IL SENSO DELL’AMORE

L’amor che come fuoco accende i sensi
e il corpo fa vibrare,
come una gemma, è assai prezioso e raro,
ma certo più difficile da accettare.

Incontenibile,
come il mare più profondo,
non lo puoi domare,
…ma abbraccia il mondo.
Forse più del sole sa scaldare
ma è imprevedibile
e le tue ali può bruciare!

Credi di avere l’altro in tuo potere?
Folle e insensato!
Per trattener il fiume più impetuoso
non serve una diga aver pensato.

Come si insinua l’acqua, inesorabile,
così l’estasi sfugge al tuo controllo,
il vulcano focoso ed invincibile,
travolge ognor l’atollo
…e l’inabissa.

L’arte, la musica e, sì, la fantasia,
non sono proprietà di un sol padrone,
come l’ape che dal fiore vola via,
lasciandogli soltanto un’illusione.

Son pochi inver quelli col senso dell’amore,
che non vuol dire avere il monopolio,
bensì serbare sempre in fondo al cuore
un’emozione forte, con orgoglio.

Il viso accarezzato dalla brezza,
un bacio delicato o passionale,
l’ardita o la più trepida carezza
son cose che possono far male.

Il vento forte e aspro del deserto,
dà vita e morte vicendevolmente,
la nave che s’inoltra in mare aperto,
é come la speranza che, in sé, ognuno sente.

Ho scelto di bruciare le mie ali,
volando fino al sole e di nuotare
in fondo all’abisso con gli squali,
ma nulla, come te, mi fa tremare!


Momenti di vita

Collegno. E’ quasi Natale. Eppure non c’è aria di festa. La crisi si sente anche se le vetrine del corso sono accese di mille colori ed offrono regali per tutte le tasche.
La gente si ferma, guarda, commenta, ma sono pochi quelli che entrano, soprattutto coloro che sono determinati ad acquistare.
I bimbi sgranano gli occhi davanti ai giochi ed ai dolciumi, ma respirano in famiglia quella strana impressione di ansia e precarietà legata al periodo. Politica ed economia condizionano le scelte di vita e, di conseguenza, le spese devono essere limitate, non all’essenziale, forse, per i più, ma valutate secondo un metro di giudizio dettato dalla prudenza.
Due innamorati si stringono davanti alla vetrina di un orefice, ma decidono di soprassedere all’acquisto. L’anello può attendere. Meglio cose di utilità quotidiana: del resto non è il simbolismo a dimostrare l’affetto.
Si guardano con una strana luce negli occhi che li esclude dal resto del mondo.
Penso a Pietro, venuto in Italia per conoscere il suo ceppo d’origine, con l’intenzione di trattenersi un anno o due per concludere un progetto intercomunitario di architettura.
…Pietro, con la sua erre arrotondata, con le mani grandi e gentili che accarezzavano le strutture, le colonne, i porticati, innamorato d’arte, sempre pronto ad identificare epoche e stili, a sfornare progetti per l’iniziativa di collaborazione con la SPABA, ad introdurre e sostenere tematiche complesse inerenti l’arte, la scultura, l’archeologia.
…Pietro che organizza convegni dedicando il suo tempo al Piemonte, ai personaggi che ne fanno la storia e la rilevanza culturale.
…Pietro che parla per mezz’ora di Castello Provana senza accorgersi che il mio sguardo adorante è più attento ai lineamenti delicati che alle sue dissertazioni…. Pietro che, nelle nostre passeggiate, fotografa la facciata Juvarriana della Certosa,… prima di accorgersi di me…. Poi decide di non tornare in Francia e di trasferire sulla mia persona il fulcro della sua attenzione.
Ho sempre avuto ed ho tuttora l’impressione che sia stato l’ambiente, l’accesso privilegiato alla cultura insito in Collegno ad aver favorito il nostro rapporto. Del resto questa cittadina è stata il palcoscenico di storie d’amore infinite, illustri, esaltanti, devastanti.
La collettività ha accolto, apprezzato e offerto comprensione ai protagonisti…
Anch’io ho beneficiato dell’ambiente solidale, delle piazze fiorite, della cortesia di tutti.
La figura longilinea di Pietro, piegato su nostra figlia, mi ricorda che l’affetto e l’amore ch’egli prova non sono oggetto di dimostrazioni plateali, bensì spirito di dedizione, capacità di sacrificio, totale disponibilità nel momento del bisogno, sia materiale che psichico.
E’ una persona speciale: purtroppo più di una volta è emersa la sua abnegazione a beneficio di coloro che ama.

Passeggio, o meglio, cammino con passo spedito alla ricerca di qualcosa che riporti alla tradizione e che ricrei l’atmosfera che ho vissuto da ragazza.
Poi mi viene l’idea.
Acquistati gli ingredienti base, rientro veloce nella piccola villetta di Terracorta, accolta festosamente dall’abbaiare del cane del vicino. Lo saluto e si tranquillizza. Gli animali captano la propensione degli umani e ricambiano manifestando festosamente.
Apro la porta e sorrido al tintinnio dell’addobbo che pende dal lampadario dell’ingresso.
Ci segue nei nostri spostamenti da una vita… ricordo precisamente da quando.

