Io ci credo

Sbuffo atomi che sanno
Di spesso lavoro, d’affanno
Spingono un sogno che intercede lento
Soffio più forte, sembra quasi vento


Vita terrena

Non vorrei mai abbandonare
Questa nave
A passeggio su ruscello
D’anni al contrario


Incipit di un romanzo che sta per avverarsi, come un sogno

Entrai nella stanza buia, rischiarata solo dal flaccido lume di una candela sul comodino. Vidi ciò che non avrei mai voluto vedere né al tempo della fioritura dei girasoli, né adesso, che non è più stagione e sono caduti tutti, stanchi e secchi. Vidi ciò che però immaginavo e temevo di vedere e non lo vidi diverso da come me l’ero figurato, perciò si può dire che quella riprova in qualche modo alleviasse il mio dolore; ma no, invece, lo fomentava come paglia secca sul cammino di un vasto incendio.
Pensai di averla già vista quell’immagine, in passato. In effetti era più o meno così; solo, era un altro letto, un’altra donna, un altro affetto, legato però con quello odierno da una corda invisibile lanciata all’indietro nella stanza buia degli anni passati.
Anche mentre dormiva era bella; anche nel pieno della malattia, che poi poteva essere l’inizio o già la fine, nessuno lo sapeva.
Rimasi due secondi solo con lei e con i suoi respiri affannosi che mi sembrava fossero quelli più leggeri e disinvolti di tanto tempo prima, quando dopo lunghe corse a rotta di collo giù per le colline si fermava all’ombra di un pesco, piegata, con le mani sui ginocchi e il sorriso. Lo stesso sorriso che mi sforzavo di intravedere tra le labbra gonfie, che mi illudevo vi fosse dipinto al posto della smorfia crudele, quasi che segretamente sapesse che fossi lì a venerarla e inorridisse per la sua impresentabilità. Che poi non era mai stata una fissata su queste cose; sapeva che neanch’io vi badavo più quand’ero con lei e che poteva indossare il gonnellone a fiori o la magliettina gialla sbiadita, più abbondante di una spanna, che era indifferente ed era bella uguale.
Dormiva in quel letto che io sentivo esser di morte e per un attimo fui vinto dalla tentazione di pensarla defunta, come sarebbe stata adagiata nella bara, il vestito, il biancore. Sussultai d’orrore e feci un passo in avanti, come a voler lasciare indietro, sulla soglia della stanza, quella congettura perversa e magari cacciarla via, fuori di lì, fuori dal paese, fuori dal mondo.
E invece ci si passa tutti, prima o dopo.
Avanzai e istintivamente notai che aveva il braccio sinistro disteso, fuori dal piumone, e la mano bianca, impercettibilmente inarcata, che sembrava supplicarmi: “Stringimi, ho bisogno di te più che mai”. Osai allungare la mia destra, sfiorandole la pelle rigidamente candida; la feci scorrere, avanti e indietro, dal polso alle stesse dita, ora statuarie, che avevo stretto chi sa quante volte. Era calda, la sua mano, ma non come allora, segno che non apparteneva più a me e che questo ormai non lo si poteva cambiare più.
Avvenne tutto di colpo e mi ritrovai catapultato all’improvviso sui sentieri sconosciuti di un’estate lontana, adesso, ch’era la fine di gennaio e faceva freddo. Invece, mi accorsi che nella stanza c’era proprio un bel tepore, che se il letto fosse stato un po’ più spazioso mi ci sarei sdraiato, di fianco a lei, e mi sarei addormentato del suo stesso sonno, per non svegliarmi più.
Ma lei avrebbe aperto gli occhi, l’indomani, come tutti. Sarebbe forse stata contenta di vedermi arrivato, così, all’ultimo, ma giusto in tempo per… Mi avrebbe sorriso e si sarebbe passata una mano sui capelli e chi sa cosa mi avrebbe detto, quali allusioni al passato, e i “ti ricordi quando…” o “però sei proprio cambiato con quella barba nera in faccia e i capelli corti”.
E così procedeva spedita, la mia fantasia, ad immaginare discorsi, gesti, rumori che non esistevano e nella stanza regnava il silenzio della mia immobilità e il dolore dei suoi sospiri e del lume barcollante, ubriaco, che, come lei, s’andava spegnendo.
Sarei rimasto in quella camera per tutta la vita se avessi potuto. Mi sembrava che rimanere lì sortisse l’effetto d’un incantesimo benefico, che con me lì dentro sarebbe stata al sicuro e non sarebbe più peggiorata, anzi. Mi ostinavo a credere che noi due fossimo fatti l’uno per l’altra e che le disdette che erano occorse a entrambi avevano una ragione comune: cioè che avessimo scelto la vita sbagliata, lontani lei da me io da lei.
