La maschera neutra

Un mal di testa lancinante mi svegliò una mattina. Non somigliava a niente che il mio corpo avesse già conosciuto, e si imponeva prepotente al centro di ogni mio pensiero. Una sottile linea metallica che attraversa la fronte da parte a parte, stridendo di un rumore impercettibile, glaciale, teso fino allo spasmo. Nel maldestro tentativo di riguadagnare la percezione spaziale diedi un calcio al termosifone. Era tardi, molto tardi.

 

Cercando di spostare l’attenzione su questo dettaglio cruciale mi vestii in fretta, imprecando per il mignolo dolorante. La bicicletta mi reggeva a stento mentre pedalavo quasi alla cieca per la ben nota strada, con larghe macchie nere che si dimenavano davanti ai miei occhi.

Stavo per oltrepassare la soglia della mia classe, avevo già alzato il pugno sulla porta verniciata di un discutibile rosa acceso, e mi fermai. Sapevo già cosa stava per succedere, era successo innumerevoli altre volte. Non hai rispetto per gli altri, sei quello che abita più vicino e sei sempre in ritardo. Io avrei porto le mie scuse, a testa bassa, e mi sarei poi rintanato in terza fila a recuperare il sonno interrotto così crudelmente. Quindi come da copione feci un respiro e bussai, aprii la porta e non guardai nessuno, in attesa del giudizio. Ma nessuno parlava. Qualche interminabile secondo e volsi timidamente lo sguardo alla cattedra, e alla sua austera occupante: ma lei mi guardava attonita. Non ci feci troppo caso, non ero molto in grado di pensare, mormorai le mie scuse tra i denti, a voce così bassa che probabilmente nessuno le udì, e mi misi a sedere.

 

Ma mentre passavano i minuti di quella prima ora di lezione, nonostante la parvenza di normalità a cui tutti cercavano goffamente di adeguarsi, l’imbarazzo, la tensione era palpabile. Ricevevo di quando in quando occhiate fugaci da ogni direzione, e non riuscivo a scrollarmele di dosso. Ma in effetti mi sentivo strano; il mal di testa non mi dava tregua, e sentivo la parte sinistra della bocca tirare verso il basso, come se avessi conficcati degli artigli legati ad un peso. L’idea mi rimandò a una mostra di fotografia che avevo visto anni prima, di uno spettacolo circense, dove certi psicotici si facevano uncinare degli strati di pelle, e gli uncini venivano appesi al soffitto. L’immagine mi fece inspiegabilmente ridere.

La stanchezza era molta ma la sensazione strana che stavo vivendo si era ampliata e articolata. Gli artigli cominciarono a trascinare la mia pelle in su e in giù, a destra e a sinistra, senza che io muovessi niente e senza che la mia mano potesse carpire questi movimenti quando andava a toccarmi la guancia. La sensazione di straniamento era tale che mi decisi finalmente a verificare lo stato delle cose: chiesi di uscire, permesso accordatomi nonostante il divieto assoluto di evacuazione durante la prima ora, e mi diressi verso il bagno dei maschi, l’unico provvisto di specchio: quando vidi l’immagine riflessa stentai quasi a riconoscermi.

 

