IL BRACCIALETTO DELL’AMICIZIA

“Avete pareggiato, rifate!” La voce di Agatha, già distorta, mi

rimbomba nelle orecchie.

Occhi che guardano. Volti appannati. Guido sorride.

I sei bicchieri sembrano agitarsi mollemente, sul mare di

sanpietrini che è diventata piazza Verdi.

“Uno. Due. Tre!”

Via un bicchiere. Poi l’altro. L’ultimo, infine.

“Haaa Viiintooo Guuuiiidooo.” Le parole mi arrivano lentissime

alle orecchie.

Gli occhi mi si chiudono. La piazza vortica come una giostra

impazzita.

Acqua. Ho bisogno di acqua.

“Faccio due passi…” Dico a Camilla, con un filo di voce.

Un passo, poi l’altro.

Il centro di piazza Verdi. La “Scuderia”. La via subito dietro.

Mi appoggio ad una colonna e scivolo giù, fino a trovarmi seduta

in terra.

Voci: la voce di Camilla, vicina; la voce di Alessandro,

lontana, meccanica, di telefono cellulare.

Il senso di colpa e l’alcol mi attanagliano la gola.

Tempo… Quanto tempo è passato? Minuti? Ore?

Non so dirlo. Mi gira la testa.

Rumore di passi. Voci. Alessandro. Camilla. Vicini. Entrambi.

Non riesco a distinguere le parole nel brusio indistinto che mi

martella nelle orecchie e nel

cervello.

Mi appoggio. Delle braccia mi stringono.

Chiudo gli occhi, al sicuro, protetta.

Cantiamo, io e Alessandro. Cantiamo le canzoni dei cantautori.

Sono stonata, più ancora del

solito.

Parliamo, tutti e tre. Io mi metto a correggere la grammatica ad

Alessandro. Non so se sia vero.

Pazienza, come leggenda mi piace.

La serata continua.

Piazza Verdi. Via Zamboni. La festa al 38. Le scale antincendio

del 38.

Tutto il resto?

Il vuoto mentale ed un braccialetto che porta i colori della

bandiera jamaicana legato al mio polso

destro. Il braccialetto dell’amicizia, l’ha chiamato Alessandro.

Mai sentito nominare. Pazienza, mi

piace, il braccialetto dell’amicizia.


RETTITUDINE ­ STORIA DI UNA LINEA CHE VOLEVA DIVENTARE

DRITTA

La mano si muove velocemente sul piano, la matita calca sul

foglio in maniera goffa, imprecisa.

Il tratto che ne deriva è secco, spesso, macchiato.

Guarda il foglio, l’alunna dell’Accademia. Io lo sego in due

parti, di dimensione considerevolmente

differente non solo considerando la sua parte superiore rispetto

a quella inferiore, cosa che

sarebbe ancora passabile… No! Anche il lato sinistro e destro

del foglio hanno altezze differenti.

L’alunna mi guarda e sospira. E’ disperazione quella che

esprime? Guardi me, prima di disperarsi,

guardi il mio essere storpia ed ingobbita.

Lei si dispera? Lei? Ed io allora? Io cosa dovrei dire? Come

dovrebbe reagire la sottoscritta ad un

parto talmente malriuscito, all’essere un aborto a matita,

schizzato lungo un foglio di carta?

Ammetto di essere un esercizio, non nego che lei sia qui per

imparare, ma anche un esercizio ha

dei sentimenti. Va bene che si eserciti, va bene che lo faccia

per migliorare, mi chiedo solo come

mai debba essere io a pagarne le spese.

Mi guarda con astio, quando meriterei solo compassione. Invece

gli occhi castani, ora ridotti a

fessure, trasmettono solo odio nei miei confronti. Non le faccio

pena, figuriamoci impressioni

positive. Rinnegata dalla mia stessa creatrice, odiata per

l’unica colpa di essere riuscita male, di

essere storta.

Spero non abbia mai figli, la mia creatrice. Già odia me, per

essere una linea storta, uno schizzo,

un semplice esercizio grafico. Figuriamoci una bambina. Ma

riuscite ad immaginare? Immaginate

che abbia un’occhio leggermente più grande dell’altro, una gamba

leggermente più corta della

sua copia. Immaginate come guarderebbe quella bambina che

avrebbe i suoi geni, che sarebbe il

suo futuro se già riesce a guardare colma di astio un esercizio

per allenare la mano. Meglio che

non abbia mai figli, fidatevi, lo dico nell’interesse della loro

ipotetica esistenza.

E adesso che fa? Sospira e prende la gomma. Tremo di paura,

infatti oltre ad essere storta sono

anche tremante. L’operazione mi attende, senza nemmeno

l’anestesia, ed è un’operazione

complessa, dovrebbe farla un chirurgo della matita; una mano

ferma, precisa, sicura, una mano

come quella dell’insegnante. E invece la mano che tenta

l’operazione di rettitudine appartiene di

nuovo a lei, a quell’allieva che mi ha creato e che tanto mi

detesta.

La prego di fermarsi, la supplico dal foglio, ma lei non sembra

udire la mia voce, non presta

ascolto alle mie preghiere e pone davanti a sè gli strumenti

necessari all’operazione: gomma e

matita, o portamine volendo essere precisi.

La gomma graffia il mio corpo, piegando il foglio mentre

cancella i miei errori. Il dolore pervade

tutta la mia lunghezza, segata a metà da frammenti di gomma

macchiati dal mio sangue di grafite.

Non ascolta le mie urla, non presta attenzione al mio dolore,

mentre mi guarda con interessato

disprezzo, come farebbe uno scienziato dinnanzi ad uno di quegli

animali nati con due teste

invece di una. Studia attentamente il foglio, prende le misure,

macchiando il foglio con i suoi

polpastrelli; infila, concentrata, la lingua tra i denti,

appoggia la gomma ed impugna il portamine.

Non guardo cosa accade, ho il terrore di farlo, e quando apro

gli occhi trovo sul suo volto quella

stessa espressione di disprezzo solo, questa volta, ancora più

accentuata.

“E che palle… E’ più storta di prima!” La sento dire al suo

vicino di banco. Il ragazzo ride, “Sembra

una liana a parabola.” dice, riferendosi al mio essere ondulata

e curva. Ridono entrambi. Viva la

finezza! Complimenti per il tatto! Un razzista, rivolgendosi ad

un africano, avrebbe probabilmente

avuto maggior delicatezza.

E tu, insegante, perchè non hai corretto il disegno della tua

alunna? Perchè hai lasciato che la

fine diventasse talmente tragica?

D’altronde non rimane che una possibilità. La corda, quando

tirata, da curva diventa dritta ed

anche le sue parti ondulate si stendono bene. Spero che lei mi

ricordi, se non altro come martire

dei suoi disegni. L’impiccagione radrizza la corda, ebbene mi

impicco e che questa linea sia dritta,

che lei, sadica, possa guardarmi con gioia ed affetto.