LA DONNA INDIFFERENTE

Saluto fanciulle tenere e suadenti,
maestre perfette di saperi superflui,
eleganti nel donar baci d’inganno

Uomo impotente,
aleggia tra fuga e delirio,
insicuro dell’Io derubato,
assetato di speranze deluse

Donna non vive di rose antiquate,
rifiuta con sberleffo i nobili versi,
eterna preda di cacciatori stanchi,
ipocrita emblema di gioie disfatte

Fredda ragazza dal ruolo represso,
non tocca gl’impulsi d’amore,
vaga melensa in oppio di smeraldo,
ignora le forme già vecchie

Fragile corpo che esiste in un lampo,
ripara tremante in chiese asessuate,
sceglie anime acefale,
pago di ruvidi gesti

Regna il muro nel comune limite,
perversa barriera alla gioia d’agire,
fare conforme al decoroso divieto,
pietosi sguardi d’incontri fulminei

Rimango sgomento all’amore negato,
compiango disperato inutili vite,
dubbioso sul senso di storie mai nate,
uguali illusioni di passioni passate

Solo e tranquillo,
persuaso dal femmineo disincanto,
osservo il falso di unioni virtuali,
e m’abbandono al sonno,
sul lento fruscìo del tempo.


L’IPERBOLE

Corre il fanciullo nella dolce prateria,
carezza gioioso la rosa spinosa,
parla ignaro a code di serpente

Bacio materno protegge il cammino,
approdo sicuro a morbide sponde,
lontano s’ode l’infame latrare

Matura il tempo dello sterco denaro,
quando l’Io teme il severo giudizio,
la strada sale nel tortuoso silenzio

L’uomo cerca equilibri sfuggenti,
l’altro intralcia l’impervia scalata,
disperata corsa all’amorosa cima

Avanza stanco il vecchio bastone,
scaccia rabbioso la sicura prece,
nebbia che cela il crudele destino

Mèta infinita che nessuno afferra,
cadono i corpi dal vertical pendìo,
trionfo del buio nell’eterno oblìo.