La parte sinistra della mia faccia era completamente immobile, insensibile a qualsiasi impulso del cervello: la disparità con la parte destra era palese e formava costantemente delle espressioni deformate, effettivamente inquietanti da vedere, che falsavano qualsiasi relazione tra la mente e la sua proiezione nel non verbale. Cercai ingenuamente di aggiustarmi con le mani, di arricciare il naso alzando la parte sinistra con il pollice, ma questa ricadeva inesorabilmente giù, come le sopracciglia, le labbra…metà della mia faccia era diventata una maschera neutra, immobile, quasi austera, immacolata. Non tradiva la minima espressione, si era fossilizzata in una dignità che mal si confaceva con il moto frenetico della parte destra, così sgarbato, così volgare!
Sulle prime non la presi molto bene. Per mesi, oltre alle terapie, non uscivo di casa. Non potevo accettare il fallimento del mio aspetto esteriore nella sua missione principale, la normalità, e le paranoie sugli sguardi indiscreti della gente ebbero la meglio. Smisi di andare a scuola per poter immergere le mie scombinate proporzioni nei libri: cominciai a leggere di grandi personaggi alteri, sprofondati nell’oblio delle proprie pulsioni, ottenebrati dall’ambizione, parricidi, epilettici, grandi principi decaduti; lessi di cose stupefacenti, uomini che pur di evitare la morte erano disposti a vivere per l’eternità su di un eremo circondato dalla tenebra eterna; feci della mia vita l’inno altisonante ai più alti ideali e alle più torbide passioni, all’eterna distruzione…virtuale, poichè nella realtà l’unica cosa in cui sprofondavo era il divano di casa. Mi sembrava un buon compromesso tra l’eroismo e la sicurezza di un terreno sotto i piedi.
Poi un giorno costrinsi me stesso alla quotidianità, e decisi di uscire. Presi la metro la cui tratta descrive un anello attorno alla zona più centrale della mia città, quella che ci impiega un’ora a fare il giro completo, passando dalle stazioni dei quattro punti cardinali; la prendevo spesso anche prima, mi piaceva non dover scendere e vedere gente sempre diversa.

Come sempre presi il primo posto che mi capitava, per essere imparziale nel mio giudizio su chi avevo intorno, e cominciai a guardare dal finestrino, ma mi distrasse subito un odore acre e penetrante; avevo davanti una donna di mezza età, con i capelli incanutiti prima del tempo, scompigliati e raggruppati in dei riccioli che cadevano incerti sulla fronte, a coprire gli occhi. Lo sguardo era assente, imperscrutabile, ma tradiva la bellezza di due grandi occhi verdi che si muovevano impercettibilmente verso l’alto e verso il basso. La bocca lievemente aperta si articolava in parole sussurrate così vicino al finestrino che una nuvola di vapore si formava e si disfava periodicamente senza che l’autrice se ne avvedesse. I lineamenti affilati ma poco decisi suggerivano che la donna era dimagrita in poco tempo e senza intenzione, dettaglio rimarcato dai vestiti larghi e sgualciti; sui pantaloni leggeri, di cotone, una chiazza bagnata all’altezza dell’inguine giustificava l’odore penetrante che per primo aveva carpito la mia attenzione. Un piede continuava a battere convulsamente per terra, arrivò ad un certo punto a sfiorare il mio. La donna non sembrò curarsene.
La sfacciataggine che mi contraddistingue in questi casi e il suo scarso interesse per il mondo circostante permisero al mio sguardo spudorato di indugiare a lungo su di lei e su ogni minimo dettaglio; la macchia bagnata sui pantaloni si era espansa fino a quasi metà coscia, il piede aveva interrotto il suo battito e si limitava ora a strisciare languidamente sul pavimento. L’aria si era fatta ormai quasi irrespirabile e contemplai l’idea di alzarmi e andarmene, ma mi vergognai subito di questo pensiero scortese, quasi che il legame ormai stabilito tra noi (la sua partecipazione ad esso chissà perché non mi preoccupava) mi tenesse inchiodato dov’ero. Mi pareva fuor di dubbio che, in quei lineamenti cicatrizzati nella stessa espressione, in quei vacui occhi verdi, ci fosse bellezza, una bellezza ormai sbiadita, sepolta tra le innumerevoli increspature della sua pelle, ma presente e viva, pulsante; mi resi conto in un momento che era presente in lei la stessa dignità che avevo imparato a conoscere sulla mia pelle, sulla mia maschera neutra, la dignità che si manifesta su un volto inibito dalla malattia, senza moto, un velo dell’ordine che cela sotto di sè la tempesta dei Dantés, degli Amleti, dei Karamazov; e mentre mi perdevo in queste elucubrazioni, cercando di scorgere una qualche scintilla nei suoi occhi riflessi sul finestrino, lei si girò di scatto, e mi guardò fisso nei miei. La sua maschera si infranse in un sorriso ingenuo, infantile, che rivelò una fila di denti neri e corrosi dal tempo. Non riuscii a sostenere quello sguardo: mi alzai di scatto e me ne andai, ancora prima di rendermene conto.
C’è un dipinto di Theodore Géricault che da sempre ha rapito la mia attenzione: è il ritratto di un negro a mezzo profilo, che guarda in un punto indefinito dello spazio, verso sinistra rispetto all’osservatore: il suo sguardo è infinitamente semplice, i lineamenti sono distesi, dignitosi, gli occhi più chiari della sua carnagione sono leggermente umidi. Non è un volto che si distacca di molto dalla fredda maschera neutra; si tratta di differenze quasi impercettibili, eppure esprime una dolcezza e una malinconia senza tempo, è un volto che cela una tempesta talmente irruente che, non riuscendo a trovare una valvola di sfogo, si rannicchia in un angolo, rassegnata, vinta dalle circostanze. Basta poco ad un volto per esprimere ciò che di più intenso alberga dietro di esso.
Anche adesso, dopo tanti anni, adesso che coltivo l’illusione di aver piegato il morbo che un tempo mi aveva piegato, adesso che le cicatrici si sono adagiate sotto un velo di normalità, quella normalità così a lungo agognata e respinta…anche adesso la maschera neutra esercita in me lo stesso fascino che esercitava allora. Anche adesso mi guardo allo specchio trasfigurando i miei lineamenti in quelli del negro di Géricault, anche adesso mi rivedo nella donna della metro, e trovo delle somiglianze incredibili tra i due volti…le infinite sfumature dell’espressività di un volto sono tanto più eloquenti quando sono accennate, indefinite, al punto da divenire impenetrabili; e l’immobilità, la fissità delle cose, trasforma il minimo movimento in una tempesta.

