La pizza da Ciro al Trianon

 

Quando s’era finita una lezione

e a casa mia stavo per tornare,

trovavo quasi sempre l’occasione

di fermarmi da Ciro per pranzare.

Con le pareti piastrellate bianche,

i tavoli di marmo bianco e grigio,

non con le sedie ma con lignee panche,

era un locale noto e di prestigio:

“Don Peppino con mano fatata

e antica tradizione, lo intuisco,

taglia un pallino di pasta lievitata

e poi la spiana fino a farne un disco.

La spruzza di farina dolcemente,

come si fa con un bimbo appena nato,

poi la rigira molto celermente

facendola divenire sottil strato.

Il pomodoro sparge con la cucchiaiella;

il sale e l’olio fanno compagnia

ai bianchi dadi della mozzarella

e al basilico verde. Che allegria!

Con gesto lesto, come batter d’ala,

dopo avere attizzato bene il fuoco,

dentro il forno l’immerge con la pala,

dove il calor la cuoce poco a poco.

E’ con le fiamme che si completa il rito:

la si vede gonfiare tutta intorno

e il centro fonde dalla salsa unito;

a volte il ceciniello è di contorno.

Naviga in mezzo come fosse in mare,

la quintessenza del misto di bontà:

per un momento fa dimenticare

del nostro mondo la malvagità.”

 

Italo Rappazzo


 

La tromba di don Ferdinando

Nella Napoli antica, assai vicino all’università a  Mezzocannone,

vi sono, ad attirare l’attenzione, le trattorie atte a uno spuntino.

 

Sono locali,  non certo da abbuffata, dove si spendono solo poche lire,

tali da non farci immiserire, dandoci  pure un poco di insalata.

 

E’ mezzogiorno di molti anni fa; la trattoria è piena di studenti

e studentesse non molto avvenenti:  mangian fagioli con grande serietà.

 

Il secondo è chiamato cotoletta, molto sottile, fritta in olio antico,

pane cafone le fa buon amico;  alla fine la bianca sigaretta.

 

Si discute mandando giù bocconi, e gli argomenti sono molto vari,

si parla di ogni cosa,  ed i contrari mettono il cuore nelle lor ragioni.

 

La porta a un tratto si vede spalancare: don Ferdinando entra nell’ambiente

con la tromba, portata celermente verso la bocca, pronta per soffiare.

 

Un urlo supplicante dal brusio: son gli studenti che con tono afflitto

“Don  Ferdina’ no…no…fermo, sta zitto, no non  sunà pell’amore e’ Dio!”

 

Con il piattino fa un giro tutto attorno; ogni studente gli dà qualche lira,

anche stavolta , questa è la sua mira, ha superato il tristo mezzogiorno.

 

Saluta con garbata cortesia, cacciando in alto il liso cappelluccio,

ripone poi la tromba nell’astuccio e passa svelto ad altra trattoria.

 

Si racconta che prima della guerra fosse fra i primi ottoni del San Carlo;

l’amor per una donna come un tarlo, lo consumò e lo ridusse a terra.

 

Prese una  stecca in una sinfonia, il pubblico impietoso lo fischiò,

si prese dai colleghi lo sfottò, e come un cane fu cacciato via.

 

Vennero gli Alleati e fu sentito, pare, da un noto musicista americano;

lo misero com’era in aeroplano, portandolo in America a suonare.

 

Ma la sua donna scordare non poteva; disse ” bai bai “ a quella comitiva,

prese la prima nave che partiva, tornando coi pochi dollari che aveva.

 

Una brutta sorpresa era in agguato: la donna amata stava con un guappo;

nel cuore suo si provocò uno strappo: fu come se l’avessero ammazzato.

 

Non teneva più genio a lavorare,  si ritrovava stanco e malandato,

aveva fame e, dopo aver pensato, decise di far finta di suonare.

 

L’ultima volta venne in allegria; fu qualche tempo prima di Natale:

gli era tornata la vena musicale, …sentimmo il pezzo della sinfonia.

 

Infine salutò con un inchino, mettendo in testa il liso cappelluccio,

poi ci sorrise con un certo cruccio, noi l’applaudimmo… non girò il piattino.

 

Quando tornammo a festa già finita, ci ritrovammo in quella trattoria,

non lo sentimmo… se n’era andato via, abbandonando la sua triste vita.

 

Se n’era andato in una fredda sera, tenendo il suo tesoro stretto al petto:

chi non l’aveva lasciato mai negletto, era la tromba, l’amica più sincera.

 

Dissero che, nella notte di Natale, s’era sentito, nel ciel napoletano,

un suono che veniva da lontano, un suono che pareva angelicale.

 

Dissero anche che don Ferdinando era stato scritturato dal buon Dio:

s’era visto nel cielo il luccichio della sua tromba che stava suonando.

