Racconti
I SANDALI BIANCHI
Sono sempre stata pallida e magra. Esiste tuttavia una foto , scattata nel 1959, in cui appaio incredibilmente paffuta e rubiconda . Chissà per quale mistura di grazie divine a sette anni io ero cosi’ e chissà perchè non lo sono piu’ stata. Tramite quella foto posso ricordare volentieri a me stessa chi -forse- sono ancora, nonostante una ostinata e spontanea magrezza abbia tentato tutta la vita di pasticciare i miei contorni emotivi. A parte le rughe e qualche capello ingrigito poche cose della mia armatura sembrerebbero mutate e ne dovrei essere contenta . Eppure, negli ultimi mesi, mi manca quel po di grasso di cui mi servivo per espandermi e con cui coraggiosamente occupavo un posto nella vita. Mi sorprendo a dubitare fortemente di tante cose, avverto di non conoscermi a sufficienza. In quel periodo, pero’, quello dei sette anni per intendersi, sapevo benissimo cosa fare per sentirmi bene e mi muovevo dentro la vita con leggerezza e coraggio senza che nessuno me lo avesse insegnato.
Son tornata a guardare quella foto con maniacale attenzione; di tutta una serie di particolari i sandali bianchi continuano ad esserne l’anima . Robusti e dalla punta arrotondata, manufatto della famosa ditta “Vigano’” gioiello tra altre magnfiche lavorazioni in pelle esportate in Italia e nel mondo . Fedeli e intraprendenti, collaborarono alla mia affermazione durante una estate trascorsa a Tagiura.
Tagiura e’ una delle oasi che contorna Tripoli di Libia ma non e’ del fresco delle sue palme a cui voglio accennare ne’ ai pozzi artesiani ne alla luce smerigliata che contraddistingue la sua bellezza. La casa che abitavo per qualche giorno d ‘estate era lontana da tutto questo; semplice bassa e bianca, architettonicamente sterile, sembrava era stata catapultata per errore in mezzo ad una landa desolata ed accecante. Uniche corolle verdi erano quelle di tre gelsi. Rimanevano lontane le sconfinate distese di eucalyptus, di mele cotogne, di mele annurche, corbezzoli e carrubi anche se di tanto in tanto le loro essenze bussavano inaspettatamente alle percezioni ; si alternavano con grande saggezza servendosi di un orario o di un preciso vento per presentarsi ed espandersi. In questo clima di spensieratezza mista ad euforia eleggevo iI dopopranzo per sentirmi superlativa .
Data l ‘alta temperatura africana era obbligo sia per i miei genitori che per noi figli andare a riposare . A quel tempo ero la quinta, la più piccola. Aspettavo che fossero tutti preda del sonno e durante quell’attesa cosi’ speciale fatta di piccoli rumori e di grandi sogni puntavo con lo sguardo i miei sandali bianchi investendoli di una complicità muta e serena. Materialmente affidavo a loro quella stessa promessa che più intimamente affidavo alla mia smania di scoprire il mistero e divenivamo un tutt’uno, un corpo che da li a poco si sarebbe mosso per un viaggio segreto e che li, in quella stessa stanza sarebbe tornato per serbare atmosfere da non rivelare. Loro bianchi e io ambrata di sole ma la robustezza e il coraggio ci avrebbero unito più che mai.
Quando era il momento giusto li calzavo e mi allontanavo sia dal letto che dalla mia bambola . Con rigorosa circospezione facevo del tutto per non svegliare la sorella con cui condividevo la stanza e una volta nel soggiorno iniziavo un valzer intorno al lunghissimo tavolo dove sette piatti ospitavano ancora profumati riccioli di bucce di mela. Alcuni erano aridi lunghi rossi e perfetti – opera di cesello di mio padre – altri piu’ soccosi ma frastagliati disordinati monchi : me li mangiavo tutti. Mai nessuno si interrogo’ sulla sparizione quotidiana delle bucce e questo mi permise di sentirmi assolutamente trasparente e libera di persistere in questa iniziativa.
Aprivo e richiudevo lentamente il portoncino di casa. Sorpassavo le sedie in paglia e le comode sdraio a fasce verdi messe nel portico ‘ per promettenti momenti di riposo . Loro non erano fatte per me perchè io , a quel tempo, ero fatta per le perlustrazioni esterne.
Nonostante la devastante calura me ne andavo bighellonando nei paraggi. A petto nudo, dentro un paio di mutande bianco candido con cui mia madre mi aveva ingenuamente consegnato al sonnellino pomeridiano, attraversavo la luce sbaragliante delle dune circostanti.
Le fasce dei sandali in cuoio non impedivano alla sabbia bollente di entrare ed uscire velocemente dai miei passi ; sapevano capire fino a quando volevo esserne massaggiata, contagiata, plasmata, inzuccherata cosi come sapevano intuire quando porre limite alla invadenza dei granelli. La loro robusta suola allora si arrestava , mi sosteneva fisicamente e moralmente e mi isolava dalla incandescenza . Non era possibile accovacciarsi ne’ sedersi, il calore era padrone di ogni cosa e io non avevo nulla per proteggermi ne’ per organizzare una seduta. Rimanevo immobile qualche istante e poi i sandali si rimettevano in cammino perchè avevano imparato che non volevo conoscere arrendevolezza nell ‘attraversamento delle dune . Per renderle cosi’ speciali i secoli e il vento avevano lavorato alacramente su distese sconfinate di rocce e mio padre mi aveva spiegato che erano le più antiche ad essere divenute sabbia color salmone. Andavo avanti. I sandali mi assecondavano nella ricerca di qualcosa che non avevo ancora trovato ma di cui qualche pastore berbero raccontava: sotto quelle sabbie dorate o salmonate si nascondeva un tesoro antichissimo . Non era escluso che io, con quel bastoncino che facevo ora roteare nell’aria ora affondare nelle dune, non potessi captarlo. Sarebbe bastato un colpo di fortuna oppure una potente intuizione primitiva e io mi sarei ritrovata contornata di luccicanti monili e coppe d’oro nascoste secoli addietro dagli uomini di un ‘antico corsaro , Murad Aghà, liberato dalla schiavitu’ e riuscito a divenire addirittura visir di Tagiura. Riflessi del sole sulla sabbia mi illudevano e stimolavano e io correvo incapsulata dentro folti riccioli chiari sinchè le forze me lo consentivano.