La maschera neutra è un libro del quindicesimo secolo in una teca di cristallo. Puoi ammirare la sua maestosità e le sue perfette proporzioni, il fascino del mistero, il sapore di antico, anzi di senza tempo…la maschera neutra è oggi, ieri, domani, nello stesso momento; è ogni cosa in potenza, e nessuna cosa al contempo. È ciò che meglio rappresenta l’intrinseca contraddizione umana.


 

Perline, braccialetti e ombrelli

Via Marco Polo è una strada molto grande, a quattro corsie ma a senso unico, l’unica grande arteria della città, troppo grande per una città del genere. Si interseca a molte strade più o meno importanti, ma da qualunque strada si riversano sempre nella via fiumane interminabili di macchine strombazzanti e piene di fumo.

 

Precisamente davanti alle grandi strisce pedonali sull’incrocio tra via Marco Polo e viale Dante Alighieri sta un negro, uno di quelli che più o meno discretamente attirano l’attenzione dei passanti su ciò che stanno cercando di vendere. Quasi nessuno si ferma a guardare le sue perline, i suoi braccialetti, i suoi ombrelli: ma lui non ci fa caso, non si scoraggia e senza remore accalappia il prossimo passante, sempre con il sorriso sulle labbra e chiamando tutti “amico”. Ben presto la gente comincia a deviare il proprio percorso formando un’isola da cui egli si sbraccia e si agita senza riuscire a dissipare il mare formatosi intorno a lui.Quando lui si sposta, il mare di spazio vuoto lo segue e lo circonda, come un polo negativo in mezzo a tanti poli positivi. I “ciao amico” si fanno via via più insistenti, le risa e gli scherzi si sprecano, il negro cerca di individuare in ogni passante un dettaglio particolare che potrebbe fornire lo spunto per una conversazione, ma inutilmente. Succede però ad un tratto che comincia a piovigginare; più la pioggia insiste più lui è raggiante, adesso molta gente colta alla sprovvista si avvicina con riluttanza per comprare un ombrello.

