La caduta dell’uomo

Nel tempo ‘n cui dall’Eden fuor cacciati
per seguir in Inferno lo predone,
dalla stirpe ‘n ciel fummo essiliati,

e fra li figli corse la tencione
per cui l’uom perse ‘n suso ‘l suo Compare,
cha mai al figlio la colpa sua perdone.

Quindi sarà aspro il mio cantare
della stirpe mia, ch’io discender vidi
dal Parnaso a quella fosca are;

onde a Pluton si porgon quelli gridi
che sguainar la spada all’omo fanno,
facendo carbon dei materni nidi.

Laida opra fu del Dio, che con l’inganno
agl’occhi di Caìn volpe si fece,
e nel sangue del frate chiuse ‘l danno;

facendo gustar ciò ch’a lui è lece,
a Moìse scrisse della speme ‘l costo
per l’umana stirpe in quelle diece.

E più nell’abisso ‘l suo ‘nferno opposto
a sé traeva l’uom per idolatre,
più gelo fu nel popol corrisposto,

e quindi ai figli dell’eletta matre
menati fuor quei giudici e guerrieri,
che rimembrar fero l’antico Patre.

Ma fuor ratti a scordar quelli sentieri
che dal libro li giudici marchiaro
contra li padroni, turpi e fieri;

ché se l’oro non fesse l’uom avaro,
quel vitello porto in sull’altare
non sarebbe al ciuco così caro.

E guai a quell’om, ch’al suo adorare,
la collera vien posta dal Monarca
ch’aspro fè la mano al suo vengiare,
ché di sangue la terra sua n’è carca.
E se ‘l perdono ad Israel concede,
fra ‘l Giordan colli invasor l’acque varca;

ma nel tempo ‘n cui l’avarizia siede
nella stagion onde Dio s’è ascoso,
l’eterno mal dell’uom il mondo fiede.

Sì che ‘l giudeo di Dio s’è fatto sposo,
e porge ‘l feticcio all’eletta gente
che Giosuè nell’arca fè corroso;

e ‘l sangue che riversa fu parvente,
dalla madre ch’ancor nutre ‘l lattante
in Canaan onde guerre fuor cruente.

E di figlie sacrificate e piante
quel Rio concesse, che ‘l coltello prese
Iefte alla figlia, e con lui altre tante;

e non bastò a far sì donna cortese,
come Rut, che dolce e vedovella
il seme di Iesse in grembo prese.

E per seguitar l’omo miglior stella,
in seno al suo Dio piange e tace
e del mal ch’ei riversa non favella;

ché del morente bene si compiace,
di Davìd ch’al Filisteo riconquista
quell’Imperador suo che ‘l regno face.

Ma la faccia del ben mai qui fu vista,
perché ‘l dolor che tutto ‘l mondo avvinghia
ringrassa a Pluton l’inferna lista.

E Cerbero ch’al profeta arringhia
è cagion ch’Israele si superba,
ed il sottomesso a Geova cinghia,

in tal guisa il giusto mai non verba,
e più ‘l Messia vuolsi che divien duce,
più mal s’allette e l’anima s’acerba.

Ma s’ode quel Belzebù, che seduce
quella stirpe che per Dio si innalza
al cananeo, e la guerriglia conduce.

E così fue che la bona legge scalza,
perché al giudeo superbia gli crebbe
e per la Mecca ancor oggi odio alza.

E non bastò la linfa dell’Orebbe
ad armar la pazienza nel diserto,
onde lo stormo d’amor Dio riebbe;

perché non fu del patriarca il merto
se arse d’amor la santa passione,
che ‘l cammino dell’omo fè più erto.

In quanto ogn’om per l’altro fu padrone,
e vuol che il nimico sia ficcato
nell’antro in cui v’è l’infera Iunone,

ma non sia il duol cagion d’un peccato
perché infra le fiamme l’omo fia,
ma sol ché ‘l cupido l’ha giustiziato.