Davo per scontato che in quei momenti nessuno al mondo mi stesse cercando e che persino i miei genitori giacessero prigionieri del sonno, del calore, del ronzio ossessionante delle mosche allontanate dalle ventole di un fiacco apparecchio che penzolava dal soffitto. In effetti in quelle ore solo tre grosse lastre di ghiaccio, poste nella vasca da bagno con il compito di mantenere fresche innumerevoli bottiglie di acqua e di sidro si mantenevano attive: imperlavano tutto dello sfarfallio di evanescenti goccioline e irradiavano frescura all’intero ambiente. Era li davanti che sostavo qualche minuto al rientro dalle mie passeggiate. Sciacquati i piedi, puliti i coraggiosi sandali, bevevo selvaggiamente per sedare la spossatezza . Rincalzata per bene la mia mutandina bianca mi affidavo finalmente a quel riposo ristoratore da cui mi sarei dovuta far curare un’ora prima. Mio padre e mia madre non erano visibili nel loro riposo perche’ al riparo di una stanza mentre nel salotto i tre fratelli si mostravano come moschettieri addormentati ma sempre in guardia ; un po accigliati serbavano stretta nella mano la paletta per uccidere le mosche . Invadevano le loro brandine con una buffa scompostezza delle braccia e delle gambe, sicuramente per evitare al corpo eccessivi contatti con le lenzuola. Invece nella camera da letto mia sorella maggiore era nella medesima posizione in cui l’avevo lasciata, quasi sorridente, con le mani raccolte sotto al suo capo bruno.
Ai vetri la carta moschicida conferiva alla luce una sfumatura azzurrognola rilassante. Allineavo perfettamente i miei sandali puliti a fianco del letto – a portata di sguardo – e dopo qualche secondo la pesantezza degli occhi aveva la meglio e riusciva a separarci. Non rimaneva che un’ora al momento in cui mio padre ci avrebbe svegliati con l’invito ad entrare nel grande vascone melmoso all’ombra dei gelsi per un lungo e divertente bagno.
Sino a quel momento il profumo delle mele cotogne poste sugli armadi a terminare la maturazione mi regalava il sopore necessario per agganciarmi ad altre armonie e grandezze .
IL SUONO DEL MIO NOME
L’essermi trasferita a Latina comportava il dover ricominciare la vita da capo. Ero convinta che la casa potesse divenire il nuovo veliero della mia anima. Scelsi di affidare diverse cure all’arredamento, agli oggetti e ai colori dei tessuti. Aspettai di raccoglierne i frutti ma per lungo tempo non accadde nulla di tranquillizzante.
Il piccolo balcone della camera da letto , unico posto ove trovavo il sonno nelle mie notti estive, costituì ad un certo punto la prua di quel veliero: un rustico solanum la ricopriva generosamente di uno sciame di fiori celestiali timidi nei tramonti ma allegri dentro la luce diurna, il dondolo la colmava quasi totalmente con la sua imponenza e un ombrellone colorato, nel regalarle l’ombra, girava come una trottola gigante musicata dalla brezza marina. Sedevo li’ anche di giorno, quando avevo bisogno di guardare l’orizzonte, di decidere cose più o meno importanti, di comunicare alla mia volontà che c’era sempre e comunque da andare avanti. Nel vortice del nulla ambivo a ricondurmi alla scintilla che mi aveva generato ma per tanto tempo da me non riusci’ a nascere o a rinascere alcun fremito . Giacevo dimenticata a me stessa, incanalata soltanto dai ritmi obbligati degli impegni e della stanchezza. Avevo quaranta anni ma mi sentivo reduce da vite che si confondevano , da giorni che si sovraffollavano, da fervori religiosi vissuti in una Africa ormai perduta. Non riuscivo a pensare chiaramente a Dio perchè continuavo a frastornarmi di domande sulle cose. Sapevo di esistere per qualche motivo preciso ma mi arrestavo a quella supposizione senza procedere oltre, intravedendo solo un gran vuoto.
Trasformai la cucina nella poppa del veliero. Due ampie poltrone in vimini guarnite di cuscini variopinti arredavano l’angolo dove speravo -prima o poi- di rifugiarmi a raccontare episodi della mia vita passata o ad ascoltare esperienze altrui gestendo gli odori e le cotture dei cibi sul fuoco. Inventai ricette di pietanze cucinate in abbondanza solo per me stessa e mi affacciai alla finestra che dava sul cortile interno sorseggiando aperitivi improvvisati. Non accadde ancora nulla .
Il resto della casa rimase a lungo il corpo centrale del veliero. Futuro e passato erano gestibili, affidati uno al vento e ai fiori, l’altro agli aromi delle ricette tramandate dalle nonne. Salotto deserto e camere da letto bellissime, vuote, silenziose e buie costituivano il mio unico presente. Eppure avevo adoperato tutta la fantasia e con l’aiuto dei “tromp oeil” avevo trasformato le pareti delle camere in boschi accoglienti baciati da penombre magiche o in giganteschi rami in fiore . Dov’era il mio presente? Qual’era il mio presente? Non lo riconoscevo. Accendevo tutte le luci e vagavo in quell’area guardando le cose, i libri, le foto, i soprammobili, i posters. Mi erano estranei. Non avevo legami , ero libera e forse per questo morta a me stessa.
I viaggi che dovevo intraprendere per lavoro e in cui tanto confidavo mi permettevano di conoscere nuove persone ma i contatti rimanevano sempre irrigiditi sulla superficialità’.
Poi accadde l’inaspettato: un Dio libero’ i venti dalle caverne dove aveva avuto il potere di segregarli cosi’ a lungo e uno di quei venti, sacro o profano che fosse, venne sulla mia prua a far ruotare prepotentemente l’ombrellone fiorato. La mia anima salpo’ e prese il mare sospinto dall’allegria e dall’avventura. Un fenomeno bizzarro denominato ufficialmente “Guerra delle monetine”, andò ad interessare tutto il popolo dei pendolari a partire da Napoli sino a Pomezia, ove saliva l’ultima frotta di lavoratori verso Roma.
Il sindaco di quel tempo – unitamente al compartimento laziale delle Ferrovie dello Stato – aveva concertato un abbonamento ferroviario che con un sostanziale ritocco pecuniario includeva nel viaggio l’uso dei mezzi metropolitani . Il “Metrobus” scateno’ verosimilmente una serie di proteste perché molti dei pendolari che approdavano ai marciapiedi della stazione di Roma non avevano necessità di servirsi di ulteriori mezzi . Io stessa mi trovavo a subire ingiustificatamente il netto aumento dell’abbonamento ferroviario: la mia sede di lavoro, a soli pochi passi, costituiva l’occasione di una semplice passeggiata mattutina.
Nonostante fosse stata resa chiara l’assurdità della obbligatorietà’ a tale forma di abbonamento niente e nessuno si mosse per retrocedere dall’insana applicazione . In tutti noi pendolari si rafforzo’ la convinzione che la burocrazia e’ spesso la peggior nemica della razionalità’ e detiene purtroppo uno degli scettri più potenti della terra. Questa constatazione fu sufficiente per travolgere nella protesta anche coloro che a Roma, in realtà, facevano uso dei mezzi pubblici. A torto o a ragione il problema della Giustizia aveva affascinato e coinvolto tutti.
La “guerra delle monetine” consisteva in una rivolta vera e propria: non ci si muniva piu’ di abbonamento mensile e neanche di biglietto giornaliero, bensì di un sacchetto di monete da cinque e dieci lire. Al passaggio dello sventurato controllore si doveva procedere, lentamente, al conteggio dei soldini, operazione che prevedeva quattro minuti e che aiutava a spazientire chiunque.
