suo, che da tempo funzionava male.
Tanta Milano bene, partecipò ai suoi funerali, la stampa locale se ne occupò abbondantemente e la notizia destò molto clamore.
Fu così che Gianni , vide la fotografia di lei in prima fila, con tutte le informazioni del caso, dove veniva definita, la fedele compagna da anni.
Fu un colpo terribile che il destino gli stava infliggendo: ogni pezzo ora trovava la giusta collocazione nel mosaico. Gli tornò alla memoria il nome dei principali di Alessandra , giovinetta a Nuoro, la strana iscrizione all’università di Milano, la carriera brillante, il suo rifiuto a formare una famiglia con lui, gli scarsi incontri e tutti quegli anni passati ad aspettarla e amarla.
Si sentiva avvolto in una cappa disperata , annullato, col non sapere cosa fare della propria vita.
Anche Alessandra soffriva tantissimo: gli veniva a mancare il riferimento che Stefano era stato, l’aveva amata spasmodicamente, era stato per lei un padre, un compagno di vita, una guida e la sua ombra. Aveva anche messo fine alla sua carriera, cedendola a lei.
Era come mutilata, depauperata, scippata di ciò che l’aveva portata ad essere ciò che era.
La grande casa era deserta, quando lei tornava, più nessuno l’accoglieva a braccia aperte, più nessuno le consigliava le strategie del mondo medico, più nessuno la stringeva la notte.
Lo amava ancora tanto e come quando era in vita, lo amava e provava dolore, perché lui non era stato l’unico. Dopo alcuni giorni di grande depressione, telefonò a Gianni, meravigliandosi della sua freddezza e chiese di incontrarlo.
Andò a casa sua e la prima cosa che notò fu la fila delle valige all’ingresso.
Chiese spiegazioni e si sentì rispondere che andava via per sempre.
Fu una pugnalata terribile, la seconda in poco tempo.
Dopo una lunga discussione, lui le disse tutto, affermando che era finita.
Piansero entrambi, lei lo abbracciò e continuò a ripetere che l’aveva sempre amato, non aveva tradito nessuno dei due , Stefano c’era sempre stato, ma anche lui. Nel suo cuore li aveva amati entrambi e li avrebbe amati sempre.
Gianni, tra le lacrime, la allontanò dicendo che sarebbe tornato in Sardegna, per mettere insieme i cocci della sua vita. Alessandra, pianse tanto, lo pregò di restare, gli confessò il suo amore, come mai aveva fatto. Ma lui fu irremovibile. Lei  credette di morire dalla disperazione: in poco tempo perdeva i due  punti fermi della propria vita.
Capì che doveva dar fondo a tutte le sue energie, fisiche e mentali, per poter uscire indenne dalla situazione.
Furono anni tristi e spenti , dove solo il lavoro le dava soddisfazione. …ma anche il pensiero che c’era Ezio nella sua vita .
Gli incontri con lui però, nonostante ora avesse più tempo a disposizione, si fecero ancora meno frequenti , lui, come lei, inseguiva il successo e andava spesso all’estero, gli affetti erano l’ultimo gradino della sua vita.
Quando stavano assieme , era amore, ma amore monco, perché dopo la passione ed il sentimento che la caratterizzava, ciascuno tornava alla propria vita, senza promesse per il futuro .
Lui tornava dalla sua famiglia , lei al pensiero rivolto agli uomini che non c’erano più e ad aspettare con ansia il prossimo incontro con lui.
Una sera , mentre sola a casa guardava la televisione , lui le telefonò, dicendole che dovevano parlare. Lei annusò segnali di pericolo. Ezio le disse che era giunta l’ora di porre fine alla loro storia.<Sono troppi anni che va avanti. Ma ora è successa una cosa importante : ho accettato un incarico di primario negli Stati Uniti .E’ un’occasione che non si presenterà mai più, tu lo sai. Parto tra qualche settimana e porto con me la mia famiglia> aggiunse.