 

Ci sono tutta via quelli che caparbiamente preferiscono sopportare la pioggia, e tra questi c’è una donna distinta, alta e avvolta nel suo cappotto lungo, con i lunghi capelli biondi raccolti in uno chignon nero. Ogni cosa è in lei perfezione geometrica, ogni cosa è pensata al minimo dettaglio. Senza pensarci il negro la ferma con un “ciao amica!” e un sorriso a cui mancano tre denti, e lei lo guarda subito inorridita, come se davanti a lei fosse improvvisamente apparso uno scarafaggio gigante: a malapena bofonchia un “no grazie” e si dà alla fuga. Lui ormai ha già cambiato obiettivo, ma nota che lei si è appena fermata al semaforo sulle strisce di via Marco Polo: le macchine sfrecciano mentre lei attende il verde battendo convulsamente il piede per terra. Era giallo quando ha incontrato il negro e per colpa sua non è riuscita ad attraversare, e come se non bastasse lui sta tornando alla riscossa. A nulla valgono i reiterati “no grazie” “non mi interessa”, lei cerca anche di abbozzare un sorriso per non farsi vedere troppo intollerante ma questo si rivela un errore fatale, perché il negro si sente incoraggiato e riparte all’attacco più stolidamente di prima. Lei non sa cosa fare, guarda il semaforo che si ostina a rimanere rosso, comincia a perdere la pazienza, pensa che potrebbe continuare per via Marco Polo, ma le prossime strisce sono lontanissime e allungherebbe inutilmente la strada. Vista l’insistenza del molesto venditore lei cerca continuamente di allungare le distanze, ma più lei si muove verso la strada, più lui la segue. E’ deciso a non farsi scappare questa occasione.

La pazienza giunge a un limite. Lei si gira verso di lui e ha già aperto la bocca per urlargli in faccia quando improvvisamente la travolge una macchina rossa.

 

Sbatte sul vetro, vola sopra la macchina, e di nuovo per terra. Il negro guarda la scena attonito. La donna insanguinata a terra emette qualche rantolo: ha gli occhi azzurro pallido spalancati verso il cielo,respira velocemente ed affannosamente. Le sembra che ad un tratto il mondo cominci a muoversi al rallentatore, le luci girano vorticosamente avanti e indietro, avanti e indietro…ci sono dei rumori indistinti intorno che si fondono in un cupo sottofondo tenue e ovattato, come un tremolo costante di timpani che non accenna né ad affievolire né tanto meno a crescere. Sente un gran dolore sulla nuca, che gratta contro il ruvido asfalto, e si volta poggiando sull’orecchia destra. Il suo sguardo incrocia quello del negro che è rimasto con i braccialetti e gli ombrelli in mano, con lo sguardo incatenato a quello della donna, un contatto da cui non riesce a staccarsi, si divincola, ma è come se una forza impalpabile lo inchiodasse a terra…

 

E senza preavviso, senza che la sua volontà possa impedirlo, gli si staglia nella mente il ricordo di Akwasibah, sua prima moglie quando viveva a Bangui, in Repubblica Centrafricana, la sua Akwasibah che ha amato tanto teneramente quanto era nelle sue forze, la sua Akwasibah che ha visto stuprata e dilaniata a coltellate da un gruppo di miliziani cristiani durante la guerra civile. I soldati li attaccarono mentre pregavano in una moschea di Bangui perché sospettati di fare parte dei jihadisti della coalizione Seleka. Fecero uscire la gente e bruciarono la moschea, colpendo tutti i civili che capitavano loro a tiro. Akwasibah fu la prima ad uscire, e la più attraente tra le donne presenti, e fu presa da cinque miliziani. A nulla valsero le grida di suo marito.