Italo Rappazzo


 

 I figli dell’Etna

  Altri amici di mio padre, in quegli anni, erano i fratelli Pocobelli.   La loro attività aveva luogo in piazza Cairoli, a Messina, in una piccola costruzione di stile indefinito, adibito a negozio per fotografie. Adesso quella costruzione non c’è più, e in quello stesso punto, debitamente lastricato, a Natale, il comune piazza un abete con delle lampadinette la cui luce incerta mette un po’ di malinconia.

 Mio padre apprezzava i due fratelli. Essi oltre a sviluppare e far fotografie 6×9, avevano il pallino della cinematografia e per questo erano dotati di tutto un armamentario che serviva loro per fare soprattutto dei documentari.

 Un bel giorno, quella era l’epoca del neorealismo, a Salvatore Zona, messinese appassionato di cinematografia e ai Pocobelli, nonché a mio padre, venne l’idea di fare un lungometraggio. Doveva essere un film neorealista, cioè non spendendo soldi in attori professionisti, ma con persone prese dalla strada. Ripercorreva le orme di De Sica e Rossellini, ma soprattutto di Luchino Visconti. Il grande regista aveva girato ad Aci Trezza il famoso film “La terra trema”. Traendo spunto dai “Malavoglia” di Giovanni Verga e prendendo sul posto, come attori dei pescatori.

Tutto l’armamentario necessario per le riprese sarebbe stato fornito dai Pocobelli.

Il titolo della pellicola era “I figli dell’Etna”. Doveva narrare, se ben ricordo, i contrastati amori dei protagonisti con lo sfondo del vulcano, che nelle scene finali dava una delle sue tante spettacolari esibizioni.

 Mio padre, Giovanni Rappazzo, quale pioniere del film sonoro, quella volta venne coinvolto partecipando alle riprese nelle vesti di aiuto sceneggiatore e aiuto operatore.

 Nell’intento di risparmiare soldi, ed essendo l’Etna in un periodo di riposo, i responsabili, pensarono di girare delle scene di una folla fuggitiva e impaurita, dall’eruzione della lava, a Puntal’Arena (Zona Boccetta, Messina). In quel posto anticamente c’erano delle cave di sabbia. Il colore giallo della terra si addiceva poco, ma comunque fatte delle prove e usando la pellicola in bianco e nero, la sabbia poteva passare per roccia lavica.

 Andando di casa in casa, qualche giorno prima, venne dato appuntamento ad una certa quantità di persone. Esse dovevano essere conciate in maniera da fare pena. Così aveva ordinato con tono perentorio il regista al costumista: fuggendo da casa, sotto l’incalzare dell’eruzione non si sarebbero potute vestire in maniera decente. 

Probabilmente gli autori del film avevano in mente il famoso quadro di Guttuso: “Fuga dall’Etna”. Beninteso mettendo da parte i nudi, che nel dipinto si vedono un po’ qua e un po’ là: tempi non erano ancora maturi. 

Tutte le comparse provenivano dalle zone circostanti da dove si girava la scena del film.

Inutile dire che il passa parola funzionò in tutta la zona. Nacque così un fermento fra tutte quelle brave persone. Una sorta di eccitazione, per quella inusitata novità che apriva dei rosei orizzonti di inaspettati guadagni.

Il cinema, arrivava nelle loro povere case portando fama e ricchezza. C’era compare Stellario appassionato di cinema, non ne perdeva una, che andava selezionando quelli che chiamava i tipi fotogenici. Aveva trovato la comare Cettina che era precisa precisa ad Anna Magnani, mentre Vanni pareva la controfigura di Amedeo Nazzari I bambini assomigliavano tutti a Enzo Staiola il piccolo protagonista di “Ladri di Biciclette” di Vittorio De Sica.  Ad un certo punto, tutti assomigliavano a qualche celebrità del mitico mondo della celluloide. 

A levare qualsiasi illusione di protagonismo fu un conoscente del regista che stava da quelle parti. Si doveva girare l’indomani solamente una scena di massa: gli attori, protagonisti nel film, c’erano già.  

Comunque il giorno appresso tutti si presentarono puntualmente all’appuntamento, con un lumicino di speranza rimasto acceso nella loro fervida immaginazione.

Il folto gruppo, i figli dell’Etna, era costituito da uomini con coppola e donne nerovestite, vecchi tremanti e bambini in perenne allegria. C’era anche qualche sciancato, munito di stampelle, che si muoveva con qualche difficoltà. Portavano con sé le loro povere cose, chi a piedi, chi su carretti trainati da muli o da asini recalcitranti, i quali poco avvezzi a partecipare ad un film ogni tanto facevano sentire il loro sonoro grido di protesta. Il tutto era coordinato da alcuni improvvisati capi comparsa. Questi signori in fatto di urla facevano a gara con gli asini.

 Tutti, asini, muli, comparse malandate, capi comparsa etc…erano alle dipendenze del regista, piazzato su un montarozzo, munito di megafono: doveva cadenzare opportunamente i tempi dell’azione.