Era appeso nel soggiorno della casetta di Leumann dove nonna Rosa accoglieva i visitatori con il profumo delle sue torte e l’aroma delle scorze di mandarino gettate sulla stufa.
Un sentore che si appropriava delle narici e saliva nei meandri della memoria per fissarsi, indelebile.
Aveva vissuto la guerra, nonna Rosa. Non al fronte come nonno Giuseppe, ma era stata un aiuto prezioso per la resistenza.
Con la sua conoscenza delle lingue, in parte agevolata dalla madre francese e supportata dalla passione per lo studio, aveva tradotto messaggi, deposizioni, testi che si erano rivelati fondamentali per la salvezza dell’Italia.
Eppure, a vista, sembrava una donnina fragile e indifesa. Era difficile supporre che potesse attraversare a piedi o in bicicletta le linee nemiche per portare conforto e generi di sostentamento ai soldati che pattugliavano la ferrovia.
Proprio questo era il suo punto di forza: sotto le sembianze di una dama aveva la grinta di una combattente.
La Rosina, come l’avevano battezzata, era animata da una forza interiore eccezionale: non pensava mai a se stessa, ma agli altri.
E’ vero che non aveva bisogno di coltivare la sua bellezza: riccioli biondo oro incorniciavano un incarnato delicato. Sul viso dolce facevano spicco due immensi occhi scuri che d’estate sembravano trarre luce dalla piccola spruzzata di efelidi , omaggio del sole.
La figuretta snella vestiva abiti lineari, mai stravaganti, confezionati personalmente con le mussole della fabbrica di Leumann, dove aveva lavorato il fratello Giovanni.
Gli faceva ormai da madre, da quando una granata l’aveva privato dell’autonomia. Non c’erano ringraziamenti né richieste, fra i due: bastava uno sguardo e la donna capiva le necessità dell’uomo, da cui riceveva in cambio sorrisi amorevoli e grati.
Giovanni suonava la chitarra e, quando i giovani di Leumann festeggiavano una ricorrenza, non si faceva pregare per esibirsi in virtuosismi od accompagnare danze improvvisate.
C’era solidarietà nel piccolo villaggio. Tutti si conoscevano e si aiutavano.
I piccoli giravano per le stradine, tenendosi per mano, sotto lo sguardo vigile dei più grandi e non di rado tornavano a casa con dolcetti o passatempi in carta o legno frutto della perizia degli anziani.
Erano i nipoti di tutti, così come i vecchi si sentivano nonni di tutti. Le mani che avevano aggiustato i macchinari per la tessitura o eseguito le operazioni di finissaggio delle stoffe, così rinomate da essere persino destinate all’esportazione, ora creavano per gli infanti le statuine del presepe, cani e gatti in miniatura, zufoli, qualcuno persino strumenti a percussione.
Altri contribuivano ad addobbare l’angolo della chiesa destinato al Presepe, che diventava il centro d’attenzione della collettività durante il periodo Natalizio.
Nonna Rosa sfornava panettoni e crostate, involtini di pasta sfoglia farciti d’uva passa e gelatina di mele. Lo strudel… come lo chiamava lei, era una novità per il borgo.
Dalle finestre aperte per cambiar aria uscivano sentori di vaniglia e cannella, inanellati da spezie e caramello.
Non si poteva passar di lì senza fermarsi ad annusare e, se nonna se ne accorgeva, non di rado apriva l’uscio per offrire un pasticcino.
Eppure quello non era il suo mestiere.
Aveva studiato da infermiera ed era brava. In ospedale aveva conosciuto Giuseppe, medico di reparto e, dopo un breve fidanzamento, si erano sposati.
Era un fresco mattino d’aprile, soffiava una leggera brezza che teneva a bada le nuvole della pioggia.
Rosa aveva un abito bianco fluente che accarezzava la silhouette mettendola in risalto.
Il nastro azzurro intarsiato di pietre dure dello stesso colore, che era stato di sua madre, le cingeva la vita sottile. I capelli sciolti, lavati con cura, brillavano sotto le luci dell’altare. Giuseppe tremava d’emozione, malgrado la conoscesse nella quotidianità dei suoi atteggiamenti più frequenti: quando aiutava le partorienti o medicava i feriti, quando trovava una parola per accompagnare verso l’ultimo traguardo. Ora sembrava trasfigurata, luminosa.
I concittadini avevano improvvisato un’intelaiatura di asticelle di legno e fil di ferro che avevano rivestito di tralci rampicanti. Sotto questo porticato etereo i due sposi erano usciti dalla chiesa accolti da un applauso scrosciante.
L’intero villaggio aveva partecipato al rinfresco ed aveva poi accompagnato la coppia nella casina che sarebbe diventata la loro dimora per quasi mezzo secolo.
Due anni dopo era nata la mamma, a distanza di due anni zio Francesco.
Poi nonno Giuseppe se n’era andato per una polmonite mal curata dopo aver spalato neve tutto il giorno per rendere agibili le strade del borgo.
Era tornato dalla guerra con un’infezione polmonare che avrebbe consigliato l’insediamento in luoghi dal clima più caldo, ma non ne aveva mai fatto parola.
Non avrebbe potuto privare Rosa del conforto che traeva dal vivere in un ambiente così solare, dove la collettività si impegnava anche a ricomporre le controversie inevitabili del viver sociale.
Ovviamente la vita non era una favola: c’erano liti e problematiche di vario tipo.
Va detto tuttavia che gli individui violenti si sentivano emarginati dalla società e si autoescludevano dal contesto, finendo per trasferirsi.
La comunità viveva poco distante da Torino, ma la metropoli non la contaminava. Si sarebbe detto che fosse un’isola dalla quale ci si allontanava per necessità, per svago, per diletto, ma con il desiderio di rientro, come le rondini.
I più giovani, meno provati dalle conseguenze della recessione postbellica, aperti alle nuove esperienze si erano insediati oltre i confini di Leumann, creando un contesto più moderno e dinamico, forse, ma esente dall’esercizio istintivo di condivisione che animava gli abitanti del villaggio.
Anch’io mi ero sposata, dopo un lungo periodo di riflessione. I fidanzamenti rapidi non erano più frequenti. Il fatto stesso che si vivesse indipendenti, presi dalle proprie attività ed incombenze, portava a creare un maggior senso di autonomia che stentava ad accettare l’idea di una vita in comune, con le responsabilità che ne derivavano. A questo si aggiungevano motivi economici.
Forse non mi sarei mai decisa se Pietro non fosse stato così dolce e paziente da rendere la sua presenza al mio fianco irrinunciabile.
Era stata un’esaltazione di menti e corpi maturata nel tempo fino a diventare indissolubile: quello che si dice “diventare una coppia”.
Del resto, la solidarietà cittadina si esprimeva ormai soltanto davanti ad eventi anomali e coinvolgenti come soprusi, scioperi, o nelle espressioni di vita comune legate al volontariato.
La lezione di vita appresa dagli anziani pervadeva i giovani che creavano iniziative a favore dei piccoli, dei disabili, dei disadattati, di tutti coloro che denotavano un bisogno di attenzione e di cure.
L’appartenenza alla comunità persisteva, anche se meno evidente, ma nei momenti di necessità si ritrovavano i valori che l’uomo si porta dentro fin dalla preistoria.

Rifletto su tutto ciò mentre salgo le scale per raggiungere il vecchio scrittoio, dove conservo gelosamente le reliquie di famiglia.
Può sembrare esagerata come definizione, ma per me questi oggetti rappresentano la continuità di vita, che aiuta a superare i momenti di sofferenza.
Nel cassetto a scomparsa sono raccolte foto ingiallite dal tempo. La patina avorio ha regalato una dimensione irreale ai volti, creando intorno un’aura quasi magica.
La moda del periodo mi aiuta a classificare i ricordi.
Mi sento bruciare gli occhi e dubito che sia l’odore di chiuso. È forte infatti il profumo di lavanda che aleggia nell’aria, emanato dai sacchettini che ho cura di rinnovare secondo consuetudine.
Piuttosto credo che sia la vista delle immagini classiche d’epoca che fissano i personaggi in pose statiche, vicino a sedie, poltrone o specchi, seduti od impalati gli uni di fianco agli altri.
L’unica cosa veramente viva sono gli occhi ed i sorrisi che riportano ad attimi felici.
Le foto di guerra le ho raccolte a parte, in una busta bianca dove la nonna ha vergato con la sua grafia armoniosa la frase:
momenti di vita…
qualcuno ha aggiunto con mano incerta … in famiglia.

Sopra tutte le altre, quasi consunta, la foto di Giuseppe. Sembra privata della cornice come per poterla tenere fra le mani, accarezzare…
Mamma ricordava il periodo successivo alla morte di nonno come una pausa strana della vita, fatta di alti e bassi.
In certi momenti Rosa era indomita, sprezzante del pericolo, capace di salire sull’alto albero del giardino per liberare un gattino incauto, anche mettendo a rischio la propria vita.
Sembrava che nulla potesse accaderle, che non temesse ferite o pericoli, che il male di tutto il mondo le fosse già stato inflitto.
Infatti il dolore più grande l’aveva già provato!
Poi c’erano giorni in cui girava per casa toccando gli oggetti, come a trarne conforto.
Lucidava il portaritratto in argento come se dovesse penetrare la materia, canterellando sottovoce una nenia antica.
La bella voce da contralto non si levava più per casa…
un giorno anche la foto (quella che ho adesso tra le mani) fu sostituita con un ritratto di bimba…

Fra le carte sono sparsi, con ordine apparentemente casuale, oggetti strani: la spilla della bisnonna, un nastro azzurro intarsiato di pietre dure, un piccolo tralcio secco di rampicante avvolto in carta velina, un cucciolo di cane scolpito nel legno, un aeroplano di carta, uno zufolo, la corda spezzata di una chitarra…
E finalmente quel che cercavo: la ricetta dei dolci!