 

Akwasibah aveva lo stesso sguardo di questa donna in mezzo alla strada, una donna così diversa, nordica, così pulita rispetto a una negra qualunque, e lui si sentiva come in quel momento dieci anni fa, tenuto da due uomini e insanguinato per i colpi ricevuti, costretto a guardare ciò che veniva fatto a sua moglie. Dopo una strenua resistenza si era accasciato a terra, non riusciva ad aprire la bocca, ma guardava la sua Akwasibah che fissandolo negli occhi si accomiatava da questo mondo, un pezzo per volta. E ora, in un luogo così lontano ed estraneo, lo stesso sguardo, lo stesso inconfondibile sguardo gli penetra nelle viscere prosciugandolo di ogni forza vitale, impedendogli la minima reazione.

Quell’episodio fu il motivo principale che lo spinse a raggiungere la Libia a piedi ed imbarcarsi verso l’Italia.

Era filato tutto liscio fino a questo momento, fino a questi pochi interminabili secondi, secondi in cui l’uomo inchiodato a terra comincia a rendersi conto della circolarità della sua esistenza, del fatto che questo momento segna la fine di un ciclo, la congiunzione dei due capi dello stesso filo, la fine di un lungo viaggio non solo attraverso la terra e il mare e di nuovo la terra, ma anche attraverso le immagini di quel giorno di dieci anni fa.


Bataclan, Paris. 13/11/2015

Emile ha sedici anni. Vive a Parigi da quando ne aveva nove, la sua famiglia si è trasferita da Marsiglia quando suo padre, giornalista di successo, è stato ingaggiato da Le Monde per un reportage in America Latina, che gli ha garantito un posto fisso al giornale. Ad Emile ogni tanto manca il sole della Provenza, ma a Parigi ha fatto molte amicizie: a scuola se la cava egregiamente, anche se un po’ se ne vergogna, e tutto sommato non gli manca niente, soldi, tranquillità, famiglia. Suo padre è spesso in viaggio, e il suo ritorno a casa è un momento esaltante, perché ha sempre moltissimo da raccontare, e sua madre è più felice, sorride di più. Lei gestisce una casa editrice indipendente, e si occupa di critica letteraria. Loro malgrado, i genitori di Emile sono costantemente circondati dalla crème dell’intelligencija parigina, ed Emile è sempre stato a contatto con una quantità quasi nauseante di scrittori, artisti ed intellettuali di ogni sorta. Una vita che può portare ad una certa confusione interiore, ma Emile sa che i suoi sono diversi da tutto ciò, e ne è molto orgoglioso, anche se di un orgoglio parzialmente mitigato dall’adolescenza.

In realtà, per essere un ragazzo di sedici anni, Emile è quasi ineccepibile: il malcelato contegno borghese dei genitori non gli è mai stato imposto in modo da suscitare in lui l’istinto di ribellione, ma si è comunque subdolamente infiltrato nel suo carattere tramite un inestirpabile senso di colpa per le malefatte che ogni tanto combina. Emile possiede comunque una grande capacità di dissimulazione del suo retaggio intellettuale davanti ai coetanei, e riesce comunque a mostrarsi degno di apprezzamento abbandonandosi ogni tanto a qualche trasgressione, di cui pure reprime violentemente gli effetti sulla sua coscienza. In questi termini, recentemente ha saputo del concerto del 13 novembre al Bataclan: non ci è mai stato, l’età minima è 18 anni, e questa volta non vuole assolutamente farsi scappare l’occasione. Riguardo alla musica, non gli importa granché, non ha mai sentito nominare il gruppo che ci sarà, ma sa che un gruppo del genere non sarebbe molto conforme ai gusti dei suoi genitori, che imbarazzati fingerebbero di apprezzare per salvaguardare la propria reputazione di “persone di grande apertura mentale”. L’idea lo fa sorridere, e lo convince ancora di più ad andarci a loro insaputa.