Il numero degli APIN (associazione pendolari incazzati neri) saliva vertiginosamente di giorno in giorno; le rare multe verbalizzate venivano rimborsate dalla direzione della Associazione e tutto sembrava perfetto cosicchè dopo poco tempo il fenomeno era divenuto la leggenda di cui molti giornali e telegiornali locali parlavano.
Noi avevamo costituito un popolo allegro, scanzonato e allo stesso tempo combattivo. In realtà’ mai ho conosciuto o sentito parlare di una atmosfera che ha avuto il potere di una battaglia inverosimilmente semplice ma imponente e calcolata come quella. Vi partecipai solo per qualche mese ma fui spettatrice e protagonista di una enorme solidarietà’ e compattezza: gli associati dovevano rimanere raggruppati negli stessi compartimenti, tutti individuabili, tutti recriminabili perchè “tesserati” ma nessun controllore al mondo, neanche il più sveglio e incorruttibile, avrebbe potuto penalizzare più di qualche utente al giorno.
In quell’atmosfera nacquero simpatie, amori, amicizie, frequentazioni e la vita di molte persone cambio’ alla radice . Contro il nostro popolo, costituito da centinaia di individui, ben poco riuscirono a fare gli ispettori ferroviari, la Polfer e persino la Corte di Cassazione che non trovo’ la maniera di farci arrendere.
Il vento continuava ad essere impetuoso, a rendersi indomabile, a spazzare via solitudini e rammarichi e silenzi e paure. Proprio per questo anche il mio ombrellone ritrovo’ una morbida rotazione e il dondolo un semplice cigolio. Io presi a dormire tranquillamente nel mio letto.
Il fascino della legalità’ torno’ a corrompermi e lo seppi assaporare con mestizia. Il veliero era rimasto ormai impregnato degli odori forti raccolti durante la tempesta e ciò mi permise di risentirmi viva, di snocciolare vari ricordi acciambellata dentro una delle due poltrone in vimini della cucina, di ascoltare e comprendere altri cuori, di mettere in pratica le mie ricette inventate.
Ora che avevo conosciuto diverse persone il silenzio delle stanze fu sostituito dal chiasso e mi parve addirittura in qualche sera, di riassaporare il gusto del riserbo e della solitudine.
A distanza di anni ritengo che tutto questo fu possibile soprattutto perchè le mie orecchie avevano riudito il suono del mio nome. Sia per casa che al telefono “il nome” ricomparve restituendomi il ricordo ed il diritto di sentirmi inserita nella vita, concertata e organizzata dalle dinamiche di Dio.
IL CUORE DELLE COSE
Le cose abbandonate non rinunciano alla speranza di tornare a vivere. Mai sazie di una morte apparente, sostano immobili, pazienti e silenti dentro la loro inoperosità e solo di tanto in tanto inviano, a chi le sa guardare, mugugni di dolore.
Nella casa di Franco tutti gli oggetti vivevano uno stato di quiescenza, non totalmente arresi alla dimenticanza. Polverosi , ammuffiti , arrugginiti , ma non vinti.
Era stata la sua sofferenza ad averli resi invisibili .
Nel guardarmi attorno attentamente avevo posato gli occhi su quell’atmosfera. Per me era chiaro: tutto sostava nell’attesa di un risveglio.
Fu fissando la minuscola damina di un orologio che provai l’impulso incontrollabile di intervenire per la salvezza di quel mondo: nonostante il sorriso e gli abiti regali, stava immobile di fronte al suo cavaliere da piu’ di quindici anni. Era protetta da una campana di vetro ma condannata all’immobilità dal dolore di Franco, che non aveva piu’ permesso a quella casa di avere un cuore. Fermi gli orologi, fermo il tempo, ferma la voglia di ricominciare una qualsiasi cosa che assomigliasse all’ordine . E silente doveva rimanere anche il grande grammofono sopra al quale, un tempo, la damina aveva danzato freneticamente. A rendere impossibile il funzionamento della radio e del giradischi erano una moltitudine di piccole cose inutili e impolverate che come sentinelle erano state messe li’ a scoraggiare chiunque dall’impulso di sollevare un coperchio e girare una manopola. Un “toc” del coperchio contro il muro e un “tac” di una manopola bianca sarebbero stati capaci di ridare suoni e voci all’enorme salone all’americana del piano terra e questo Franco non lo voleva, non ancora. Per questo, nonostante la sua agiatezza economica, non aveva mai voluto assumere una donna per le pulizie della casa ma non si era potuto sottrarre agli interventi della sorella che una volta al mese partiva da Avellino per attutire i danni agli ingovernati ambienti.
Il mio stato di ospite non mi autorizzava ad agire ma provavo in grande impulso ad intervenire. Dal 1970 vivevano, impastati nella mia pelle, scaglie di incubi notturni: vestiti messi a mollo nel lavandino sempre in attesa di essere stesi, bikini ammuffiti appesi ai chiodi della cabina dello stabilimento balneare ” Lido” , stelle filanti scolorite reduci del carnevale con gli amici, mosse dalla brezza del porto non lontano verso gli angoli della grande terrazza . Tutte cose in attesa di un atto finale, di una conclusione, di una prosecuzione, di una rimozione, che non era stata piu’ possibile. Furono quegli incubi dunque a rendermi capace di agire, finalmente, su qualcosa di dimenticato ma a portata di fiato, di cuore, di mano. Incominciai a pulire quella grande casa come avessi recuperato la “corposità” della mia anima sprofondata anni prima nell’abisso dell’esodo libico e immaginai di restituire il “profilo” di un’anima a quell’uomo dalla bocca sorridente e dal cuore stracciato che fingeva di essere vivo solo per i figli che aveva ancora vicino.
Per quanta riguarda i ragazzi, i lavaggi e le spolverature non furono di vitale importanza, forse a volte risuonarono minacciosi per un equilibrio da loro faticosamente raggiunto. Erano abituati ad usare la prima rampa di scale per gli indumenti da stirare e la seconda per quelli da lavare e per loro andava bene il fluttuare tra il caos e l’improvvisazione, purche’ un buon e abbondante cibo fosse sempre acquistato cucinato e servito dal padre.