Mi sono coricata tardi ieri sera. Sono in piedi dall’alba, stamane. È la mattina di Natale e la famiglia si radunerà per il classico pranzo insieme.
Ci saranno regali per i più piccoli, abbonamenti e libri per i più adulti… ma il mio dono sarà di certo una sorpresa.
Non mi importa se avrò il viso stanco, se la tavola non sarà imbandita con la solita maestria, se non ci saranno carte colorate ad avvolgere i “desserts”.

Basta la ricetta della nonna a rendere fragrante il panettone casalingo. L’aggiunta di un pizzico di polvere “viscì” come ha scritto lei stessa lo renderà unico, garantendo il successo, anche se non esce dal forno di una volta. Il segreto di nonna è stato al sicuro finora, ma oggi è giusto che io ne faccia dono a mia figlia. Se lei lo vorrà, aiuterà anche le prossime generazioni di spose e madri: riusciranno a ricreare i vecchi sapori senza il rischio che la pasta s’afflosci o perda consistenza.
A lato proporrò il classico strudel.
Sono emozionata.

Lo scampanellio segnala l’arrivo della compagnia.
Si sono ritrovati in chiesa, non la nostra parrocchia, ma la chiesa di Leumann, dove io sono stata ieri sera per un raccoglimento particolarmente intenso.
Entrano tutti insieme, festosi, annusando…. Il sorriso che si stampa sui loro volti mi riporta indietro nel tempo, donandomi l’impressione che anche coloro che non sono più partecipino in qualche modo alla ricorrenza…
Filippo abbraccia Louise con aria di possesso…ha una luce particolare negli occhi… presto avremo novità, non posso sbagliarmi.
Giovannino pizzica la sorellina, ma solo per richiamare l’attenzione sul carrello dei dolci.
Si solleva un coro di “evviva” ed io gioisco della mia scelta.
Sorrido e lacrime di commozione mi appannano la vista, mentre scorgo la bella mano di Pietro allungare verso di me una lunga rosa rossa.
Forse aveva intuito la mia intenzione di trasformarmi per una volta in “chef” ma fa finta di niente. Mi accarezza il dorso, fino alla nuca. È un gesto semplice che racchiude una rinnovata promessa d’amore. Fuori i rintocchi festosi delle campane esaltano il senso di appartenenza alla famiglia, alla comunità, formulando l’augurio per un mondo che ritrovi fiducia, rispetto, armonia, gusto di vivere e creare insieme.
Di certo non sarà un anno facile, nessuno si aspetta particolari soddisfazioni.
L’importante è sapere di poter contare gli uni sugli altri.
Indissolubile è il legame alla terra, alla nazione, alla patria, ma soprattutto è importante la forza del ricordo che unisce passato, presente e futuro in una continuità di rinnovo che aiuta la quotidianità e, per trasposizione, la funzionalità serena dell’universo umano.
La natura ha sempre in mano il destino del mondo, ma la solidarietà aiuta a superare le avversità.
Questo forse è il pensiero che faremo oggi, prima di iniziare il pranzo di Natale: cercheremo di far sì che ognuno di noi porti in sé una scintilla dell’armonia che condividiamo a sostegno di ogni giorno che verrà.
Bisogna trovare il tempo per l’amore, in sé stessi, in ciò che ci circonda: è il segreto per poter sorridere anche in tempo di crisi.


PIOGGIA

Nell’aria le note di Chopin accompagnano
rimpianti e malinconie dell’animo
come gocce di pioggia che bagnano
fiori che piano si spogliano.

Petali bianchi intrisi e pesanti,
cadono e si sovrappongono
come candido manto diventano
vesti virginee che avvolgono
steli d’erba come turbanti.

Sola e senza una meta,
si culla la barca al largo,
la pioggia la investe, cheta,
la sveglia dal suo letargo.

Così son io che guardo
fuori, laggiù per strada,
triste, senza un traguardo
e niente che mi aggrada.

Poi d’improvviso un canto
si leva di giovin voce,
non far di tristezza un vanto,
a te ed agli altri nuoce.

La pioggia alimenta il mare
anche se grigio appare,
son lacrime che il cielo spende
per rincuorar la gente.


Come La Vita

M’appoggio al davanzale,
laggiù, sullo sfondo, c’è il mare.
Per raggiungerlo cento gradini,
son storti e troppo vicini.
Da bimba saltavo sui sassi,
le pietre adesso son massi.
Cantavo mille canzoni,
ma eran per me solo suoni.
Ricordo ancor le parole,
raccontan di persone sole.
Allora ridevo contenta,
ormai alle frasi sto attenta.
Raccolgo le mie emozioni,
registro le sensazioni,
conservo nel libro un fiore
scettro d’un giorno d’amore.
Ogni dì il geranio s’accende
di una gemma nuova e splendente,
un’altra s’accascia vicino,
finito per lei è il cammino.
Mi capita allor di pensare
che la vita è un po’ come il mare:
se un’onda s’immola alla riva,
un’altra lontano si attiva.
E’ un gioco di corsa infinita,
il gorgo del tempo s’avvita:
bisogna fermare il momento
ogni volta che il cuore è contento.
Come nella vita s’alterna
infinito il moto dell’onda,
così nella mente s’accende
il ricordo che l’attimo eterna.
Il mare profondo nasconde
tesori ed insidie tremende,
per noi cosa ha in serbo il destino
è ognor un segreto divino.
Il fascino dell’avventura
allevia l’esistenza più dura,
se soffri … congiungi le mani
e spera nell’indomani.


Tarah

Non aveva neppure quarant’anni eppure da venti girava il mondo.

L’avevano assunto nello staff del giornale a seguito di un articolo sulla guerra del Golfo che aveva rivisto sotto un profilo politico-economico secondo un criterio dibattuto, ma molto apprezzato.

Il suo spirito critico indipendente gli era valso più di un encomio. Non aveva paura di andare contro corrente anzi, gioiva nel misurarsi con coloro che facevano del giornalismo un mestiere per vivere.

John, come l’avevano ribattezzato, era amato ed insieme temuto perché i suoi articoli scavavano nel profondo dell’evento, ne esplicitavano le cause che l’avevano determinato, senza preoccuparsi dei risvolti economici e senza timore di farsi nemici.

In realtà Giovanni era sempre stato dotato di autonomia di giudizio, incoraggiata dal padre che gli diceva: guarda con gli occhi del cuore, ma ragiona con la mente, la tua mente.

Così il ragazzino intrepido era diventato un reporter affermato, affiancato da un gruppo di persone che lavorava per lui con passione, con affetto, legato da vincoli di elezione che superavano la venalità.

Col suo staff viaggiava attento a cogliere gli indizi che portavano alla notizia, usando il suo fiuto straordinario, solo in parte dono di natura.

Aveva affinato il senso delle problematiche sociali e sovente si trovava sul luogo ancor prima che si scatenasse il fatto.

Qualcuno, invidioso, diceva che “portava male”.

John non se ne curava. Ai lati della bocca compariva una piccola ruga, unico segno di un sorriso ironico.