NEW YORK, CORSA DA SOGNO

Estate del 1995. Mario azzarda la proposta: “Andiamo a New York! Visitiamo la città per una settimana, facciamo una puntatina alle Niagara Falls e la domenica ti fai la maratona”. Della serie “armiamoci e partite!”. Accetto di buon grado.
L’occasione è allettante. Tra un anno, penso, basterà la preparazione per la “mezza”. Che sarà mai, di maratone senza allenamento specifico ne ho già disputate tante sulla neve… Poi a 29 anni non devo avere remore, ci mancherebbe!
Detto, fatto. A fine ottobre ’96, si parte. Primi due giorni col torcicollo. Testa fissa all’insù per Empire, Twin Towers e statua della Libertà. Poi Little Italy e le foto del duce dietro le vetrine dei negozi. Da non credere. Svolti l’angolo ed ecco Chinatown. Più a nord, il mastodontico Rockfeller Center.
Ingurgitiamo pizza, hot dog e beagles per una settimana. La bevanda con le bollicine costa meno dell’acqua. Da “Sbarro”, la “Napoli” si può mangiare. Ci scappa anche una spaghettata dal siciliano “Luigi’s”. La gente appare felice, la crisi di là da venire. A NewYork tutto può accadere.
Indimenticabili la festa di Halloween, con un tizio mascherato da Clinton su macchina presidenziale; Ellis Island, con escremento di gabbiano sulla giacca dell’agente di custodia Mario; la puntata a Buffalo, con il Canada, il lago Ontario, le cascate del Niagara ed un altro tizio che ogni anno dal 1960 torna sul posto a pregare il papà e la sorellina, disintegrati assieme alla barca da un salto senza ritorno.
Alla dogana, una ragazza indugia sulla foto del mio passaporto. “No beautiful!”, la rassicuro col mio inglese maccheronico a mò di gramelot. Ride divertita.
Il sabato, sgambatura d’allenamento pre-gara. Non partecipo. Sono sfinito dalle lunghe camminate e penso già alla sfacchinata di domani. Il ritrovo vicino a Central Park è immenso, ma è tutto organizzato. Non ci vuole molto per il ritiro del pacco gara. Acquisto maglie e oggetti ricordo, persino il filmino personalizzato. Mi suggeriscono di alzare le braccia in prossimità del traguardo. “Ad arrivarci!”, obietto. Ora via in albergo, il Jolly Madison Tower, nei pressi dell’Empire. Un sogno.
Prima di coricarmi, fisso la ghiacciaia nel corridoio. Gli americani mettono il ghiaccio dappertutto. Il supplichevole “no ace!” serve a poco.
E’ l’alba. Sono già sveglio. Avrò dormito un paio d’ore. La maratona di New York non è corsetta di paese. Per un podista equivale a Wimbledon per un tennista. L’Evento per antonomasia. Sensazione unica ed irripetibile.
Lego i lacci delle scarpe con frenesia. “Mario, io vado”, sussurro. “Ci vediamo al traguardo, vengo a farti le foto”, bofonchia il nostro, ancora nel mondo dei sogni. Borsa in mano, chiudo la porta. Leggo la scritta “exit” nel silenzio assoluto. Càspita racconto ora a questi? Dovessero domandarmi qualcosa, non saprei cosa dire. Per me l’inglese rimane un mistero insoluto.
Appena fuori scorgo la navetta. Raccoglie tutti gli atleti italiani dell’albergo. Salgo con la tensione e l’euforia di chi sta per compiere un’impresa eroica. “Sì, erotica!”, risponderebbe l’attore e podista Pietro, che a Hollywood è di casa. Attacco bottone con una comitiva di milanesi. Se parlano inglese sono a posto, altrimenti sono guai.
Il bus s’avvia tra decine di macchine gialle. I taxi della grande mela. Osservo la megalopoli. Un’altra dimensione. Tornano in mente i film visti nella vita. Rendono poco l’idea. Il cuore accelera in vista di Staten Island. “Ci sono tre partenze”, mi spiegano. Già faccio fatica a concepirne una, figuriamoci… Il mio pettorale è blù, partirò subito dopo i campioni! Una fortuna. Meglio, una bugia agli organizzatori. Ho dichiarato di poter correre in un tempo pazzesco, due ore e quaranta. Neanche fossi Pizzolato.
Si scende. D’improvviso perdo di vista i milanesi. Sono solo in mezzo ad una delle città più grandi del mondo. Vengo trascinato da una marea umana. Non ho tempo d’abbandonarmi al panico. Primo, individuare la mia partenza. Secondo, depositare la borsa in corrispondenza dei bus con la lettera “S”. Terzo, decidere cosa indossare. C’è il sole, ma tira un vento gelido. Nevicherà il giorno dopo. Lascio il bagaglio ancora titubante sulla scelta. Mi presento con pantaloncini corti, felpa “EIS” della New York Marathon e canotta gialloblù di rappresentanza viterbese. Bene, è andata.