La fatica che avevo impiegato per varie settimane non provoco’ la stessa meraviglia che riusci’ a suscitare una pila stilo acquistata con pochi soldi: con quella, la damina dal vestito rosa riprese a fare un mezzo giro a destra e uno a sinistra, di pari passo col suo cavaliere imparruccato. I ragazzi stettero li’ a guardarli come si ammira una magia e guardarono me con altrettanto stupore infantile. Molto presto le mie dita provvidero al secondo incanto, e musiche di vecchi trentatré giri si srotolarono lunghe le scale che portavano – verso il basso e verso l’ alto – agli altri tre piani. Lentamente la casa, almeno emotivamente, ando’ ad assumere fattezze normali e divenne un posto dove alla domenica, quando c’ero anch’io, ci si svegliava dentro i suoni e dentro il chiasso dell’aspirapolvere, dove si faceva colazione seduti intorno al tavolo guardando in faccia gli umori e facendo qualcosa per migliorarli. Poi i ragazzi sparivano da qualche parte, il padre a dispetto dell’età si metteva a guardare i cartoni animati e io mi dedicavo al giardino e ai disastri che i due cani, mamma e figlia, operavano in vari angoli. Verso mezzogiorno Franco compariva tra le siepi, coglieva i succulenti limoni di una pianta che lambiva il primo piano, sfrondava l’arancio che con i rami piu’ bassi intralciava il nostro passaggio in cucina e mi enunciava sughi e pietanze della cui elaborazione era maestro ineguagliabile. Di tanto in tanto liberava rime napoletane. “Luna rossa” e “Catari’” erano i suoi cavalli di battaglia. Lo esortavo a cantare perché aveva una voce gradevole e corrotta nella maniera giusta dal suo dialetto napoletano, ma lui con una risatina interrompeva il canto e facendo una smorfia dentro i vapori dei carciofi arrostiti sul barbecue, diceva a se stesso, piu’ che a me, che non era piu’ tempo di cantare, ne’ di fare foto, ne’ di viaggiare ed elencava queste cose sempre nella stessa sequenza.
I cani, Lady e Mademoiselle, gli stavano sempre intorno e lui pensava regolarmente ai loro pasti ma non si inteneriva per nessuna altra questione che riguardava la loro vita: la cuccia in cemento , ad esempio, aveva un lato del tetto devastato dal tempo e percio’ non piu’ capace di riparale dalla pioggia. La cagna piu’ piccola, non sterilizzata, continuava a partorire cuccioli che le venivano tolti dopo qualche giorno. Era snella e perennemente in calore per cui la notte si prendeva la libertà’ di infilarsi tra le sbarre del cancello che delimitava il giardino per andare a sognare in qualche prato con chissà quale cane. Puntuale subentrava lo stato di gravidanza , la madre sapeva capire quand’era il momento del parto e si affrettava a scavare al di sotto della cuccia la buca per i piccoli .
C’era l’evento, poi l’allontanamento dei cuccioli… e la nuova fuga : un ciclo vizioso e perpetuo del quale nessuno si curava. Ero incredula per tanta indifferenza e a volte non vedevo l’ora di scappare nella mia tana, lontana da quella matassa di crudeltà’ e incongruenze. Padre affettuoso e premuroso , spropositatamente generoso, ospitale misterioso e divertente, ma con l’anima irrimediabilmente spenta: questo era il Franco che conoscevo e che una sera, forse prevedendolo un po’, in una lunga tavola piena di vettovaglie sporche, disertata dai ragazzi in preda alla febbre della tv, in mezzo ai profumi delle inanellate bucce d’arance e delle devastate foglie di carciofo arrosto, avvicino’ alla mia la sua sedia e senza darmi il tempo di domandare qualcosa, mi bacio’.
E io che ero abituata a guardare il cielo e a credere che si trattava del cielo, ad ammirare il mare credendo che si trattava del mare, pensai che quello che avevo appena ricevuto era stato realmente un bacio.
IL NIDO VUOTO
Avevo un anno quando Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi divenne il primo Re della Libia . E’ noto che quando arrivo’ a Tripoli alla testa delle truppe inglesi pronuncio’ la frase: – Se avessi visto prima tutto quel che gli Italiani hanno costruito in trent’anni, non li avrei mai combattuti!- Apprezzo’ ogni opera edilizia esistente e si adopero’ da subito per l’ulteriore modernizzazione del suo Paese ricevendo aiuti dagli Statunitensi e dai Britannici che vi installarono una base aerea. I buoni rapporti intrattenuti con questi popoli anche dopo la crisi di Suez deluse le aspettative dei nazionalisti arabi e il malcontento prese un vero sopravvento dopo undici anni, con la guerra dei sei giorni . Tuttavia ancora una volta questo Re si astenne dal paranabismo e piuttosto suggeri’ alla comunità ebraica di lasciare la Libia fin tanto che poteva i garantirne l ‘incolumità’ . Nonostante cio’ e nonostante la guerra lampo si fosse svolta in altri paesi Arabi, accaddero varie sommosse popolari e veri e propri pogrom contro gli Ebrei di Tripoli . Alcune famiglie si misero al sicuro fuggendo nelle maniere piu’ dolorose e rocambolesche , altre subirono l’esilio ufficiale ; tutte, comunque, dovettero abbandonare i loro beni e sparire. Noi Italiani ricevevamo notizie frammentarie – a volte spaventose – sulle famiglie amiche con cui avevamo condiviso la vita. Da un momento all’altro erano scomparse dal nostro cospetto lasciando vuote tante case e tante strade e in particolare Shara Istanbul – dove abitavo – era diventata silenziosa e cupa: dalle finestre non fuggivano piu’ musiche allegre e festose, non richiami ed echi di voci che si inseguivano, non lamenti di prefiche . A dominare l’atmosfera era rimasta una grande villa con diverse terrazze abitata da Arabi che si stendevano sulle stuoie per dormire , sposando lunghi e possenti silenzi; rimanevano del tutto indifferenti persino all’oppressivo abbaiare dei loro cani sulla terrazza superiore. Di fronte casa mia, sita al numero 1, era la palazzina del Sindacato con tutti i pacati andirivieni degli Arabi che al riparo dei barracani, seduti in terra, aspettavano l’apertura dei cancelli bollendo il the’ con le noccioline abbrustolite. Ogni comunità’ continuava a contraddistinguersi con i suoi suoni e le sue usanze e anche noi Italiani rimanevamo ammaestrati dai ritmi che ci scandivano la vita e dal perpetuarsi del rintocco delle campane . Mi sono resa conto diverse volte che ho ricevuto una grazia grande dalla vita: ho potuto odorare differenti essenze divine in un cosi’ piccolo spazio, senza andare raminga per il mondo e soprattutto rimanendo convinta che fosse naturale respirare all’unisono differenti sacralita’. Dopo quegli eventi storici pero’ gli oleandri gialli su entrambi i lati della nostra strada potevano fare festa e ombra solo allo sgomento e alla incredulità’. Spiavo da dietro le persiane quelle piante la cui incubazione dei fiori avevo imparato a sentire sul corpo e spiavo i marciapiedi di cui in tanti anni avevo contato ogni piastrella sana o corrosa. In quei passaggi avanti e indietro, dapprima all’interno di una carrozzina guidata da mia madre, poi alla guida della carrozzina della mia ultima sorella e ancora dopo sospingendo la carrozzina dei figli di mio fratello , la vita si era srotolata felicemente. In shara Istanbul avevo corso col mio violino in mano e in shara Istanbul avevano sostato gli amici nell’attesa di proseguire insieme verso la scuola, le feste, il mare, il cinema, la Cattedrale. La strada mi aveva visto mesta, felice, euforica, triste, timida ma mai spaventata come in quei giorni che seguirono alla guerra lampo dei sei giorni tra Arabi e Israeliani. L’antica comunità’ ebraica presente da oltre 400 anni a Tripoli fu di fatto cancellata in pochissimo tempo e ce ne dovemmo persuadere tutti, sia pure con dolore. Non era una emozione facile da gestire anche per la repentinità’ che aveva accompagnato la sparizione di ogni volto della comunità ebraica a noi amico. Pensammo a loro ogni giorno e ci comunicavamo notizie presunte o reali con una apprensione che pian piano si ando’ allentando dentro il sapore delle nostre lunghe vacanze estive in Italia o all’estero. Al nostro ritorno percepimmo che nonostante fosse divenuta claudicante di una potenza morale ed economica con la quale era andata sempre di pari passo, la Libia continuava a prosperare soprattutto grazie ai ricchi giacimenti di petrolio e alle risorse che tante altre comunità’ avevano investito in quelle terre. Il problema ebraico rimase sempre nei nostri cuori ma la giovane età’ ci permise ed indusse a ricercare la distrazione tra le strade di Tripoli, tacendo sui lutti emotivi che avevamo vissuto. Confidavamo nell’amato Re Idris per ritrovare un equilibrio e la pace ma egli comincio’ purtroppo ad accusare i primi problemi di salute. A quell’epoca avevo solo sedici anni e l’amore, dopo lo sgomento, era tornato ad assorbire ogni mio interesse.