Gli occhi verdi diventavano di ghiaccio se qualcosa l’indisponeva, ma la sua voce restava calma e non si alzava mai di tono.

Gli amici d’oltre oceano ospitavano volentieri “Iceman” durante l’anno, sapendo che prima o poi sarebbero stati al centro di uno “scoop” di cui non si aveva ancora sentore.

Non disdegnava neppure i tours in Africa, alla ricerca della realtà di vita dei beduini o delle popolazioni di quegli Stati dove ricchezza e lusso inimmaginabili mal si conciliavano con la povertà più devastante di altre aree circostanti.

I suoi scritti venivano citati dalle ONLUS che si occupavano di raccolta fondi per le aree disagiate del pianeta.

John rifiutava compensi per queste relazioni. Del resto non amava occuparsi di questioni legate al denaro che, invece, delegava alla sorella Francesca, come aveva fatto fin da bambino.

Questa, maggiore di due anni, gestiva gli introiti di John con diligenza ed oculatezza, sapendo che non avrebbe ricevuto né elogi né biasimo, in quanto la quotidianità assorbiva Giovanni senza lasciargli il tempo d’occuparsi d’altro.

Francesca trasferiva i fondi necessari agli spostamenti e copriva le spese della carta di credito.

Era sempre a conoscenza degli spostamenti del fratello che sentiva telefonicamente quasi ogni giorno. Li univa da sempre un legame molto forte.

Molte donne erano state attratte da John, ma nessuna era riuscita a catturare la sua attenzione. Le trovava banali. Quelle carine gli sembravano prive di personalità, quelle meno graziose lo disturbavano per lo sfoggio di cultura che giudicava più frutto di letture che non di appassionati approfondimenti personali.

Egli non si fermava mai più di un mese in una località e le relazioni erano comunque destinate a finire inesorabilmente. A meno che…. non avesse incontrato l’amore.

S’era fatto un’idea molto personale di quel sentimento che avrebbe potuto stravolgergli la vita, ma non riusciva ad identificare la persona che avrebbe saputo suscitargli una tale emozione.

Doveva essere colta, raffinata, bella, sconosciuta ai “media”, disponibile a condurre un’esistenza non ancorata alle tradizioni, non troppo legata alla casa, libera di seguirlo nei suoi pellegrinaggi, ma soprattutto dolce.

Questa descrizione faceva sorridere coloro ai quali la proponeva come giustificazione del suo celibato.

“Una donna così non esiste!” dicevano, rassegnati, i suoi interlocutori.

Così John si era adeguato all’idea di poter continuare a condurre una vita movimentata dove l’avventura avrebbe prevalso.

Gli emiri, abituati a sfoggiare diverse mogli, ridevano di lui.

D’altra parte, Giovanni, non le trovava così seducenti come s’immaginava, occupate com’erano a sfornare bambini ed a rimpinzarsi di dolci.

A volte l’harem era così vasto che qualcuna nemmeno arrivava alla presenza del capo, rimanendo negli appartamenti riservati, dedita alle più svariate occupazioni.

Una sera, durante un banchetto, gli avevano parlato di una fanciulla rapita nelle scorrerie da una tribù di beduini, poi liberata, ospitata in una zona appartata in attesa di esser convocata all’illustre presenza.

Si era subito incuriosito, ma gli avevano riferito che non era certo così bella da poter reclamare diritti di moglie.

Senza insospettire i suoi interlocutori aveva cercato di approfondire le caratteristiche della ragazza. Magra, capelli ramati, occhi grigi, appassionata di musica e dedita anche alla pittura: se così era, non aveva poche speranze di finire nel gruppo delle elette.

Nessuna dote particolare sembrava motivare il suo rapimento, se non la capacità di saper scrivere e, soprattutto, di farlo con libelli contro l’emarginazione femminile. Bisognava impedirle di nuocere.

Queste notizie, anziché demotivare John, lo spingevano sempre più a cercare di conoscerla.

In una notte particolarmente calda, quando il respiro del deserto alita sulla sabbia portando con sé sentori di spezie ed accarezza il viso con un’umidità perlata si era trovato, grazie ad un’indiscrezione profumatamente ricompensata, all’estremità dell’oasi, molto lontano dall’abitato.

Una sagoma femminile, avvolta in veli azzurri che rivelavano la figura longilinea, sembrava attenderlo, ferma, come in ascolto, rivolta verso le dune ancora incendiate dal sole ormai tramontato. Accanto a lei un ammasso di sterpaglie accese lanciava scintille e riverberi guizzanti.

Dal punto di vista fotografico fu quasi un’apparizione e lo scatto un riflesso condizionato.

Il rumore distolse la giovane dalle sue meditazioni. Ella si girò morbidamente, mostrando un viso incantevole, incorniciato da lunghe ciocche di capelli fluttuanti come alghe, catturanti anch’esse il riflesso fiammeggiante.

John avrebbe voluto correrle incontro, ma temeva che il gesto temerario provocasse la fuga della sconosciuta.

Tentò una formale presentazione in inglese, ben conscio che le donne arabe devono rispettare rigide regole comportamentali.

Lo stupore per la risposta gli tolse il respiro: “io sono Tarah…” disse con voce armoniosa, leggermente roca.

Poi in silenzio, senza concedergli il tempo di replicare, si era allontanata, lanciandogli un lungo sguardo, quasi un congedo.

Una strana sensazione si era impadronita del suo animo solitario, riportandogli alla mente i suoi desideri finora giudicati assurdi.

Certo la ragazza era avvenente, ma le sue esigenze andavano ben al di là. Aveva bisogno di conoscerla meglio.

Così John mise in moto le sue conoscenze per ottenere un colloquio con Tarah.

L’immagine di lei lo perseguitava, impedendogli di svolgere il suo lavoro come d’abitudine.

Ne era quasi seccato: perdere l’autonomia di cui andava fiero per una semplice visione non era accettabile.

Era assolutamente doveroso approfondire e cancellare l’interesse sul nascere riportandolo alla giusta dimensione.

Dopo una settimana di tentativi, riuscì a farsi ricevere per un’intervista, “per cancellare il ricordo”, disse, mentendo a se stesso.

Tarah diventò, invece, il fulcro dei suoi pensieri: non c’era argomento che non la interessasse.

Ella evitava giudizi facili, non ostentava né modestia né superbia, ma portando motivazioni frutto di lunghe riflessioni.

Dietro di lei facevano bella mostra due cavalletti con opere in via di finitura.

In un altro angolo della stanza erano stipate tele già finite che denotavano un talento apprezzabile, anche se non coltivato.

Aveva seguito insegnamenti privati, di nascosto, con l’aiuto di un padre affettuoso, lungimirante e permissivo che adorava quell’unica figlia ed era morto di dispiacere quando una faida l’aveva fatta prelevare dalla sua casa per un destino, fortunatamente, in parte mitigato.

La sua mente agile le aveva consigliato di guadagnarsi l’amicizia delle altre donne, aiutandole a preparare tisane, infusi e cataplasmi attingendo alle nozioni mediche acquisite in famiglia.

In quel modo aveva potuto “scomparire” come individuo nell’ambito della struttura che l’ospitava.

Raccontava la sua vita senza falsi pudori, con sincerità disarmante.

Si incontravano quasi ogni sera, al tramonto.

Ormai era entrata prepotentemente nella vita sentimentale di John, contro ogni ragionevole dubbio.

