Non andare

Non andare.
Quando sarò re potrai prendere il mondo da una corda
e usare i mari per battezzare le galassie.
Miliardi di nuvole assumeranno forme umane e potrai arrampicarti con loro sui grattacieli.
Si riempiranno di vento le discoteche e quando lo deciderai saranno spazzate via in un istante
per lasciar contemplare ai tuoi occhi il grande silenzio.
Non andare. Rimani.
Protetta dalla penombra,
ascolterai i suoni dell’artificio urbano nel trasporto immaginario verso il largo,
dove in un cielo liquido ti potrai specchiare.
Rimani, dunque.
E prima di avere tutto
sarà bello osservare le mutazioni,
farsi accecare dai tramonti,vedere i desideri morire,
arrampicarsi con gli occhi sulla luna,
lasciare che la fine dell’estate ci strappi dal cuore l’affezione per l’universo,
vedere i semafori aprirsi come scatole in preda alle tempeste,
e da lontano le luci della città brillare come se guardassero innamorate il cielo.
Prenderemo a pugni l’aria, inseguiremo con il cervello i paradisi delle fusioni,
osserveremo le stelle negli occhi dei gatti
e faremo un falò di libri per vendere le loro anime all’infinito.
Non andare. Ho deciso, rimani.
Ed osservami
mentre mi addormento come un fantasma
sui veli di questo scenico mondo.


Arcade

I lampi accendevano il cielo
e ci illuminavano il viso.
Era una notte di un colore blu trasparente
e le correnti venivano verso di noi
cospargendo i nostri corpi di riflessi stellari,
come una marea.
Sdraiati per terra osservavamo il rumore del mondo
dentro le nuvole
ora che risplendevano a intermittenza su di noi,
e, a occhi chiusi,
ci facevamo trasportare nel vento sonoro
di una sera d’estate.