Vivevo a Tripoli dalla nascita ma fui in grado di intravederne la bellezza sotto gli albori del 1968, grazie a Giuseppe, un ragazzo di un anno piu’ grande . Una fessura del mistero si apri’ e richiuse dopo avere incapsulato le nostre vite una dentro l’altra. Era un pomeriggio ventoso di febbraio, si svolgeva una festa a casa di amici e non erano avvenute le presentazioni; Giuseppe era ancora sull’uscio di casa quando ci guardammo con profondita’ e qualche istante dopo stavamo ballando insieme già rapiti dalle note del disco “San Francisco” novità’ discografica appena giunta dalla citta’ di Londra grazie alla gentilezza di mia sorella che studiava in Inghilterra. “Be shure to wear some flowers in your head…” diceva la canzone.
Chi era Giuseppe? Non mi erano giunti che gli echi della sua bravura scolastica ma non avevo mai visto quegli occhi neri, quelle ciglia lunghe, quei capelli fini, quella bocca stretta che sapeva arricciarsi per sorridere con profondità’ e garbo. Perche’ deteneva già la chiave del mio essere? I fiori della canzone quel giorno si tramutarono d’improvviso in una ghirlanda che mi cingeva la testa, il cuore odorava come un fiore profumato, le mie braccia si abbarbicavano a lui. Non comprendemmo cosa fosse avvenuto dentro la scia luminosa di quella festa ma da quel momento fu chiaro che volevamo trascorrere vicini tutto il tempo libero che le stagioni ci consentivano. Mare- Città’ -Campagna erano solo dei sottofondi a cui adattarsi distrattamente con abiti e costumi da bagno; era la “nostra” atmosfera che ci completava cosi’ come ogni “nostro” allontanamento ci impoveriva. Strisciavamo lungo i corridoi di scuola appesantiti dalle emozioni piu’ che dai fardelli dei libri e saltavamo dentro il mare come se persistenti cavalloni si divertissero a sostenerci. Alle feste ci impegnavamo a ballare le novità’ discografiche di cui potevamo disporre . Mentre la primavera di Praga, la contestazione degli studenti e degli operai francesi e italiani scompaginavano i libri della storia, noi ragazzi di Tripoli dentro un innocuo shake facevamo maturare ed esplodere il nostro lirismo, la nostra contestazione verso i genitori, la voglia di essere e la capacità’ di attendere. Poco sapevamo di quel che avveniva negli animi dei ragazzi d’Italia e comunque la cosa importante per me rimaneva che Giuseppe fosse sempre li’ ad attendermi all’angolo , alla fine del doppio filare di oleandri gialli , sotto le finestre delle case rimaste disabitate dopo la fuga dei conoscenti e amici ebrei che avevano animato Shara Istanbul fino ad un anno prima.
Mentre procedevamo felici e soprattutto convinti che nessuna cosa al mondo ci avrebbe potuto separare, avvenne un concatenarsi incredibile di eventi legato ad un momentaneo allontanamento di Re Idris da Tripoli. Il padre di Giuseppe era l’oculista del Re e a Palazzo mal si accettava che in un momento politico delicato come quello fosse un Italiano a detenere questo incarico . La famiglia F. fu espulsa cosi’ dalla Libia con un pretesto e costretta al rientro immediato in l’Italia. Prima della partenza Giuseppe ed io facemmo tanti progetti: dopo qualche anno ci saremmo ritrovati, sposati e mai piu’ separati. In due giorni dovemmo arrenderci al distacco e ognuno di noi escogito’ una maniera per sopravvivere e ritrovare il proprio respiro. Io misi in atto l’unico sistema di cui fui capace : il pianto. Piansi con rabbia, con paura, con disperazione. Piansi, senza fermarmi mai, per una settimana esatta. Quando tornai a scuola, alla seconda liceo sezione “A” , i miei occhi risultavano tumefatti dall’incredulità’ e dal dolore : un’altra insopportabile “sparizione” si era verificata. Mi appoggiai al banco consegnata alla stanchezza ma la professoressa di matematica, che poco approvava gli sdilinquimenti d’amore, mi tartasso’ nel suo accento bolognese con una lunga interrogazione alla lavagna. Il professore di architettura si dimostro’ benevolo ed affettuoso, gli altri professori si mantennero neutrali ma comunque attenti al mio stato. Gli amici si adoperarono per distrarmi ma la vita senza Giuseppe non mi intricava piu’. Andavo avanti a camminare e a dormire come un essere che non si rende conto di cio’ che lo circonda. Mi mancavano le espansioni, gli abbracci, i rapimenti musicali, la precoce saggezza, il vagabondare per le strade odorando il mare e i percorsi mattutini verso il nostro Liceo. Per sentirmi meglio intensificai la già’ fitta corrispondenza . La posta viaggiava lentamente: Tripoli- Padova / Padova-Tripoli erano due rotte che esigevano molta pazienza. Due volte al giorno guadagnavo velocemente le scale per andare a esaminare la cassetta postale di casa: ora era quello e solo quello il luogo del mio appuntamento d’amore. Scansavo con energia le biciclette dei fratelli parcheggiate li’ davanti e tuffavo il cuore in quel piccolo spazio sacro che io ritenevo un nido. A volte delusa, a volte raggiante, riguadagnavo le scale verso casa certa che nel bene e nel male la cosa piu’ importante della giornata era già’ avvenuta.