Era difficile immaginare l’esistenza lontano dal suo charme magnetico e profondo.

Naturalmente prendere coscienza di ciò era stato un turbamento enorme. Abituato al rischio ed alle decisioni drastiche, aveva deciso di chiederle di condividere la sua vita.

Non c’erano state parole, né atteggiamenti romantici, ma, una sera, semplicemente quanto inaspettatamente, Tarah lasciò cadere i veli che l’avvolgevano, liberando nell’ora vespertina il suo corpo statuario e voluttuoso, ben al di sopra dell’immaginazione.

Gesti e carezze consumate in quella notte avevano cancellato ogni pudore e una speciale intesa s’instaurò tra i due.

La cerimonia, svolta in puro stile berbero, dopo la solenne promessa di “riscatto” formulata al capo dell’harem, concluse un accordo soddisfacente per entrambe le parti.

Tarah si era trasferita nella tenda di John e, durante la permanenza residua nel villaggio, l’aveva aiutato a raccogliere dati ed informazioni utili al suo lavoro.

Era indubbiamente un’ottima interprete ed un’osservatrice acuta: pertanto le escursioni a due avevano attivato un canale d’informazioni interessanti anche dal punto geografico che alcune riviste internazionali si contendevano.

Come al solito, Francesca si era occupata dell’aspetto finanziario e, ultimamente, aveva addirittura procurato alla nuova coppia una serie di interviste socio politiche presso la RAI.

Poi erano rientrati.

All’aeroporto di Caselle, le due donne si erano abbracciate d’istinto. Le accomunava il sentimento per l’uomo con l’aspetto da eterno ragazzo che le aveva fatte incontrare.

John sapeva che la città non sarebbe stata la sede ideale per la sua vita in Italia, per breve che fosse la sua permanenza ed aveva chiesto alla sorella di risolvere anche questo problema.

Così il Defender che lo conduceva nei suoi spostamenti, si fermò davanti ad una piccola costruzione alla periferia di Torino.

A Collegno, infatti, esisteva una casa a due piani, con tetto singolarmente elevato, quasi a formare una specie di terrazzamento. Forse avevano pensato di innalzare la costruzione, realizzando invece una specie di gazebo in muratura, simile alla struttura di un tempio antico.

Sulla destra la montagna del Musinè proiettava la sua ombra conica, con un vago aspetto esotico, quasi a ricordare un amba etiopica.

Tarah era stata immediatamente attratta da quel particolare.

La sua figura immobile, in estasi davanti al profilo della montagna, non lasciava dubbi sull’interesse per quel posto.

Senza perder tempo aveva allestito l’ampia superficie pianeggiante con stuoie e tappeti che le sue abili mani avevano creato, intrecciando ad arte pochi elementi piuttosto comuni.

Il luogo aveva assunto un insolito fascino: nelle serate tiepide si poteva immaginare di essere fuori dallo spazio e dal tempo, immersi solo negli aromi degli incensi e delle piante aromatiche collocate con cura.

Lampade e candele illuminavano la scena, creando un palcoscenico di fronte al quale occhieggiavano luci e danzavano ombre, come se la montagna stessa partecipasse attivamente alla scenografia.

John non poteva credere alla sua fortuna e si stava veramente convincendo di essere al centro di una bella favola in cui non aveva merito.

Tarah era dolce e gentile, sensuale e misteriosa, conservava un autocontrollo invidiabile in ogni circostanza. Si concedeva con passione al suo uomo, lo amava, lo carezzava, lo conduceva all’estasi, ma qualcosa in lei sfuggiva.

Anche questo faceva parte del fascino che aveva ammaliato John, abituato a catalogare gli individui a colpo d’occhio.

Questa donna era unica, splendida, non catalogabile. Gli era diventata indispensabile come l’aria per respirare.

Era tutto perfetto.

Qualche trasferta costringeva John a restare lontano qualche giorno, ma appena possibile, organizzava il rientro.

Dopo qualche tempo, Tarah espresse il desiderio di rivedere quei luoghi che aveva lasciato e Francesca manifestò la sua disponibilità ad accompagnarla.

L’Egitto era in rivolta, ma le due donne sarebbero state seguite da vicino da amici e uomini dello staff, mentre John avrebbe svolto le sue inchieste.

Tarah talvolta si allontanava, adducendo scuse di poco conto, tornando ogni volta con un eterogeneo bottino di pietre, arbusti, animaletti, persino piccole serpi che aveva ricoverato in una teca di vetro.

Si era premurata di rassicurare tutti sull’inoffensività delle sue prede, ma taluni erano rimasti scettici.

Al rientro a Collegno, aveva preso l’abitudine di recarsi alla base del Musinè e di guadagnare a piedi la vetta. John le aveva regalato una fiammante 500 rossa che usava solo per piccoli spostamenti. Adorava camminare e nella zona si era sparsa la voce che una misteriosa donna di pelle scura girasse per i sentieri con fare inquietante.

Francesca si sforzava di smorzare le dicerie, ma a sua volta era preoccupata per la strana espressione che si delineava sul volto della cognata al rientro da quelle scorribande.

Era come se non fosse più lei, era distratta, non riconosceva l’ambiente domestico ed apriva più cassetti alla ricerca di utensili d’uso corrente, come se la memoria le sfuggisse.

Talvolta non rispondeva neppure ai richiami, come se non la riguardassero.

Trascorreva sempre più tempo sul terrazzo, anche tutta la notte, con lo sguardo fisso alla vetta, quasi sotto ipnosi, attenta a captare strani luccichii.

Si accoccolava sulla stuoia ed ondeggiava lentamente, sinuosamente, al ritmo di una musica segreta non percettibile da altri.

Sparivano anche coltelli, ciotole di ceramica e nell’aria si sprigionavano odori di muschio e spezie abbrustolite.

Al mattino c’era sabbia intorno e piccole orme striscianti che si dipartivano dalla teca di vetro dove dimoravano gli innocui serpentelli.

Una litania strana, quasi la nenia di uno sciamano, usciva dalle labbra appena socchiuse.

Apparentemente nulla di sospetto, ma Francesca s’era premurata di avvisare John.

Una sera, dopo la cena gustosa e sapientemente accompagnata da salse ed ottimo vino, Tarah si era fermata come in ascolto di una voce lontana udibile solo da lei.

All’interrogativo, aveva risposto con un laconico “a breve te ne parlerò,… saprai…” che aveva lasciato l’uomo nella più viva perplessità.

Superato il momento, tutto era rientrato nella normalità, all’infuori del tempietto che, sorto dal nulla, s’innalzava sempre più alto, proprio al confine del cono d’ombra in cui la luna si adagiava al massimo del suo splendore.

Il terrazzo assomigliava ormai ad un ambiente stregato, illuminato dalla luce che giocava con il profilo della montagna.

Un fiore d’ibisco, piantato in un vaso li appresso, si stagliava contro lo sfondo simulando l’immagine di un volto velato.

Un sistro ritrovato per caso nel negozio di un rigattiere rilasciava suoni striduli sempre più veloci.

Francesca era salita d’impulso, spinta da una strana curiosità, ed aveva visto Tarah davanti al tempio intenta ad attizzare fiamme da cui si sprigionavano odori nauseabondi, talmente assorta da sembrare essa stessa incandescente.