M’avvio controvoglia al punto di ristoro iniziale. Vado per forza d’inerzia, quasi per convenzione sociale. Il cibo è il mio eterno incubo. Ho lo stomaco rattrappito, non ho assolutamente voglia di mangiare. Sto con una tazza di latte e inorridisco al pensiero di dovermi fermare per uno stupido bisogno fisiologico. Mangiassero gli altri allupati! Sei a New York, fai come ti pare! Lontani i tempi in cui trangugiavo a forza mascarpone, uova al tegamino e prosciutto cotto alle prime luci dell’alba, prima della partenza della “Marcia Gran Paradiso” a Cogne! Una tortura, lì necessaria. Non qui, penso.
Osservo i runner seduto per terra. Tedeschi, messicani, africani, spagnoli. Chi grida, chi gesticola, chi fa ginnastica. Tutti con l’ossessione di riempire lo stomaco. E fanno pure la fila! A che serve? Lo ignoro. Mio nonno si faceva bastare un piatto di pasta e un bicchiere di vino. Buon sangue non mente.
E’ quasi ora. Mi alzo e procedo verso la partenza. Muro umano. L’asfalto è bagnato. Mi chiedo perché. Pioggia? No, urina! Decine di anime prendono di petto un canale di scolo. Difettoso. Non indugio a pulire le scarpe. Thè e sali minerali serviranno allo scopo.
Salgono i battiti. “A regà, ‘nbocca ar lupo!”, grida un tipo tarchiato con la barba. Diavolo d’un romano, lo trovi ovunque! Arriva il groppo in gola. La confusione aumenta nel vociare festante. Le lacrime bagnano le ciglia. Reprimo la gioia per pudore. Resisto. Odo il rumore dello sparo. E’ il via! Saltello sul posto in attesa del passo. Dura poco, sto già correndo. Un urlo progressivo sgorga dai polmoni. Sono al centro del mondo. D’un tratto mi ritrovo accostato al guard-rail in mezzo al ponte, Sua Maestà Verrazzano. Avverto un misto di gioia, delirio e libertà. Un corpo che s’invola nel vuoto, nel vento. Sotto c’è altra gente, più giù il mare. Immenso. Incredibile.
Corro accanto al muretto, mi sento protetto. Attento a non essere travolto. E’ già salitella, ma procedo ingenuo a 4’20” a km. Monta l’ardore al rumore dei passi. Finisce il ponte, sono dall’altra parte. La gente è estasiata ai lati della strada. Gli americani, con il loro grido infantile ed esaltato, danno la carica. Nulla a che vedere con l’ironia e il disincanto della Città Eterna. Qui si fermano cinque metropoli: Staten Island, Queen’s, Brooklin, Bronx e Manhattan. Non posso fare a meno di avvicinare la moltitudine. Le pacche sulle spalle si moltiplicano. “Let’s go!”, “C’mon!”.
Ecco le bande musicali. Impongono il ritmo. Molto utili. Ad ogni isolato, un urlo collettivo d’incitamento. Rispondo fiero assieme ai compagni stringendo in aria i pugni. Canto. Mi sento protagonista dell’evento unico. Lo sarà anche l’ultimo arrivato, incitato alla stessa stregua del primo. A New York la corsa non crea differenze. Esiste cultura sportiva, sempre e comunque. L’egoismo messo al bando nella città più individualista del mondo.
Non mi curo dei runner che tagliano la strada per accedere ai rifornimenti. Non posso fermarmi, sono a New York, devo arrivare! “Non c’è tempo per fermarsi, per restare indietro, la signora senza ruote non aspetta più…”. Scavallo bicchieri di carta e profumi di thè. Non bevo, né tantomeno mangio.
Percorro un lungo, enorme rettilineo. M’affianca un atleta disabile. Lo sguardo d’intesa è spontaneo, negata la diversità. Sento d’appartenere alla città, al suo modo di essere. Chi l’avrebbe mai detto! La corsa fa dimenticare il male degli uomini. Anche solo per il tempo di 42 Km.
Dev’essere il ponte del Queensboro, intorno al 27esimo o giù di lì. Riesco a percepire la voce di Mario. “Forza Luca!”. Rido. Senza voltarmi, saluto con la mano. Comincio ad avvertire la fatica. A 4’20”/km senza allenamento, non puoi affrontare i 42 e sperare di ottenere un tempo dignitoso. Per me è già una vittoria essere qui.
Quasi d’incanto, devo fermarmi. Il fiato ci sarebbe, ma le gambe sono vuote. Crisi di fame. Devo ingoiare qualcosa, anche a costo del rigetto. Come un miraggio, accosto un punto di ristoro. Prendo frutta secca ed il contenuto di un tubetto. Chissà cos’è… Un tale in camice bianco biascica frasi come fosse Woody Allen. “Okay! Okay!”, rispondo. Se costui crede di costringermi al ritiro dalla maratona di New York, sbaglia di grosso! Neanche con una pistola puntata alla tempia!