Durò in tutto due minuti, più o meno; due minuti dei nostri, di quelli che si urlavano verso casa quando era ora di cena, all’arrivo del buio, e che poi diventavano dieci, cento; ore, a volte.
Le mani giunte dietro la schiena si erano come incollate e mi impedivano di sfogarmi in qualsiasi modo, sbattendo i pugni sulla parete o abbracciando quella cosina così preziosa e fragile e moribonda lì davanti a me.
Mossi gli occhi per sbaglio e scorsi una foto, incorniciata in uno stormo di girasoli colorati e intagliati a basso rilievo, appesa al muro, in armonia con la carta da parati. Fu troppo per me. Mi feci da parte e puntai verso la porta. Un ultimo sguardo e via, a testa bassa.
Alla fine fui io ad andarmene ed il pensiero a rimanere, che se ci avessi creduto un poco di più forse sarebbe guarita davvero. Forse è quando l’uomo perde del tutto la speranza, quando smette di sognare… forse è lì che comincia la morte.
Uscii con la testa bassa e, senza nemmeno guardarli in faccia, mormorai ai parenti: « Torno domattina ».
Presi la via di casa così com’ero arrivato, a piedi, lungo la stessa strada che conoscevo bene, cambiata limitatamente: qualche buco nell’asfalto toppato, una villetta in mattoni rossi al posto di un prato, un pallone da calcio fermo in mezzo a un cortile.
Mentre rimuginavo a testa bassa sull’incontro di poco prima, fui rapito da un istintivo insaziabile bisogno di ricordare. Lo dovevo a lei, lo dovevo a me, lo dovevo a queste colline che erano state il palcoscenico della storia più importante della mia vita e che ora volevo rivivere come se stesse accadendo di nuovo, una seconda volta.
Perciò stanotte scrivo, invece di dormire. Stanotte scrivo per lei. E per me. Scrivo per paura di dimenticare e di svegliarmi un giorno senza più niente di tutto questo, niente di quello che per me ha significato la campagna, e cioè innamorarmi, vivere.
Da dove comincio? Non sono mai stato bravo con le parole. Nemmeno con le decisioni importanti. Nella mia testa in questo momento, all’alba di una lunga notte, s’accavallano imbizzarrite mandrie di immagini sconnesse fra loro ma accomunate tutte da qualcosa. Qualcosa che, se ci penso, poi non è proprio una soltanto, sarebbero più, una nevicata fitta di ricordi e niente… mi sono perso nella bufera. Mi trovo come a un bivio a mille strade e stento a capire quale sia meglio inforcare per procedere con più naturalezza nella narrazione. Per cui mi fermo, alzo la testa e mi guardo intorno. Ho appena iniziato e sono già fermo.
Scopro di avere i brividi dal freddo. E’ normale, perché la camera in cui sto scrivendo pare insensibile al caldo in qualunque momento dell’anno. La chiamavo la “stanza fredda”, allora, ed era il mio personale accampamento in casa della nonna: mi ci rinchiudevo, soprattutto i primi giorni, nel silenzio dei miei pensieri che affogava nell’intonaco bianco del soffitto. Era un vero sollievo viverci in estate perché manteneva una frescura quasi primaverile; credo fosse dovuto alla sua particolare posizione verso nord-ovest, poco esposta ai raggi del sole.
Poi le cose cambiarono e cominciai a rimanerci sempre di meno, giusto quando dopo pranzo mi sdraiavo sul divano e riposavo, la finestra aperta, cullato dal docile frastuono dei grilli di fuori; oppure, la mattina, quando mi mettevo di buona lena a studiare per il test d’ingresso di medicina a settembre, seduto sulla stessa sedia di oggi, nel medesimo lato di tavolo rivolto verso la maestosa credenza in noce.
Il divano, le due poltrone, il tappeto morbido, il tavolino basso, i quadri al muro: niente è cambiato. E mi sembra, sforzando solo un poco la fantasia, che questa sia una di quelle sere estive in cui Sofì veniva a suonare al campanello e chiedeva alla nonna che s’affacciava dalla finestra: « C’è Lorenzo? »
Ma mi accorgo che sto correndo troppo.
Muovo un passo ad occhi chiusi senza sapere dove finalmente mi porterà questa giostra imbizzarrita di ricordi. Riapro le palpebre e sono sulla strada giusta.