E quando le leggi fuor date pria,
sul Sina la tencione al dolce frate
fu cangiata come iusta cosa pia;

perché s’allor fuor sane le mazzate
fra padre e ‘l figlio e ‘l suo germano,
per dio sante furo quelle già date.

E nel monte onde ‘l Dio par Satàno,
quei detti d’amor orbi alla serva
fuor per l’anni miei il lurido pantano.

Poscia che giunse la dolce Minerva,
a porger al novo Elia ‘l suo seno,
pria che la Giudea si fesse proterva

e le spine alla corona dieno.
Perché quel leone alla sua preda,
niegò a lui il gusto del suo fieno.

E se ‘l mal dell’om con la croce seda,
il verbo onde attigne ‘l falegname
è l’umano dolo che dio conceda

a chi della legge fa la sua fame;
e sì quel fariseo d’ella si fregia,
onde li figli sui fè viver grame.

E sulla croce, che Dio sputa e sfregia
sull’umana spezie che lo costrinse
a pianger la borghesia sua egregia;

ed in più fiate la speme il dipinse
l’occhio lucido suo, al ciel rivolto
per l’offesa del boccon che s’intinse.

Non fu ‘l diavolo, ma ‘l Sinedrio stolto
a pascer l’essercito e ‘l turpe gregge
sul Calvario che di pianto era folto,

perché quando ‘l Verbo la croce regge
ed erto si fè ‘l disperato grido,
la speme al giudeo scuoterla degge.

Sì Ierusalèm, da nido a nido,
il dir Suo vien porto dai Vangelisti
in Roma, che fero l’ovile fido;

onde li povri al poter fuor visti,
con magia e scettro incantar la fede
per la qual nacquero li falsi Cristi.

A Niceà, al cristiano si concede
d’armar li discepoli con la spada,
e di far dell’altri fiere e prede;

avendo speme che la luce cada
nella gabbia ch’era dei padri pria,
quando la libertà splendea men rada.

Ed or che s’è fatta fosca e ria,
la libertà è in quel crociato scudo
e nei fior al feticcio di Maria.

Fu l’assemblea a far l’omo laido e crudo,
fu Dio che volle far l’imperadore
perché ‘l cristiano fosse d’alma nudo;

la fè in tal guisa perse ‘l suo splendore,
perché Colui che si nomò giudìce
si perse fra ‘l pensier del mio amore.

E risorse dal foco la fenice
che liberò me dalla dura soma,
onde apersi la penna che m’è lice,

cingendo di mirto la prava Roma.
E mirando ‘l ciel dalla fosca cella
vid’io la Citerea che nissun doma,

e ardea d’amor la matutina stella.


Restiamo Umani

(dedicato al popolo palestinese e a Vittorio Arrigoni)

Odo da Gaza lacrima che versa,
per la cagion ch’in guisa di leone
Israel piange la nova tencione,
nell’Europa malata e perversa.
L’alleanza nova in Moìse s’è persa,
al suo essercito, turpe e predone,
che sue leggi a tutto ‘l mondo impone
ed il sangue al lattante riversa.
Riodo quel che Gaza la condanna;
colui innocente fra li cristiani
che da quel suo ciel attende la manna.
Foco e legna alli musulmani,
nel grido di Vittorio che si danna,
alle stelle ei dice : Restiam Umani !


L’Inferno degli angeli

(dedicato alle vittime di pedofila)

Qual è il lattante, che tristo s’insola
per il cotanto pianto che riversa,
accioché quella Fuia fia perversa
perché della carne sua ne ha gola.
Io lo veggo ‘l fanciullo che s’immola
in sul trono che sangue suo si versa,
quindi che, quando la speme è persa
raminga nello ‘nferno vaga sola.
Dolor fu ed è sì molto e travaglio
per l’animo mio, che si ripercote
nella penna, che qui senza bavaglio.
Ma io speme ho, ch’ognun di noi ha dote,
e puotesi salvar dal turpe taglio
che nel Quirinale voci son note.