La perseveranza degli amici nello starmi vicina aveva allentato la mia disperazione e qualche volta partecipavo al soccorso che ci dovevamo elargire a vicenda per le questioni amorose. Avvenne pero’ ancora qualcosa di apparentemente semplice: e’ difficile da credere ma fu un profumo a dettare il mio futuro . Era stata organizzata una festa al “Golf Club” uno dei circoli piu’ belli nella zona marina della città’ dove le rocce facevano da argine e da amplificatori a ribelli ciocche d’acqua. Si stava per inaugurare il Piper con la promessa di entusiasmanti pomeriggi danzanti che avrebbero armonizzato le comunita’ rimaste a Tripoli : l’ inglese , l’americana, la greca, la maltese, l’italiana e la libica. Andai li’ insieme al solito gruppo di amici con intenzioni del tutto pacifiche ma ad un certo punto arrivo’ Francesco . Francesco era l’ amico fraterno di Giuseppe; sino alla partenza avevano condiviso lo sport, la passione per la musica classica, per le corse automobilistiche. Avevano lo stesso modo pacato di sviscerare sia le cose che gli avvenimenti: due anime con le stesse affinità’ elettive . Lo ritenevo affidabile anche se poco simpatico.
Francesco non fece altro che invitarmi a ballare e di questo fui lusingata sino a quando girando e rigirando per la grande sala non mi strinse forte tra le sue braccia. Accosto’ la sua faccia alla mia e mi invase con l’odore prepotente del dopobarba. Non avrebbe avuto nessuna incidenza su di me se non si fosse trattato dello stesso dopobarba che usava Giuseppe.
L’organizzatore intanto avevo reso le luci piu’ soffuse, la musica melensa di “A Whiter shade of pale” comandava l’atmosfera e Francesco, ad occhi chiusi, mi bacio’ intensamente. Io -ubriaca- baciai l ’amato aroma di Giuseppe. Tutti mi guardarono increduli e scandalizzati. La voce si propago’ negli ambienti cittadini, rimbalzo’ sul mare e plano’ sino al nord Italia.
Dopo qualche giorno il mio ragazzo mi scrisse un’ ultima lettera, asserendo che in quel plateale tradimento non c’erano piu’ i presupposti per continuare la nostra storia d’amore e la nostra corrispondenza. Risposi che le lettere , sia pure settimanali, contenevano sensazioni preziose, medicamentose , di cui non avrei potuto privarmi . Elemosinai a lungo le sue righe, la sua grafia,il francobollo, le buste “air mail” ma lui ormai era immerso nelle battaglie e nel clima d’Italia, lontano dagli oleandri gialli, dalla mia strada, dalla mia casa, dalle scale e dalla cassetta postale. Da quel giorno la trovai sempre ed irrimediabilmente vuota. Invano guadagnai i gradini in salita e in discesa , animata da una speranza sempre piu’ flebile e pigra .
In realtà’ non mi concessi mai l’arresa; lo sguardo gettato alla rinfusa in direzione delle biciclette dei fratelli conservo’ un’aria cocente di vergogna e svilita nell’orgoglio anche se si maschero’ abilmente da gioventu’.
Poche cose nella vita sono riuscite ad avere lo stesso potere di tutte le “assenze” violente e repentine subite in quegli anni senza concedere al cuore il tempo necessario per farsene una ragione. Le case vuote, le strade vuote , i banchi vuoti occupati un tempo dai gemelli Nahum e da altri cari compagni Ebrei, cosi’ come la cassetta postale vuota si trasformarono emotivamente in tanti “nidi vuoti” e in me instillarono un lutto ed un silenzio rimasti sempre sfuggenti ed incolmabili .
In quanto a Francesco, dopo quel pomeriggio al Golf Club non mi parlo’ piu’, non mi guardo’ piu’ . Spari’ tra la gente disonestamente mascherato dentro i suoi completi bianchi e nascosto perennemente dietro i suoi Reyban. Spari’, ladro di un bacio che non gli era mai appartenuto.
IL TERZO ARMADIO
Lentamente la casa aveva mutato il suo aspetto e chiunque, nell’entrarvi, dichiarava di notare il brillante operato di una mano femminile. Anche l’albero di Natale sembrava esprimere , con un sospiro di sollievo, che qualcosa era avvenuto alle sfere ammaccate, ai fili delle lucette e ai festoni dorati sempre molto ingarbugliati e appoggiati ai suoi rami in maniera confusa. Tutti desideravamo, al terzo anno della nostra convivenza, che qualcosa brillasse più del solito, che lo spegnersi e accendersi delle piccole lampade colorate fosse esempio del pigolare discreto e sommesso dei nostri cuori che altro non aspettavano se non di riaffacciarsi alla vita. Dedicavo ai i ragazzi tutta la dedizione e la tenerezza possibile. Amavo Franco come un fratello e avevo accantonato l’idea di intraprendere con lui una grande storia d’amore. Non sapevo neanche il perchè lui non la volesse : dava la colpa ora a questa ora a quella motivazione, e la verità come tante altre questioni , non venne mai a galla. C’era tuttavia una cosa che mi gratificava enormemente al di là dei dubbi e dei misteri: quando Franco tornava dal lavoro, a ore sempre diverse, apriva la porta e gridava in modo forte e festoso “Piccirì! Piccirì! Dov’è la mia Piccirì!” e io mi precipitavo giù dalle scale in maniera rumorosa nonostante fossero ricoperte di una dorata e soffice moquette e lui mi abbracciava lungamente. In questo rito mi purificavo di tante disattenzioni subite nel corso della vita e mi rinvigorivo di appagamenti; in quanto a lui, non era difficile immaginare quali vuoti andasse a riempire con quell’enfasi puntuale ed energica.
Per tornare a quel Natale, che tutti volevamo speciale, Franco mi disse che se avessi terminato lo sgombro della stanzetta accanto alla cucina, ne avrei potuto disporre per i miei hobbies e quello sarebbe stato il suo primo regalo natalizio.
Ricominciarono le mie visite puntuali a quella camera, dapprima svogliate poi bisognose di diseppellire spasmodicamente e ridare il giusto posto ai suoni e ai colori che un tempo avevano fatto la storia della casa.
Il kapok, le bambole in pezza mai completate e l’avvio della sciarpa rossa erano già state poste sul fondo di un sacco nero in plastica, i vestiti di carnevale avevano ricevuto adeguate cure e anche se orami fuori misura parevano avere conservata intatta la loro utilità, le letterine, i disegni, i cuori, riposavano già, per una mia prudenza profetica, in una bella scatola in stoffa celeste. Per chi poi? Non lo sapevo, ma quella era la cosa giusta; dentro quella stanza trovavo la forza di spersonalizzarmi e niente di importante volevo gettare, disperdere. Qualsiasi piccola cosa sarebbe potuta servire un giorno per per ricomporre la storia o la guarigione di qualcuno, Lucy compresa. Ma Lucy non era la mia nemica? Sì, emotivamente lo era, ma fuori di lì e sicuramente avrei combattuto ancora per far spostare la sua foto dal salotto ad una stanza meno importante.