 La scena prevedeva inizialmente l’accensione di cumuli di sterpaglie umidicce portate chissà da dove. Con il loro fumo dovevano simulare la presenza della lava incandescente; quindi successivamente partiva il movimento di tutta la moltitudine delle comparse terrorizzate.

 Quando fu tutto pronto, scattò il classico “si gira” con la non meno classica tavoletta messa davanti la macchina da presa.

Ciak. I figli dell’Etna scena 22”. Ma nessuno si muoveva, anche se precedentemente erano stati debitamente catechizzati; parevano tutti addormentati come presi in una specie di incantamento: la magia del cinema faceva il suo effetto ipnotico. 

 “Muvitivi, ranni figghi di p…”  Urlava il regista nel megafono. Quest’ordine non ammetteva repliche, Finalmente il primo gruppo, che pareva uscito dalla corte dei miracoli, dopo una serie di spintoni e calci dati nei posti giusti dai capi comparsa, anche loro vestiti in maniera acconcia, cominciò cautamente a muoversi, seguito da un secondo gruppo non meno numeroso e non meno malridotto.

 A questo punto c’è da dire che la notizia che si stava girando un film neorealista nella zona di Puntal’Arena, s’era sparsa anche in tutta la città, sicché fin dall’inizio della prima scena la zona venne invasa da curiosi, forse anch’essi desiderosi di essere immortalati nella celluloide. Erano a malapena contenuti lontani da un improvvisato servizio d’ordine. Fra costoro si aggiravano gli immancabili venditori di gazzose, di calia (ceci arrostiti), noccioline americane e zucchero filato, nonché i venditori di palloncini multicolori; ognuno a declamare la propria mercanzia. Insomma una vera e propria festa.

In questa moltitudine di sfaccendati, inizialmente seminascosta, mi ero infilato anch’io con i miei compagnetti.

La scena, in programma, prevedeva, ad un certo punto che le persone terrorizzate dall’avanzare della lava si mettessero a correre per un centinaio di metri. Così ad una perentoria vociata del regista, in mezzo ad un denso fumo, che nel frattempo perfidamente aveva cambiato direzione unendosi ai transfughi, la camminata si tramutò in corsa seguita dal secondo gruppo, che immedesimandosi nella scena si mise a urlare a più non posso tanto per farsi notare.

 I curiosi che erano di gran lunga più numerosi delle comparse, e lo stesso servizio d’ordine, per vedere meglio cosa stesse succedendo, balzarono fuori dai loro nascondigli e si piazzarono, quali indesiderati spettatori, pieni di entusiasmo, a fare ala ai corridori. Si vide allora la sgangherata massa dei cosiddetti figli dell’Etna correre fra gli incitamenti e gli applausi degli imprevisti spettatori.

 La scena che ne seguì aveva del tragicomico, e per la presenza di una muta di cani, che uscita dal nulla, inseguiva i malcapitati tentando di morderli ai polpacci e per il coro degli asini che avevano aumentato il volume delle ragliate e per il regista il quale vedendo rovinata la scena madre, dall’alto del montarozzo, si mise a tirare pietre contro gli intrusi che nel frattempo si erano lasciati andare ad una ilarità incontenibile. Per fortuna   i suoi tiri risultarono poco precisi.

Cunnuti, cunnuti mi spasciaru ‘a megghiu scena!”  Mi hanno rovinato la migliore scena, diceva infine sconsolato circondato dai pochi intimi. E non solo da questi ma anche dalle numerose comparse ed asini in attesa di nuove disposizioni e da tutti gli spettatori, i quali, non contenti, non avevano cessato l’agitazione e il loro allegro vociare. Sembrava di rivivere, mentre stava disperatamente aggrappato al treppiede della cinepresa, gli ultimi istanti del mitico generale Custer a Little Big Horn (nel film Errol Flynn) con in pugno l’asta della bandiera del 7° cavalleggeri, mentre era circondato dagli urlanti Sioux e Cheyenne dei non meno mitici Toro seduto e Cavallo Pazzo.

 Le riprese vennero sospese anche per la sopravvenuta mancanza di sterpaglie da incendiare.

 L’Etna con tutti i suoi figli avevano per quel giorno interrotto la loro spettacolare esibizione.

 

 Italo Rappazzo

P.S.  I figli dell’Etna. Il film iniziato nel 1949 venne completato nel 1954 ed ebbe un certo successo. Salvatore Zona fu soggettista, sceneggiatore e regista del film. Aiuto regista: Elle Cogliani, Fotografo di scena: Pippo Arbusi. Operatore di macchina: Angelo Pocobelli. Il cast: Elio Armand, Cettina Macrì, Flavia Pino, Rinaldo Rovelli. La scena della fuga all’Etna, con sparatoria finale, venne girata successivamente in altro luogo con pochi spettatori.