<Sappi che mi mancherai moltissimo, ti ho amata e ti amo tanto , ma le nostre strade devono dividersi .La mia vita continua lì e con i miei>
Lei ascoltò senza interromperlo e col cuore in gola e solo alla fine gli disse :< Tu hai vissuto per la carriera come me ed ora ti riprendi la famiglia. Io , la mia l’ho persa. Ti auguro tutto ciò che desideri>
Ezio cercò di inserirsi  e la sua voce s’incrinò, cedette alla commozione per la prima volta da quando la conosceva. Il rapporto durava ormai da tanti anni, ora si rendeva conto di cosa aveva significato Alessandra per lui, perderla era come perdere le mani e non poter più fare il chirurgo. Lei era stata, nonostante quel rapporto a distanza, la donna giusta per lui, che il destino gli aveva messo troppo tardi, sulla strada.
Alessandra, la donna con un quoziente intellettivo superiore; la donna con la quale poteva avere un confronto sul suo lavoro e su tutto; la donna ambiziosa e attaccata alla carriera proprio come lui; la donna che non gli dava mai ragione e lo contrastava su tutto; la donna bellissima,  appassionata e dolce a letto; la donna che non aveva mai chiesto niente e accettava le briciole della sua vita; la donna che amava da tanto tempo e che ora doveva abbandonare.
Lei cercò di mantenere il sangue freddo e lasciarlo andare.
Provava gli stessi sentimenti contrastanti di lui .La relazione di anni con Ezio, così diversa dalle altre, ma non per questo, meno importante , le aveva riempito la vita, con i loro diverbi, con i pochi incontri , strappati alle loro fulminanti carriere, ai loro successi travolgenti, con gli sprazzi d’intimità che sapevano ritagliarsi nel noioso mondo della medicina, con le risate , che riuscivano a farsi in albergo, alla fine di un congresso, dove l’uno cercava di primeggiare sull’altro.
Ed ora finiva, nel modo più imprevedibile.
Prima che le lacrime le impedissero di continuare, gli disse ancora una volta, che in nome dell’amore che avevano avuto, gli augurava tanta fortuna e felicità  e concluse con un :<Addio per sempre Ezio, non ti dimenticherò>
Alessandra iniziò l’ultimo capitolo della sua vita : si dedicò al lavoro con un impegno ancora maggiore, a volte si accontentava di dormire su un lettino in ospedale, pur di non tornare a casa e  star  sola coi propri pensieri. Il personale, cercava di fare il massimo per non incorrere nei suoi rimproveri. Per lei, tutto doveva essere impeccabile, tutto doveva funzionare alla perfezione.
Si rendeva conto che biasimavano la sua eccessiva severità, ma far funzionare tutto perfettamente, era una delle poche cose che le dava soddisfazione.
Partecipava raramente a congressi: avrebbero svegliato i suoi ricordi.
Tornò in Sardegna qualche volta in più e nonostante   la sua meravigliosa terra, il mare sconfinato, i terreni aspri e tristi, le dessero pace, non riusciva a far riposare la mente ed il cuore.
I fratelli, non potevano fare a meno di notare che, quella ancor bellissima donna, che incuteva loro timore, aveva lo sguardo spento e gli occhi non brillavano più.
Macomer, il suo paese natale, era tanto cambiato; non trovava più quelle sensazioni dell’infanzia, quando nel suo vecchio letto di lamiera, sognava una vita meravigliosa.
Ripercorse le strade di Nuoro, dove aveva vissuto parte della sua giovinezza, cercando nei viottoli, nella casa che era stata di Stefano, e che non esisteva più, il segno di un passato , che prepotentemente, tornava a galla, cercando una vita che non c’era più.
Non cercò mai di incontrare Gianni e non seppe più niente di lui.
Quando si trovava in Sardegna, il cuore, che lei curava negli altri, le faceva tanto male e le lacrime erano sempre pronte. Allora voleva tornare a Milano, scappare dalle sue radici che le avevano sempre fatto male. Quando rientrava a Milano, tra le sue cose, aveva una nostalgia furiosa della sua terra aspra come lei: rivoleva la sua povera infanzia, i suoi piccoli fratelli, vissuti sempre alla sua ombra, rivoleva il grande Stefano, che l’aveva portata a brillare come una stella; rivoleva Gianni, che l’aveva sempre rincorsa, stando tanti passi indietro da lei.