L’armadio centrale era stato già analizzato in qualche ora dei pomeriggi piovosi: pezze vecchie, vestiti passabili ma fuori moda, vestagliette da casa, collane rotte, racchette da ping pong, forbici di varia grandezze ed era stato semplice aggiungere tutto al sacco del kapok. Rimaneva il terzo armadio, quello che mi intimoriva perché tra le due ante erano rimaste incastrate alcune fotografie dove faceva capolino la testa nera , da me mai conosciuta, di un Franco giovane e sorridente. Non feci a tempo a spalancare un’anta che una valanga di foto si riversò sul pavimento e il fruscio dello slittamento si prolungò talmente da fare a tempo ad assumere un rumore inquietante. Franco mi aveva detto che era stato fotografo provetto ma che non si sentiva più di cimentarsi in quel campo. Ora capivo: Lucy era stata ritratta in migliaia di pose, in centinaia di giardini, in centinaia di città, su altalene, barche, ruote di luna park, nei letti del parto, durante gli allattamenti, vestita da mamma Natale, attorno a varie torte con candeline da spegnere, in bikini in monokini in bicicletta impellicciata…. Quanto doveva aver adorato quella donna conosciuta allo svincolo di una autostrada, mentre faceva l’autostop per raggiungere l’università per stranieri di Perugia!
Il rumore della porta di casa sbattuta e l’abbaiare dei cani mi riportò alla realtà, ma non riuscivo a ricompormi emotivamente, per cui lasciai che Franco ripetesse più volte il suo gioioso Piccirì e che mi andasse a cercare in giardino. Poi finalmente mi sentii pronta ad andargli incontro. Mi propose di uscire insieme a fare un po’ di spesa. Le madie erano ricolme di provviste di ogni genere così come il frigo e il freezer e gli domandai cosa mai avesse voluto ancora comprare.
“Cos’hai? ti vedo stanca!” mi disse ed io risposi che avrei preferito sedermi un po’ sul divano con lui a parlare, oppure magari a cena fuori, cosa che non facevamo mai, e perché non al cinema? Ma mi ribadì che non dovevo fargli quelle richieste e che ormai avrei dovuto saperlo. Niente viaggi, niente ristoranti, niente cinema, sempre e solo in casa con me. Ero stanca di immaginarne il “perché”. Uno solo, anche il più piccolo della verità dei suoi perché, mi avrebbe potuto distruggere e io di valigie ne avevo fatte fin troppe, delle fughe ne avevo assaporato a lungo il fiele, delle sconfitte ad opera di altre donne portavo cicatrici non del tutto rimarginate. Era più sano accettare, non indagare, accontentarmi di far sorridere il mio corpo stremato dai dispiaceri, dai traslochi, dalle fatiche domestiche. E poi presto avrei avuto una stanzetta tutta per me, per i miei passatempi, per la mia scrittura. Certo. Presto. Ma solo dopo aver capito cosa fare e dove mettere quel mondo di gioie intense : gli occhi di Lucy, la bocca di Lucy, la pancia di Lucy. Poiché era certo che comunque tutto sopravviveva fervidamente in Franco, sarebbe stato inutile distruggere e buttare qualcosa. Anche per questo materiale mi procurai delle cassette natalizie e riempitele fino ai bordi le seppellii nel mio cuore, investendo le braccia della fatica di trasportarle definitivamente in un ripostiglio della mansarda. Dietro quella porta a soffietto mai aperta emersero centinaia di cicche di sigarette fumate nascostamente dai ragazzi e baldoria secolare di altro genere. C’erano altri mondi sommersi da scoprire, esattamente come dei cuori umani sovraffollati da esperienze di tutti i generi, ma niente mi metteva paura ora che la stanza di Barbablù era stata svuotata anche nel suo terzo armadio.
Arrivò presto l’allegra baldoria dei ragazzi e corsi loro incontro per ascoltare le quotidiane richieste.
“Ti dispiace se invitiamo i soliti amici a cena? “ Risposi di sì in maniera del tutto diversa dalle altre volte. Li guardai e li vidi sommersi da tutte le loro smorfiette di neonati, di bimbi vispi arrampicati sugli alberi o sulle giostre, o con gli sguardi angelici di quando affidavano le manine a quella, comunque amorosa, di Lucy.
Il mio sì, quel giorno, completò la sua trasmutazione per divenire il sì che pronuncia una vera mamma a dei veri figli.
LA STANZA DI BARBABLU
Uno strano personaggio avvolto in un mantello nero e provvisto di un vistoso cilindro si aggirava per la nostra villa. Un fantasma, insomma, frequentava indisturbato alcune stanze, chissà perche’ principalmente quelle del primo piano. Non lo vidi mai, a differenza di Franco e dei suoi figli e mi convinsi che il fenomeno rientrava nelle allucinazioni di cui si po’ esser vittime . A farmi cambiare idea provvide un ospite che un giorno aveva occupato il bagno del primo piano: torno’ nel salone sottostante in preda al panico per aver avvistato l’inquietante personaggio all’ombra del cilindro avvolto in mantello nero. Per sdrammatizzare l’atmosfera nei giorni seguenti iniziai a chiamarlo col nomignolo “Bookie”, a inventare storie divertenti su di lui, a disegnarlo, e pian piano la paura del fantasma si sciolse nelle risate.
Nel frattempo un altro fantasma ben piu’ difficile da esorcizzare aveva preso posto dentro la mia vita e questo fantasma era la foto di Lucy, l’unica cosa che nel salotto di Franco non aveva mai temuto di essere abbandonata. Incorniciata e lucida, sia pure immobile ed in bianco e nero continuava a governare sugli umori di tutti. Non la sopportavo.
Mi ripetevo che non ci puo’ essere niente di minaccioso in una vecchia foto ma avrei voluto capire perche’, con tante stanze a disposizione, le fosse stato assegnato il posto piu’ importante , proprio li’ accanto alla porta di casa. Non era Lucy la donna che aveva devastato quella famiglia? Non era stata una moglie perfida e una madre spietata? Ero di cattivo umore e forse sarebbe stato piu’ semplice ammettere che la trovavo troppo bella, piu’ bella di me, e che il suo sorriso fantastico era da reclame pubblicitaria. Dapprima lo ammisi solo con me stessa poi esternai il mio pensiero a Franco che ridendo a crepapelle rispose che quella era una immagine sepolta dal tempo poiche’ Lucy nel frattempo era divenuta brutta e soprattutto grassa come una balena.
Il fatto vero era che in un anno, per sopravvivere in quella casa, avevo dovuto sostenere battaglie che mi avevano indebolito; catturata ora dalla rabbia ora dalla tenerezza, mi lasciavo intimorire anche dai particolari apparentemente innocui . Ormai conoscevo bene la storia : nel giorno di s. Valentino di molti anni prima Lucy aveva lasciato la villa di Latina portandosi dietro i gioielli,i soldi e i sei figli. Aveva lasciato un biglietto di addio e si era rifugiata in un posto segreto del Kentacky per ricominciare una vita con il suo amante. Franco aveva speso una fortuna per rimettersi sulle sue tracce e con difficili trattative l’aveva convinta a permettere che i due figli maschi tornassero a vivere con lui.