La sera del concerto Emile non riesce a nascondere la sua eccitazione: vuole arrivare in ritardo all’appuntamento per sembrare più disinvolto, ma nel frattempo non sa cosa fare, e continua a guardarsi insistentemente allo specchio. Non ammetterebbe mai di essere così schiavo della propria immagine, eppure è proprio in momenti come questi che nota di avere gli occhi troppo grandi, e la barba che non ne vuole sapere di crescere, i lineamenti troppo angelici per le esigenze della sua età. Si chiede come i suoi amici non se ne rendano conto, e si risponde che magari se ne rendono conto ma non lo dicono, perdendosi nel turbine di paranoie che così poco si addice all’immagine che vorrebbe dare di sé. Alla fine, intimando un’ultima volta al proprio riflesso di smettere di toccarsi convulsamente i capelli, si decide ad uscire.

Scende in strada che sono le nove passate, e meccanicamente imbocca Rue Oberkampf. Si deve incontrare con un gruppo di amici davanti al Pierre Sang e poi andranno insieme al Bataclan. Qualche giorno prima ha chiesto il documento di un suo amico diciannovenne che gli somiglia, o quanto meno, questo è ciò che continua a ripetersi. Se lo ripete in testa mentre fa la fila per entrare, e al suo turno con gli occhi bassi mostra il documento. Attende il verdetto con i pugni serrati dentro le tasche. Lo fanno passare. È fatta! Entrando raggiante si fa strada con gli amici in mezzo alla calca: la musica è veramente assordante, ma il problema più grande è dover farsi strada in mezzo ad un migliaio di metallari incazzati. Ovunque si gira vede sguardi terrificanti, di persone terrificanti. È spaventato, ma è una situazione estremamente eccitante, gli sembra in quel momento di fare parte di un mondo diverso, più adulto, e pensa sprezzante alle proprie paranoie davanti allo specchio. Non sa perché ne è così attratto, intorno a sé vede uomini e donne di aspetto quasi ripugnante, e il suo contegno borghese ne è scandalizzato. Non sa perché, ma li invidia enormemente. Gli sembra quasi perverso, ma non può farci niente, quindi cammina a testa alta soffocando la propria timidezza.

Emile si vergogna della propria corporatura, insignificante rispetto ai giganti che nota in giro per il locale. Non ha le forze per rimanere sempre nello stesso punto, la folla lo trascina dappertutto senza che possa farci niente. Un uomo che non sembrava molto uomo gli ha fatto l’occhiolino, ma uno strattone improvviso l’ha allontanato di nuovo, fino a convincerlo di esserselo immaginato. Si attacca ad un amico, Fabrice, un tizio di diciannove anni che ha conosciuto a scuola e che ammira quasi morbosamente, al punto dal sentirsi ferito nell’orgoglio, a vedersi strisciare così davanti a qualcuno. Con due ragazze vanno a prendere da bere, e Fabrice gli porta una birra bionda in un bicchiere di plastica: la birra non gli piace, e poi il bicchiere è enorme, sarà mezzo litro, ma in quel momento l’unica cosa che riesce a fare è afferrarlo e buttarne giù il contenuto. È gelata, troppo fredda al contatto con la gola: Emile è colto alla sprovvista e gli va tutto di traverso, boccheggiando non riesce a tenere il bicchiere che spande per terra e sulla gente intorno. Gli esce birra dal naso. Cerca di ignorare gli insulti della gente e di coprirsi come può, Fabrice ride. Non è una risata cattiva, ma anche le ragazze ridono, e questo è troppo da sopportare.