Rivoleva anche Ezio, l’amore della maturità,  che la contrastava, per poi rappacificarsi nei momenti di passione.
Ma tutto inizia e tutto finisce. Se lo ripeteva in continuazione, ma non le era di aiuto: non trovava pace.
Il passato era sempre alla ribalta, presente più che mai.
Aveva trascorso la sua vita, realizzando ciò che da bimba, aveva desiderato :era diventata un luminare nel suo campo, rispettata, invidiata e osannata da tutti .Aveva raggiunto il benessere e la fama, aveva avuto molto di  più di ciò che si era  aspettata .Tutti i tasselli che da piccola preparava per comporre il puzzle, erano rientrati al loro posto: tutti meno uno.
Nei suoi sogni di bimba, non mancava mai il principe, che la amava immensamente e col quale avrebbe diviso la vita.
Dopo questi pensieri dolci e tristi, diceva a se’ stessa, che aveva avuto anche l’amore , tanto , disperato amore ed era stata molto felice.
Non c’era più nessuno al suo fianco, ma la sua esistenza era stata colma di quel sentimento che aveva sognato da piccola: era stata molto amata ed aveva amato in modo incredibile.
Le tornarono alla mente le parole del grande Gabriel Garcia Màrquez :SI PUO’ ESSERE INNAMORATI DI DIVERSE PERSONE PER VOLTA, E DI TUTTE CON LO STESSO DOLORE , SENZA TRADIRNE NESSUNA, IL CUORE HA PIU’ STANZE DI UN CASINO.
Mai pensiero le sembrò più appropriato. Li aveva amati tutti con la stessa enfasi, con lo stesso dolore, con la stessa passione. Eppure, mai, mentre stava con loro, aveva pensato di tradirli. No, non c’era stato alcun tradimento: nel suo cuore, c’era una nicchia speciale per ciascuno di loro.
Questa nicchia era ancora ben serrata dentro di lei: loro non c’erano più, ma il ricordo, l’intensità dei momenti trascorsi, la dolcezza e la sincerità che lei pensava di aver avuto, erano ancora tutti vivi  ed attuali.
Questa convinzione che si era fatta strada in lei, l’accompagnò negli anni a venire.
Non si pentì mai di aver avuto vari uomini contemporaneamente, per lei non era stato un peccato: li aveva amati tutti, senza togliere all’uno , per dare all’altro, ma assicurando ad essi la cosa più grande che da sempre accompagnava la sua esistenza: l’amore.
Ma allora perché quel malessere che la turbava e le faceva venire la tachicardia?
Forse avrebbe dovuto rivolgersi a qualche collega, che si prendesse cura del suo cuore, visto che nessun medico, riesce a curare sé stesso.
Gli anni se ne andavano, il suo corpo, energico e statuario cambiava,  e l’età si faceva sentire e notare: era sempre una donna molto bella, ma con i segni vistosi del tempo.
Andò a lavorare fino a che, non era più possibile per legge, stare in servizio.
Non riusciva ad immaginare una vita in casa, la parola  “casalinga”, la faceva ridere, attribuita a lei e sussultare.
Ma poi…..dovette fermarsi.
Ed oggi compiva 80 anni. La mente non si fermava mai: non aveva la fortuna di certi vecchi che non connettevano più.
Anche il cuore continuava a fare il suo dovere e la tormentava con la tristezza, la solitudine, il bisogno d’amore, che provava da bambina. Il sottile malessere di una vita, composto da  un mix di sentimenti, non l’abbandonava mai.
Vedere alla finestra il mondo che girava attorno a lei, essere circondati dal silenzio, dai giorni che scendevano in una scala sempre più buia, era opprimente da togliere il respiro.
Ma forse la responsabile di questo, pensava, era solo lei e ammise con sé stessa  che
TUTTI SIAMO CHIUSI IN UNA PRIGIONE. LA MIA ME LA SONO  COSTRUITA DA SOLA, MA NON PER QUESTO E’ PIU’ FACILE USCIRNE.
Chiuse la finestra, diede le spalle al mondo fuori e con fatica, andò a sedersi nella sua poltrona, cercando un fazzoletto per asciugarsi le lacrime.