Marzo, I

Io, indeiscente Sibilla, non mi do pace.
E gli occhi mi giacciono sotto le ciglia, la sclera mi è tessuta da fili rossi e frementi, disegnano i contorni dei nostri corpi serrati da quei nodi precari, i nostri,
che si intensificano, piacevoli e deboli, quelli tra le nostre mani, nelle nostre arterie, quelli per farci naufragare, si ma in pace;
quelli degli alberi che hanno braccia come le vene che ti riempiono, che mi incendiano; quelli del vento che continua a spingerci e tirarci.
Moire pazienti li disfano e slegano e arrotolano, lì nella mia pupilla, consapevole e vigile, enorme nel buio.
Le palpebre molli, ardenti, portano dentro un vecchio sapore,
ci muovo il dito a rarefarlo, lì dove si incastra il sale, lì dove ti vedo andare, fatto di quella carne dal sapore di mare e miele, ferro e vaniglia.
Come una drupa di mandorlo mi schiudevi, stringendomi l’anima fuori dal pericarpo
e il cuore nel petto si stizziva per la sua stessa debolezza.
Ho le cornee piene di quella anatomia irreprensibile,
dell’incontrastabile firma di Dio in quel congiungersi malinconico,
e tutta la bellezza del mondo mi fluiva dentro, come magma ustionante,
come quando dal balcone Venere appare timidamente per salutare il sole,
nel rame invernale
e tutto sa di neve, in quel singolare avvicinarsi e sfiorarsi paradossale,
di quando ci strofinavamo addosso come cumulonembi,
il male che ci facevamo faceva solo rumore, di quei temporali che ci facevano addormentare e ridere a crepapelle, perché noi facevamo ancora più fragore.


Marzo, II

La luna che torna già alla sua scura illibatezza, sulla via del ritorno, ti illuminava gli zigomi e la pelle iridescente,
che volevo prendere tutta
e averla tra le mani e le dita e mangiarla e berla,
che si incastra tra le unghie e le labbra e il tuo sapore sempre torna.
E lì in quei miei stessi occhi le polle di D’Annunzio
nelle quali sprofondo ogni volta che ci facciamo carne e verbo del nostro piacere,
natura funesta e sconsolata.
Mi guardi con quei tuoi occhi che mi disintegrano, divento mare, del loro stesso colore e li vedo anche al buio, quando mi baci il naso e cerchi di vedere nei miei il bene che mi fai.
E’ bello riempirsi e mentre mi stringi, la nostra pelle si sfrega e sento che mi ricostruisci da quella distruzione che mi sono sempre inflitta.
E tutto il rumore che c’era, era solo quel pioversi addosso estivo, nel pieno dell’inverno; fugace, veloce e lento.
Dentro tutto era un tripudio che Wagner avrebbe suonato,
un dionisiaco sdrucirsi, lacerarsi, un amorevole lancinarsi
e il cuore faticava a battere, inciampava, cadeva e correva più forte.
E inconsolabili, flebili, ci si smembra chirurgicamente, perché il rischio ci spaventa
e siamo come in Palestina e ci contendiamo l’abbandono.
Ridiamo alla nostra fine prolungata, ai nostri occhi fermi immobili, ai nostri abbracci forzati, alle nostre labbra da sfamare, a noi che ci sfamiamo delle nostre stesse labbra, ai nostri grandi pensieri e a tutti quei momenti di imbarazzata dolcezza.


Nemesi

E sfiorisci,
se non sbiadite, non lasci più orme.
L’autunno in me, impetuoso, non ti risparmia.
Abbiamo iniziato a finire ed era appena estate,
quando la nostra gracilità aveva rarefatto l’aria e la nostra precoce artrosi
che ci faceva tenere stretti, incastrati,
le falangi con le vertebre.
E avevamo novant’anni in due
e non eravamo mai pronti a morirci l’uno e l’altro.
Lento, cadi dal mio ippocampo,
in quella danza asettica, paralizzante
e io mi strazio della morte del tuo fiore,
quando mi restituisci in luttuose sferzate il ricordo sfinito dell’estate.
E tocco la terra fredda con i piedi
lì dove le radici aride li conficcano.
Ancora mi ricordi, tra tutto ciò che va a morire, chi sarei potuta essere.