Ora erano passati sedici anni da quell’epoca, ma per certe cose non era passato neanche un giorno. Dopo vari mesi di frequentazione Franco mi aveva chiesto di andare a vivere definitivamente con loro e il legame si era inevitabilmente rafforzato. Non avevo figli e avvertivo un gran trasporto per i suoi ragazzi. Mi occupavo della casa ma rimanevo estranea alle sue atmosfere e respinta da alcune sue intimità': nel bagno della camera da letto ad esempio c’era un settimino riempito da cose di altri tempi che oltre ad impedirmi di avere a disposizione un minimo spazio mi procurava disagio e sofferenza. Ebbi un giorno il permesso di liberarlo. Mi chiusi a chiave nonostante non ci fosse nessuno in giro e diedi inizio all” Operazione reggiseni”, cosi’ la chiamai per sdrammatizzare un po’ la cosa. Mi ero procurata un grande sacco nero della nettezza urbana, con la mano sinistra ne tenevo un lembo e con la destra – effettuando prese leggere e veloci- vi scaraventavo dentro tutte le intimità’ vissute e perdute da Franco : tettarelle incollate , reggiseni enormi per l’allattamento, pancerine post parto, bavaglini, tiralatte, mutandine, fasce, poppatoi.
In mezz’ora il como’ aveva riacquistato un’altra energia, un’altra aria. I cassetti lavati dal flusso violento della doccia avevano sciolto tante paure . Asciugarli e rifoderarli mi mise di buon umore e il correre fuori di casa a gettare nel cassonetto il sacco nero fu cosa altamente liberatoria. Dopo questo forse sarebbe potuta iniziare una vita nuova ma c’era ancora tanto da fare. Entrando in quella villa avevo dovuto confrontarmi con l’anarchia e soggiacere a tante regole della casa ma godevo dell’allegria preparatoria alle sacre partite giocate dalla “Vecchia Signora”: ci mettevamo tutti le sciarpe bianco nere al collo, sedevamo di fronte al televisore ad osannare Anastasi, Ravanelli, Amoruso, Altafini, personaggi familiari che comunque, anche in altri momenti, adottavo come alleati per rallegrare la casa; assistevo, con un bicchierino di whisky in mano, agli incontri serali di poker con i puntualissimi amici di Franco, e presiedevo, con allegre palandrane, alle cene in giardino con gli amici dei ragazzi. Un mondo tutto maschile dove venivo acclamata a gran voce da tutti: “La Regina, dov’e’ la Regina della casa?” Un pezzetto di me era riuscito ad entrare in quell’atmosfera e a divenirne parte integrante. Per sentirmi definitivamente meglio avrei dovuto avere la forza di mettere mano alla stanzetta sempre a chiusa a chiave accanto alla cucina. Dovevo aspettare che Franco trovasse la forza di riprenderla in considerazione per scoprire cosa mai, di cosi’ scottante per la memoria, si potesse celare dietro quella anonima ma misteriosa porta. E questa cosa avvenne in un giorno di sole. Immersa in un silenzio insolito, afferrata la chiave che da qualche ora lui aveva adagiato su un ripiano della cucina, senza che alcuna parola fosse stata proferita, mi sentii improvvisamente pronta per l’impresa. Dopo aver girato la chiave nella toppa e aver sospinto a fatica la famigerata porta, la prima impressione fu di sgomento. Mentre cercavo di capire perche’ mai nessuno avesse messo mano a quella baldoria e perche’ Franco alla fine avesse incaricato proprio me, con i piedi scostai le cose ammucchiate alla rinfusa per terra e con una mano aprii il primo di tre armadi bianchi. Mi cadde addosso un composto eterogeneo di materiali vari e le narici furono invase da un penetrante odore di polvere. Accompagnata da qualche colpo di tosse mi avvicinai alla finestra a tre vetri che affacciava sul giardino, direttamente sulla sconquassata cuccia in cemento dei cani Lady e Mademoiselle. Era stato da quell’angolazione che aveva potuto a mala pena sbirciare dentro la stanza proibita ma non avevo scorto che la parte superiore delle ante bianche. Ora invece potevo finalmente scorgere tutto: l’ingombro delle cose ammassate sul pavimento e il kapok in piena libertà che crollandomi addosso mi aveva sollecitato tosse e starnuti. Ma ecco che facendo piu’ attenzione emersero davanti agli occhi ritagli di stoffe colorate, fili di lana e abbozzi di bamboline non terminate. Piu’ lentamente planarono aghi di plastica gialla infilzati in una matassa di lana rossa che aveva fatto appena in tempo a costituire l’avvio di una sciarpa. La perfida Lucy, la Lucy che aveva rubato, tradito, squarciato dei cuori, che donna era stata? Come non mai quegli indizi andavano profilando il ritratto di una madre affettuosa, giocosa, partecipe. Appesi alle stampelle i vestiti di carnevale cuciti a mano si presentavano in perfetto stato, ma sul fondo dell’armadio, sollecitate dai miei movimenti, incominciavano ad apparire cose che esigevano un accurato esame. Franco aveva detto di buttare via ogni cosa, di fargli trovare gli armadi completamente vuoti, ed io, che mi ero sentita cosi’ soddisfatta di questa richiesta, ora rimanevo perplessa e contristata. Sedetti per terra, a gambe incrociate, e passai alle mie mani cartoncini, matite colorate affilate e spuntate, disegni ritraenti l’intera famiglia in girotondi sotto il sole, dentro la neve, intorno ad alberi fioriti, sotto le stelle giganti, sei bambini, un papà’, una mamma, I love you daddy , I love you mamy. Dio mio come buttare via una famiglia meravigliosa sia pure sulla carta! E quelle lettrine di Natale, le promesse di bontà’, le richieste dei trenini e delle bambole, le speranze, i sogni. Una macchina fotografica conteneva ancora un rullino fermo al numero 17, un foglio spiegava in inglese come fare una magnifica torta al cioccolato. Di quel primo armadio era stato esaminato quasi tutto, rimanevano dei cassettini ma mi ci volle una pausa per riposare il dolore. Dopo un bel respiro otto cuori di carta furono appena appena smossi dal movimento d’aria e dopo un timidissimo volo si riadagiarono uno su l’altro, cosi’ come erano rimasti per sedici anni: tutti di grandezza diversa, a seconda dell’età: Elisabeth, Jasmine, Michael, Peter, Nancy, Sherley, Daddy.
MAMY, il piu’ grosso, riparava proteggeva e copriva tutti. Richiusi il primo armadio, ridiedi le mandate alla porta e spossata, dopo aver salito le scale lentamente, mi adagiai sul letto con la chiave sullo sterno: la storia di Franco e della moglie Lucy dopo tanti giudizi e tante fantasie, mi appariva completamente diversa, piena di stelle, di cuori e di gioie e percio’ sicuramente tutta da riscrivere.