Riprendo piano. Il vento aumenta d’intensità in vista di un cartello verde: il Bronx. Fa freddo. Quattro ragazzi di colore sorseggiano una birra. Le case sono malmesse, non diroccate. Qualche finestra annerita dal fuoco. I soldi dell’assicurazione fanno comodo. Meglio di quanto m’aspettassi. Quanto mancherà? Sono segnalate solo le miglia e non ho la forza e la voglia di fare di conto.
Comincio a ripassare nella mente tutta la mia vita. Devo pensare, per non cedere. L’infanzia, la scuola, le ragazze. Amori sbilenchi ed incomprensibili. Già, le donne… Quasi mai sono riuscito a capirle. Un mondo a parte. Se ci provi passi per maniaco, se non azzardi sei bamboccione. Mea culpa, può darsi. La mia ragazza è sempre stata la solitudine. Una sanguisuga, ti consuma poco a poco. Ti ribelli, ma è inutile. Ha la capacità di placarti. Concede quel tanto di libertà che basta per farsi accettare. Ora sta lottando. Da una parte il popolo in festa, dall’altra lei, io nel mezzo. Vedremo chi la spunterà.
Fisso l’asfalto e la linea bianca che indica il percorso più breve. “Occhi neri e seri guardano il pavé…”. Per caso volgo lo sguardo sulla mia destra: Km 35. “E’ fatta!”, m’illudo. Siamo solo all’inizio.
La vera corsa comincia adesso. Avanzo con la forza che mi regala l’impagabile folla. E la follìa. Imbocco il Central Park con la falsa consapevolezza di un traguardo ormai prossimo. Inizia un saliscendi da far tremare i polsi. Terreno non certo ideale per un longilineo come me. Un calvario. Aumenta l’incitamento. Quello non è mai mancato. Le foglie degli alberi sono di un giallo intenso, colore particolare, tipico di questo parco immenso. In salita quasi cammino. In discesa cerco di attutire il battito dei passi, procedendo con relativa scioltezza. I muscoli sono sferzati da lame infuocate, la schiena non la sento più. Ho la forza di nascondere la sofferenza. Ricordo la raccomandazione di alzare le braccia sul traguardo. Ancora un chilometro. Riecco le lacrime, stavolta è la fatica. “La fatica muta e bianca che non cambia mai…”.
La spinta della folla si fa gigantesca. Rimbombano i timpani. Scorgo bandiere e cartelli personalizzati. I messicani sono numerosi e rumorosi, con gl’immancabili sombreri. I giapponesi sorridenti, con le solite videocamere.
C’è un dosso con una grande curva a sinistra. In fondo, il traguardo. Sono già scadute le 4 ore. Non importa. Un fremito d’emozione mi pervade. Raccolgo le ultime forze, mi ricompongo. Sollevo le braccia al cielo, è finita!! Ho terminato la maratona più bella e famosa del mondo! Da solo.
Evito gli imbuti affollati. Un ranger mi esorta ad imboccarne uno vuoto: “C’mon!” “Aspetta un attimo!”, ribatto in una lingua per lui sconosciuta. Sono dentro. Cammino a fatica. Una dolce fanciulla distribuisce le medaglie. Vent’anni, non di più. Sorride e mi porge il metallo. Trovo la forza di carezzarla e baciarla sulla fronte liscia, morbida e profumata. Poi volto le spalle, rapito dal razionale bon ton. Di nuovo la sanguisuga…
Sembra finita, è solo un’impressione. Ancora 4 km per ritrovare il bus e riguadagnare la borsa. Un telone mi protegge dal freddo. Riesco a recuperare il bagaglio al secondo tentativo. Altra piccola impresa. Sento caldo, abbandono il prezioso ricordo. Me ne pentirò. Una ventata gela il sudore sullo stomaco intirizzito. Mi fermo. Respiro profondo per respingere il conato. Per fortuna, ci riesco. Qui hai anche la libertà di star male, ci mancherebbe!
Ultima tappa, la ricerca del mio amico nei pressi della tribuna dove sono assiepati i parenti dei runner con la lettera “S”. Ecco Mario, è euforico! “A Lù, t’ho visto passà e t’ho chiamato, m’hai sentito? Bravo!” “Si, t’ho sentito…”, ribatto mostrandogli orgoglioso la medaglia. Che splendida pazzìa…
Prendiamo la navetta per l’albergo. La sera dovremmo andare allo “Sheraton” a festeggiare la vittoria del nostro Giacomo Leone. Sono a pezzi, ma assolvo anche quest’incombenza, tutto sommato da ricordare.
L’indomani altra corsa, questa volta ad acquistare il “New York Times”. Luca Sposetti, eccolo qua, è arrivato 10313esimo su più di 32000 partecipanti, tempo 4h 02’ 10”. Basta e avanza. Al paesello sarò accolto come un eroe nazionale.
Sull’aereo del ritorno, fermo sulla pista del “Kennedy”, intravediamo le luci delle torri gemelle. “Chissà se le vedremo ancora…”, il nostro inconsapevole presagio. Prima di morire, tornerò in questa città per la mia maratona. Sono impaziente. Un arzillo vecchietto si alza in continuazione per sistemare alla meglio le sue bottiglie di whisky. Uno spasso.
Addio, New York! Addio gioventù.