Voltandosi per non farsi vedere, Emile cerca goffamente di riprendersi, ingoia quel poco di birra rimasta e butta il bicchiere a terra. Ritrovata la propria dignità, cerca Fabrice e gli altri suoi amici con lo sguardo, ma sono scomparsi: smarrito, si volta in tutte le direzioni ma non riesce a vedere niente, in effetti la folla sembra impazzita, lo urtano continuamente da ogni parte, ma gli sembra che stavolta la gente non si limiti a dimenarsi a ritmo di musica. Corrono, corrono in tutte le direzioni, ciecamente. Gli sguardi si sono fatti terrorizzati, c’è qualcosa che non va… si accorge in questo momento di quanto sia ubriaco, o forse semplicemente intontito, lo coglie un moto di vergogna per essere in quelle condizioni dopo una birra soltanto, e allora cerca di concentrarsi sulla realtà. Cerca di spostare l’attenzione sulla musica, che non aveva molto considerato fino a questo momento, ma la batteria gli sembra più assordante di prima, e meno regolare.

Un uomo tarchiato gli si para a venti centimetri di distanza, un bestione in camicia di jeans senza maniche e un tribale tatuato sul bicipite. L’uomo si tiene la pancia e lo guarda: cade sulle ginocchia, gli afferra i vestiti e lo fa cadere davanti a sé. Emile è spaventatissimo, comincia a non capirci più niente, scalcia e cerca di sottrarsi alla morsa, ma ad un certo punto si ferma, lo guarda negli occhi, occhi grandi come i suoi, occhi smarriti di un bambino che non trova i genitori. L’uomo ha la bocca aperta, contratta in una smorfia indescrivibile, i suoi lineamenti pietrificati esprimono un terrore tale che Emile non riesce a distogliere lo sguardo: lo vede emettere un ultimo debole rigurgito di sangue sui suoi vestiti, e riversarsi inerte sul suo grembo.

Emile non aveva mai visto un uomo morire, e ci mette qualche attimo a realizzare l’accaduto. Non ha le forze per allontanare il corpo inerte da sé. Alza gli occhi al cielo ma vede solo una marea di piedi, gambe, braccia, tutto si muove e non c’è un punto fermo che lo possa tranquillizzare. La musica è cessata ma gli spari persistono, sembra non finire mai… è questo l’inferno? Non pensava che l’avrebbe conosciuto così presto. La gente lo urta in continuazione, ma lui non sente più niente, si guarda intorno spaesato. Ad un certo punto qualcosa attira la sua attenzione, è un uomo, anzi un ragazzo, avrà venticinque anni, che non ha niente a che spartire con gli altri. Lui non ha paura, lui non scappa, è in preda ad uno stato di esaltazione che Emile non aveva mai visto in una persona, gli occhi fuori dalle orbite guardano senza vedere, non si concentrano su niente come se dominassero la scena dall’alto, soggiogati dalla follia ma pienamente padroni di sé, Emile ne è ipnotizzato… non sa come, ma ad un certo punto si rende conto che il ragazzo ricambia lo sguardo, i loro occhi si fissano per un attimo, e quegli occhi sono l’ultima cosa che Emile vede, prima del buio.

[…]

Fuori dal Bataclan è il delirio. Le sirene rosse e blu dell’ambulanza gettano sulla scena una luce surreale, molti stanno in silenzio, molti gridano, molti riposano inerti sul selciato. Emile si risveglia con addosso una coperta termica e un fortissimo dolore alla tempia, tanto intenso da non permettergli in un primo momento di realizzare quanto è accaduto. Si ritrova appoggiato ad una colonna davanti a una vetrina rischiarata dai fari delle macchine della polizia: nessuno sembra badargli, c’è un gran via vai di persone ma non gli riesce di concentrarsi su nessuno. Il suo riflesso sulla vetrina è abbastanza nitido da fargli notare un enorme livido violaceo che gli occupa gran parte della fronte. Deve aver perso i sensi in un urto particolarmente violento con la gente che scappava. A malapena riesce ad alzarsi in piedi, e alla prima occhiata si rende conto di essere in mezzo ad uno spettacolo spaventoso.