Il rumore dei passi sulla sabbia, tra le stuoie, aveva sorpreso Tarah, che aveva distolto il viso, trasformato in una maschera terrificante.

Francesca, in preda all’orrore aveva riguadagnato le scale per chiudersi nella sua stanza.

Poco dopo, aveva sentito qualcuno fermarsi davanti alla porta, ansimando.

Piena di brividi s’era cacciata nel letto, confidando che tutto finisse lì.

Il giorno appresso era scoppiato l’incendio che aveva coinvolto i pompieri ed i volontari di Collegno, Alpignano, Pianezza, tanto era apparso devastante.

Sembrava che non ci fossero vittime umane, fino a che non si trovarono i resti carbonizzati di un corpo femminile, vicino ad una 500 rossa anch’essa quasi irriconoscibile.

La polizia aveva poi identificato la vittima come una cittadina collegnese.

John, avvisato, s’era precipitato col cuore in gola, certo che si trattasse di Tarah, la “sua” Tarah.

La vettura era la sua.

Mentre scrutava disperato il cadavere, trattenuto a forza dai presenti, notò un anello alla mano sinistra.

L’artiglio nerastro portava l’anello d’oro e turchesi….di Francesca…….

Si sedette sconvolto, senza più forze, incapace di profferire verbo.

Tante volte aveva visto la morte da vicino, anzi era addirittura andato a cercarla.

Stavolta, però, colpito nel profondo del suo essere, non si dava pace.

Adesso si, a caro prezzo, conosceva la desolazione, il dolore disperato che non lascia spazio alla ragione, la voglia di urlare al mondo il rancore e lo strazio di una fine assurda.

Passarono giorni vissuti in una specie di “trance”, mai lasciato solo.

Amici e colleghi si alternavano al personale medico che l’aveva preso in cura, nel tentativo di fargli superare il trauma con i sedativi.

Tarah, accorsa al suo capezzale, aveva spiegato d’aver prestato l’auto a Francesca, ma non s’era dilungata.

Sul volto di John era comparsa una fitta rete di rughe sottili, quasi come la tela di un ragno.

Lo sguardo gelido era lontano, perso nel vuoto, colmo di sofferenza.

Un mese dopo, rientrato dalla clinica, John comunicò a Tarah l’intenzione di cambiare casa.

Nel frattempo, si sarebbero preparati per affrontare un lungo viaggio in Finlandia.

Aveva deciso di affrontare per il momento temi apolitici, lontano dalle guerre e dalle follie umane.

Aveva accettato un servizio sulle fonti rinnovabili d’energia ed intendeva approfondire sul posto le soluzioni adottate dai popoli nordici.

Tarah aveva piegato la testa per nascondere l’ansia da cui era pervasa.

Adducendo un senso di stanchezza s’era ritirata presto.


PARLAR D’AMORE

Parlar d’amore
è dar acqua a un fiore,
fuoco al sentimento.

Ascoltar frasi appassionate
è suggere nettare d’ambrosia
da fonti inaspettate.

Rimanere vicini, in silenzio
è talvolta l’unico rimedio
all’angoscia e all’odio.

Le parole non dette vibrano
come farfalle nell’aria scura
e l’animo, al vederle, si rassicura.


IL SERPENTE

E’ qui, lo sento.
Non mi serve vederlo, per sapere che c’è.
Sento il suo alito fetido ammorbare l’aria.
Le sue sinuose movenze non fanno rumore.
Quando, finalmente, lo scorgo è ormai vicino.
Luccica, come le borsette delle signore bene, ma è più seducente.
Ha il fascino del maligno. Gli occhi verdi e gialli, dai riflessi vitrei, fissano implacabili la preda, ammaliandola.
Non ci sono reazioni possibili.
E’ più facile lasciarsi andare, permettere che le sue spire fredde arrivino ai piedi, che la testa si erga appuntita e scattante all’altezza degli occhi.
E’ grande, sicuramente forte.
E’ colpa mia: l’ho nutrito durante anni di solitudine interiore, secoli di tolleranza, anni luce d’autocommiserazione.
Non riesco a scuotermi dal torpore che mi assale e faccio il suo gioco.
Danza attorno a me in tutta la sua orribile prestanza, fiero di incutermi terrore ed insieme rispetto.
Presunzione ed orgoglio hanno fatto sì che credessi d’essere più forte di lui.
Lo lasciavo strisciare fuori della tana, credendolo assolutamente innocuo, ormai un compagno.
A volte, in forza del suo mimetismo, stentavo a riconoscerlo.
Come un samurai conservava con cura la spada, pronto a trafiggersi in nome di una concezione d’onore esasperata, così io accudivo la bestia.
Riposava, al fondo dell’animo mio, dove si era rintanata, protetta dai fantasmi del passato.
Tristezze ed affanni l’avevano alimentata instancabili, rendendola infida e letale.
Si nascondeva negli anfratti della mia memoria, nei recessi dell’immaginazione, per comparire d’improvviso, a tradimento.
Un’informe massa d’inquietudine la nascondeva come un velo.
Come per i ciottoli del torrente si distinguono le singole sfaccettature, se esaminati ad uno ad uno; amalgamati diventano un’asperità insormontabile.
Su questa roccia disomogenea scorre, sempre più insidiosa, l’acqua torbida del pessimismo.
Un ramo, capitato per caso, sembra un’ancora di salvezza.
Tuttavia, ad un esame più approfondito, anch’esso è inaffidabile.
Risento il sibilo.
Non riesco mai a capire da dove s’insinua: riuscirei forse ad evitarlo.
Nel momento in cui prendo coscienza di lui è ormai troppo tardi.
Mi fissa, raggelandomi.
Una musica lontana mi riporta alla piazza di Marrakesh, dove altrettanti esseri sinuosi e striscianti subiscono l’ipnosi dell’incantatore.
Lui no. E’ immune da seduzioni di qualunque tipo, non cede a lusinghe o minacce, s’arresta solo per ritornare più pericoloso di prima.
Persino quando m’addormento, so d’essere in pericolo.
Distesa al sole od avvolta in un caldo abbraccio arrivo a sentirmi meglio.
Ma lui c’è sempre, in agguato.
Mi esaspera.
Si pasce della mia temerarietà o dell’insicurezza, non so.
L’unica cosa certa è che ormai sto per cedere, mi abbandonerò alla sua stretta mortale, finalmente.
Almeno sarà l’ultima eterna lotta sfibrante.
Laggiù, nell’angolo buio della stanza c’è una macchia scura.
Non l’avevo notata. Sembra pulsare.
Eppure non s’ode altro.
Più il sibilo si rafforza, più la massa scura si appallottola, si contrae.
E’ ormai vicinissimo.
Un soffio d’aria gelida mi raggiunge, sudori freddi corrono lungo la nuca, la schiena, scendono giù per le gambe, paralizzandomi.
Sento ch’è finita.
Ne sono terrorizzata…, ma anche sollevata.
Almeno smetterò di annaspare, di combattere per liberarmi dell’essere immondo che io stessa ho fatto crescere.

Squilla il telefono.
Non mi ero accorta che piove.
Il tempo non mi aiuta. Non posso scappare sotto la pioggia.
Un altro trillo.
Voglio stare sola.
Il suono continua.
Mio malgrado rispondo, come un automa.