A pochi metri di distanza vede una donna inginocchiata sopra un ragazzo steso a terra. La donna stringe tra le dita la testa del ragazzo, gli conficca le unghie dei pollici sulle guance fino a farle sanguinare. Da un piccolo cerchio rosso scuro tra gli occhi chiusi del ragazzo scende un rivolo di sangue ormai secco. La donna ha gli occhi al cielo e grida, di un grido che Emile non aveva mai sentito, un grido che ha ben poco di umano, uno stridore sordo di giganteschi ingranaggi di metallo… Emile non riesce più a guardare, l’aria di Parigi è soffocante, un odore nauseabondo permea ogni molecola d’aria a disposizione.  Si copre il viso con le mani, cerca di svegliarsi, ma si rende conto che i suoi sensi sono al massimo delle proprie capacità. Gli occhi gli bruciano, se li sfrega con i pugni chiusi, ma bruciano ancora di più. Si guarda le mani, rossastre, umide e appiccicose, e timidamente risolleva gli occhi verso la vetrina. Ci mette un attimo a mettere a fuoco, ma ciò che vede poi gli fa mancare le forze.

L’innocenza dei suoi lineamenti angelici, infantili, goffamente incattiviti dai ridicoli baffi adolescenziali non esiste più. Emile guarda il riflesso e poi si guarda addosso un’infinità di volte, vede sangue dappertutto, sangue che non è il suo. Il livido violaceo sulla sua fronte sembra essersi conquistato l’intero spazio disponibile, dalla radice dei capelli al mento, fino al collo. Lo sguardo che Emile vede riflesso sulla vetrina è ben più terrificante degli sguardi che aveva incontrato appena entrato al Bataclan, in un passato che non riesce a quantificare, un momento che sembra appartenere ad un’era geologica precedente. Lo spavento che provava davanti a quegli sguardi era quello del ragazzo di fronte all’uomo, ma ciò che prova ora è diverso, è lo spavento dell’uomo di fronte alla bestia. Emile si guarda i vestiti, strappati e anch’essi imbrattati di sangue, assurdamente pensa alla sua camicia preferita, ora ridotta ad uno straccio maleodorante. L’odore lo investe di nuovo: è la cosa più terribile, un odore ben più intenso di qualsiasi suono, un odore di carne viva, reso ancora più intenso dalla coltre di nebbia giallastra che sembra essersi impadronita della città…

Ciò a cui Emile ha assistito questa notte non è l’inferno. L’inferno non è di questo mondo, l’inferno è un’immagine ideale, alimentata dalla paura del proprio creatore; dietro la miriade di sguardi persi nel vuoto, di lamenti e grida laceranti, si nasconde la realtà, la realtà autentica che i suoi occhi di sedicenne non potevano vedere, non fino a questo momento. Emile tiene gli occhi ancora inchiodati al proprio riflesso, e si rende conto in un momento che quel riflesso è il proprio vero volto, è il volto della bestia che si nasconde in lui, e in tutti gli altri. Con una consapevolezza che ben poco ha ormai di adolescenziale, Emile capisce che se c’è del male in questo mondo, è nella propria natura, nella natura stessa di ognuna delle persone con cui ha avuto a che fare nei suoi sedici anni di vita, negli artisti dei circoli parigini, nei compagni di classe, nei professori, persino nei suoi genitori.  Se non fosse nate in Francia, se fosse stato educato alla guerra, al fanatismo, fin dall’infanzia, il responsabile di questo massacro potrebbe essere lui, potrebbe essere chiunque, e potrebbe non esserlo nessuno. Ciò che impedisce che gli uomini si distruggano a vicenda, si nasconde proprio in quegli occhi grandi, in quei lineamenti angelici che prima tanto disprezzava. Ora che Emile sa cosa le sue mani sono potenzialmente in grado di fare, capisce l’inestimabile valore dell’infanzia in un uomo adulto. La capacità di stupirsi, di giocare, di sorridere, è di fatto l’arma più potente che un essere umano ha a disposizione, il modo più efficace per restare umano.