– ciao. Come stai? Ho un problema. Devo vederti. Posso salire?
– Certo………

Neanche finisco di rispondere che il serpente s’avventa,………ma dall’angolo buio il felino fa un balzo, s’ avvinghia alla testa del mostro.
Riconosco, strette in una morsa fatale, le mandibole robuste della mangusta.
Attimi di lotta furibonda e l’agilità di questa ha la meglio.
Non c’è più nulla da fare.
Il serpente è morto.
Salvo rinascere, ……….come l’araba fenice.

Per ora sono salva!
Devo ricordare, però, che si è verificato un fatto provvidenziale.
Forse sarà opportuno che ricordi.
Cercherò di aver qualcuno intorno a me.
Potrei non essere così fortunata un’altra volta.
Mi ricorderò di chiedere aiuto, prima che sia troppo tardi.


IL TEMPORALE

Guardavo l’onda infrangersi sulla rena,
la scia azzurra arretrare,
la sabbia umida schiarire.
Udivo il fragore del mare,
il sibilo del vento nella brughiera,
le strida roche dei gabbiani.
Nel cielo un chiarore innaturale
si stemperava a tratti in lembi più scuri,
come lenzuola strappate.
Il temporale si avvicinava
portando con sé aromi selvatici,
profumi di muschio, erica e rosmarino.
Batuffoli di rovi correvano lungo la spiaggia deserta
sospinti dalle folate irregolari
formando a volte mulinelli
e piccole piramidi di sabbia.
Il primo lampo accecava le folaghe alla deriva sulle onde
costringendole brutalmente a ricuperare l’assetto,
il tuono rimbalzava sulla terra come un suono di timpano.
Io guardavo tutto questo travolta dai miei stessi sentimenti.
Ero allo stesso tempo sabbia e vento, mare e cielo,
minuscolo granello di rena nell’immensità del creato.


UNO SGUARDO SOGNANTE

Uno sguardo sognate alla luna

suggerito da tenero amante

rende già il mio corpo vibrante

col pensiero alla mano sua bruna.

 

Non occorron carezze ardite

per accender i sensi già desti

in memoria di passioni sopite

che un giorno lontano perdesti.

 

La farfalla impazzisce nel seno

non sa più dove sbattere l’ali,

dell’amor non puoi fare a meno

anche se sono scene virtuali.


ABISSI

Avverto l’attrazione dell’abisso,

mentre scendo in mezzo a strane creature,

è un mondo capovolto su se stesso

dove le sommità sono più scure.

 

Abissi e vette di montagna

son sfide allettanti ed insidiose,

ceder all’istinto non bisogna

se è caro ritornar da madri e spose.

 

Per misurar del creato la potenza

basta fermarsi un poco e rimirare

il cielo, la terra, il mare e l’essenza

d’amor che tutto il mondo fa girare.


INSIEME

Siamo nate praticamente insieme, nella stessa sala parto dell’ospedale, ma per lungo tempo abbiamo ignorato la reciproca esistenza.

Io mi lasciavo coccolare dai miei genitori, tu te ne stavi appartata, stranamente apatica, priva di stimoli.

Superammo gli anni dell’infanzia, bene o male, senza contatti, malgrado la vicinanza.

Poi io cominciai a mostrare la mia indole curiosa, ribelle, anticonformista.

Non avevo problemi ad esprimere le mie opinioni, pur rispettando quelle altrui.

Tu rimanevi in disparte, assistente silenziosa delle mie esibizioni.

Eppure, proprio per l’atteggiamento non conflittuale, cominciavo lentamente ad accorgermi di te.

Quando mi preparavo per uscire, oppure per andare a cavallo od a ballare, la tua espressione si faceva perplessa ed io mi sentivo a disagio sotto quel sottile sguardo inquisitore.

Non riuscivo a penetrare nei tuoi pensieri, eri imperscrutabile, malgrado intuissi che non rimanevi indifferente ai miei atteggiamenti.

Non entravano in competizione mai, neppure nel periodo delle follie amorose.

Io mi lasciavo incantare da una bella voce, da un bel portamento, da una mente brillante.

Tu ti dedicavi all’arte, alla musica, alla lettura.

La tua fame di sapere non aveva limiti, se non il tempo.

Eri capace di emozionarti per un tramonto infuocato d’Africa, mentre io assaporavo la carezza sottile del sole sulla pelle.

In montagna ti illuminavi di riflesso al bagliore cristallino dei ghiacciai, o vibravi di gioia al candore assoluto delle nevi d’alta quota.

Io, invece, assaporavo l’ebbrezza dell’altitudine, il batticuore che mi faceva sentire viva, la sensazione sublime di essere ad un passo dal cielo.

Decisamente non avevamo molto in comune, almeno all’epoca.

Poi venne un tempo in cui ci trovammo a condividere le stesse esperienze.

Non potevo più dimenticare che il destino quasi ci aveva legate.

Passammo ad una convivenza, dapprima forzata, poi più spontanea.

Presi l’abitudine di seguire i tuoi consigli, malgrado la tua saggezza costante mi facesse talvolta irrigidire.

Tolleravo male le riflessioni che mi imponevi; eppure i fatti, di solito, dimostravano che avevi ragione.

Ti giudicavo superba e noiosa, ma dovevo riconoscere che la mia vita, ora, senza te, non avrebbe avuto senso.

Si era creata una simbiosi atipica.

E’ frequente, dopo anni passati insieme, che ci si capisca senza bisogno di parole, che le intuizioni creino una reciprocità assoluta.

Così fu tra noi.

Ormai mi preoccupavo più di te, del tuo benessere, della tua serenità, che del soddisfacimento dei miei desideri.

La fantasia mi veniva in aiuto quando la mente non riusciva ad elaborare la soluzione di un problema.

Eppure l’esperienza non è mai sufficiente.

C’erano attimi in cui avrei voluto allontanarmi da te, ripudiarti, fuggire, liberarmi per sempre da questo stato di fatto.

Un secondo dopo questo pensiero mi faceva star male.

Tu eri diventata la cosa più preziosa al mondo.

Sentirti accanto mi dava la forza di affrontare il mondo, di continuare a lottare per le mie idee, di esternare con forza concetti magari ambiziosi ed insostenibili, ma che scaturivano dalla mia mente non appena mi lasciavo andare.

Questo rapporto strano ed affascinante non era a conoscenza di nessuno.

Non avrebbero capito.

La gente normale è abituata d’istinto a giudicare, a catalogare, a sentenziare.

Dunque questo segreto rimase totale, fino ad ora.

Perché ora è diverso.

Abbiamo ragionato a lungo, tu ed io.

Hai preso atto del mio attaccamento, della mia dedizione assoluta, del rispetto che ti ho sempre riservato.

Non abbiamo messo in discussione la solidità del nostro sentire all’unisono.

Mi rendo conto però che da sola non ce la faccio più ad accudirti.

Le mie forze mentali superano quelle fisiche, di certo, per ora.

Non posso prevedere quanto questo stato di cose durerà, ma devo prendere provvedimenti.

Per questo ho deciso di privarmi di te, meglio, di condividerti!

Domani gli dirò:

            Prendila con te, se vuoi, accudiscila, non gettarla anche se talvolta ti contrasta.

            Abbi cura di Lei!

            Non la deludere. Se non l’apprezzi, non hai che da dirmelo!                      

            Io sono pronta a riprenderla con me.

            Lei può vivere senza di me, io no: è il dono più grande che possa farti.

            E’ la mia anima.


DALLE ALI IN POI

Nacqui

con ali per volare.

 

Crebbi

con piedi per marciare.

 

Vissi

con mani per creare.

 

Amai

con animo da bruciare.

 

Conobbi

la gioia di sperare.

 

Lasciai

le mie carte da giocare.

 

Rimasi

con la voglia di cantare.

 

Allenai

le braccia per nuotare.

 

Ritrovai

la vita in mezzo al mare.

 

Ripresi

il gusto di ricordare.

 

Tornai

stavolta per restare.


Farfalle

Le ore volano come diafane farfalle

sullo sfondo plumbeo del tempo.

Nascono tutte uguali,

si librano lente ed incolori

nell’aere immoto.

Siamo noi che le coloriamo,

nella nostra memoria le battezziamo

ore liete, ore funeste, ore felici, ore vuote.

Ad una ad una si immolano ogni giorno

su uno scampolo di cielo cupo

come una lastra d’ardesia.

Si fermano impalate in attesa

che un’altra giornata avanzi

e che le loro sorelle le rimpiazzino

negli spazi rimasti vuoti.

Così sarà fino a che un tocco di campana

fermerà per sempre il volo

delle nostre farfalle.

 


IL CAMMINO DELLA SPERANZA

Viaggiai sulla sabbia per giorni e notti,
passo dopo passo, con sudore, sete,
abiti a brandelli e sandali rotti,
sognando lavoro e nuove mete.

Chiedevo pioggia come benedizione,
ma solo vento caldo mi rispondeva
cantando tra le dune la sua canzone
mentre la notte sopraggiungeva.

Ora c’è acqua fuori, avanti e intorno,
soffro la fame e non so nuotare,
sento che ormai non farò ritorno,
…. anche l’arrivo mi vedrò negare………..


 

IL MARE DI NOTTE

Abbandonata sulla rena ancor calda,
attendo che la notte inghiotta il mare,
sospesa nell’attimo d’eterno
privo del chiarore delle stelle
e delle sciabolate dei fari.

Avvolta nel manto oscuro
assaporo la carezza del vento
sulla pelle, tra i capelli…
la melodia arcana della risacca,
libero la mente dalle ansie.

L’anima vola lontano,
si tuffa nei ricordi del passato
selezionandoli per non troppo soffrire.
Quanto pesa l’anima? Non so.

Eppure, senza quel macigno
che grava su di me, sento
di appartenere ancora al creato,
d’apprezzar la vita che
per troppo tempo ho trascurato.


 

NOTTE DI PIOGGIA

Dopo questa notte di pioggia cercherò un rifugio asciutto, dove rimettermi in forma.
Così ridotta non potrei sopravvivere a lungo.
Sarei vittima di mille pericoli e non riuscirei neppure a fuggire.
Non ne ho più le forze.
L’umidità mi ha rovinato.
Ricordo l’azzurro dei cieli d’Africa, il verde delle savane, il frinire delle cicale, il calpestio di zoccoli delle mandrie in movimento, l’odore acre delle zolle smosse che trasformavano l’aria fragrante di spezie in nuvole di polvere irrespirabile.
C’erano pericoli anche qui, forse di più, ma mi sentivo libera, felice, gioiosa.
Ero portata a considerare possibile qualunque impresa.
Mi sentivo forte, vivace, persino leggiadra.
Certo sono nata bruttina, ma poi mi sono trasformata e tanti hanno cercato di fare di me un trofeo.
Sono veloce, ancor oggi quando sono in forma, ma la mia caratteristica è il cercar d’essere avveduta.
So che troppa luce mi potrebbe uccidere, troppo caldo soffocare, …
Devo contenere le energie nel mio esile corpo e cercare di dirottarle su quanto mi stimola.
Amo i fiori, le grandi corolle sgranate verso il sole, rilucenti di rugiada al mattino così da sembrare cristalli.
Amo le piante, senza distinzione.
Le esili piantagioni di bambù diventano in fretta una foresta in cui nascondermi, le chiome dei baobab non risentono apparentemente del vento, pur accompagnandone il movimento e la loro solidità invita ad un tranquillo refrigerio.
Resto comunque vigile, anche nell’immobilità, perché gli agguati sono costanti e molteplici.
So che la mia esistenza è in continuo pericolo, ma non ci penso.
Altrimenti sarebbe come già rinunciare a vivere. Colgo l’attimo fuggente di felicità che talvolta mi appaga più di quanto possa concedermi. Eppure non per questo m’illudo.
Amo la vita, il mondo, i colori, gli spazi aperti, ma soprattutto l’aria…………la libertà,
le acrobazie.
….E il vento.
…Non troppo forte perché mi travolgerebbe, nella mia fragilità.
Adoro lasciarmi cullare dalla brezza leggera, abbandonarmi all’abbraccio dolce che mi rassicura e m’aiuta, respirare il salmastro dell’oceano non lontano o l’afrore delle acque infestate da animali di ogni specie.
Vivo in movimento tutto il giorno. Praticamente non mi fermo mai. Anche quando sembro immobile, le mie membra vibrano e fremono.
Non cambierei questo stato con un altro più duraturo nel tempo…. Sono felice così….
…Sempre che queste mie splendide ali sottili di farfalla tornino asciutte e… mi permettano di nuovo di VOLARE!


 

FUMO

 

E’ un giorno normale

di vita quotidiana.

Eppure stiamo male,

non è una cosa strana.

 

Un fumo nero avvolge

la tela dei ricordi:

Il pensiero si rivolge

a Chi davver non scordi.

 

La mente gioca scherzi,

riporta nel passato,

annega nel sorriso

un pianto disperato.

 

Forse è nell’aria

Il manto di tristezza

che indossi stamattina

… senza consapevolezza.


L’ELEFANTE E LA FARFALLA

La calura accende la savana,

un passo lento d’elefante

nell’aria infuocata risuona,

risveglia la natura tremante.

 

Sul suo corpo il peso degli anni

nella mente la saggezza dei ricordi,

dell’uomo è avvezzo agli inganni,

nel mondo è l’emblema dei forti.

 

Cullata da soffio di vento,

lieve come petalo di fiore,

volteggia leggera una farfalla

immersa in un viaggio senza tempo.

 

Breve è la sua vita,

ma leggiadra.

Volare è il suo destino

fin che muore:

chissà se nel cuore

si domanda

se esiste scelta migliore.

 

Non so se son farfalla o elefante,

certo è che ho un’estate per danzare,

ma il mio corpo non cessa di vibrare,

sotto un greve macigno di dolore.


NEBBIA

La nebbia cala come un sipario grigio

sulla scena d’ogni giorno.

Contorni indefiniti conferiscono

nuova immagine al mondo.

La solita strada, il grande viale,

m’appaiono più spettrali,

angoli d’un paradiso lunare

in cui anche il respiro condensa,

accarezzandomi la guancia.

I passanti frettolosi trascurano

le pallide immagini sfocate,

le luci formano scie luminose

e tremano,

come se una sciarpa magica le avvolgesse.

Persino i muri delle case ostentano

colori più sfumati,

le crepe s’attenuano e l’acqua

scorre lenta e silenziosa,

lambisce le sponde del canale

e schiaffeggia la prua del vaporetto.

Quest’umidità ha un odore,

di gigli d’acqua e di salmastro,

un colore,

quello dei sogni che svaniscono all’alba,

un sapore,

quello dei desideri inesprimibili.