Volatile

Nella stanza tutto era immobile.
Solo la tenda oscillava per il vento caldo che entrava dalla finestra e che la faceva sbattere contro il vetro illuminato dagli ultimi bagliori del sole. Era da poco tornata la primavera e finalmente potevo sentire l’odore dei fiori.
In un angolo della camera risplendeva, dall’acquario illuminato, l’inquietudine dei pesci: c’era una chiesa lì vicino e al rintocco delle campane si agitavano, facendo riflettere le loro ombre sul muro bianco.
Ombre che rapivano lo scorrere dei miei pensieri e che mi traghettavano dentro quel mondo immaginario, riflesso sulla parete.
Attraversai la camera come fosse un posto a me estraneo, e guardai fuori dal balcone.
Finalmente era sera in quel paese poco distante dalla città e l’ansia del giorno stava scomparendo.
Con lei si dissolveva anche il caos dalle strade e, dopo il grande rumore diurno, sembrava che tutto stesse ritrovando il suo posto.
Quando rientrai nella stanza, le campane non suonavano più e anche i pesci si erano calmati.
Tutto apparve più chiaro e l’atmosfera meno agitata.
Cenai da solo e invece del solito film decisi di guardare le loro ombre. Mi avevano stregato quella sera, erano piene dei colori rosei portati nella stanza dal cielo serale e s’intrecciavano tra di loro, disegnando infinite traiettorie.
Masticavo incantato, impegnato a contemplare lo scenario, ma il citofono mi riportò nel mondo.
La vicina urlò da sotto che il vento aveva fatto cadere nel suo giardino qualche mio vestito e che era sicura che fossero miei perché aveva riconosciuto i disegni sulle magliette. Gliene piaceva una, aveva un disegno di Banksy in cui un bandito in mezzo a una rivolta lanciava un mazzo di fiori. Scesi a prenderli, la ringraziai e tornai su.
Finii di mangiare e decisi di uscire per non rimanere intrappolato in casa.
I primi vestiti che trovai andavano bene, i miei amici si ritrovavano quasi ogni sera nel garage di uno di loro a giocare a carte e a fumare.
Per due ore avrei dimenticato il resto: i pesci, le loro ombre, la vicina.
Arrivai in dieci minuti, ero contento di rivederli.
Il garage era per noi come un rifugio sotterraneo. Si nascondeva dietro ad alcune case vicine a un parco della periferia, nella zona in cui abitavamo, in mezzo a una serie di garage che scendevano sotto il livello dell’asfalto, pur rimanendo all’aperto.
Da là sotto si vedeva sempre la luna, e la notavo ogni volta che, durante le serate, mi offrivo di andare a riempire la bottiglia dell’acqua alla fontana.
Quando arrivai stavano già giocando a carte, presi una sedia e aprii la birra che avevo portato.
In quel periodo non c’era molto da fare: tra di noi tanti erano senza lavoro e quindi la sera potevamo permetterci di fare tardi. Il “lancio” dei curriculum poteva aspettare anche la tarda mattinata. Eravamo quasi tutti laureati ma non c’erano molte possibilità e spesso anche pur disposto ad accettare tutto, non trovavi nulla.
C’era una buona alchimia nel gruppo, eravamo compagni di gioco e bastavano pochi istanti per entrare dentro un universo parallelo libero dai problemi.
Bastava una battuta.
Rimasi lì un paio d’ore e, quando uscii, dopo aver aiutato a rimettere in ordine, i viaggi verso l’alto mi rapirono.
Percorsi, come al solito correndo, la salita per uscire dai garage e arrivare alla macchina.
Appena uscito sentii freddo e una volta in auto attaccai subito il riscaldamento.
La luna si specchiava sulla lamiera della mia panda blu, era gigante quella sera e sembrava invadere tutto il cielo con la sua luce opaca, molto luminosa e che riempiva ogni spazio come una carezza.
Rischiai perfino di finire contro il marciapiede due volte perché ero troppo impegnato a guardarla.
Tornai a casa in pace col mondo, dai miei pesci e dalle loro ombre che ora non vedevo più come inquietanti ma come belle e basta.
Mi aspettava Hermann e quando aprii la porta, sapendo che anche lui era lì, sorrisi.
Non feci in tempo a svestirmi che avevo già il libro tra le mani. Sprofondai sul divano e precipitai dentro quelle pagine ricche d’immagini immergendomi dentro di loro come poche volte ero riuscito a fare.
Pensavo sempre molto a quello che diceva e quando alzavo la testa per assorbire, disegnavo sulla parete la trasposizione in forma di immagini delle sensazioni che Hesse descriveva magnificamente.
Vicino alle ombre dei pesci apparvero nuvole blu, città assolate sulla luna, garage infiniti, prati di piume, alberi con farfalle al posto delle foglie. Rimanevo a fissarle fino a quando decidevo di immergermi di nuovo dentro le pagine.
L’immersione era come un “pellegrinaggio in oriente” con la mente, e mi pareva che ci fosse una musica idilliaca nella stanza.
Ma nei pochi momenti in cui smettevo di immaginare mi rendevo conto del silenzio tombale da cui ero circondato, e allora con pacata rassegnazione tornavo a leggere.
Riprendeva, così, il mio viaggio e quando risollevavo la testa tornava la vita sulla parete, in quel micro mondo che era come una città per le ombre, un posto che le strappava dalla loro solitudine e che le circondava di colori.
Mi venne fame, ma il frigo era vuoto. Mi misi allora a cercare dei soldi e trovai cinque euro in una tasca di un pantalone buttato per terra. Radunai le forze per precipitarmi in un supermercato aperto tutto la notte e prendere il necessario per un panino.
L’avevano aperto da poco, non era distante e ci misi qualche minuto in macchina. Mi piaceva andarci di notte perché era ai bordi di una piazza quasi sempre vuota, che ospitava una grande chiesa, ben illuminata, dalle forme gotiche d’una bellezza fuori dal tempo.
Guardavo sempre con molta ammirazione quella chiesa. Fin da piccolo ci passavo davanti per andare con i miei in centro e venivo catturato dal suono dei canti del coro che si udivano anche in strada.
Ora era per me come un luogo sacro, la cui atmosfera mi suscitava spesso inaspettate riflessioni.
Era già l’una e mezza e il cassiere, appoggiato con i gomiti sulla cassa e gli occhi socchiusi, si ridestò solo al rumore della porta che sbatté dietro di me quando entrai.
Non sapevo esattamente cosa comprare quindi vagai per un po’ tra le corsie. Quando scelsi tornai in fretta a casa ignorando tutti i rossi delle strade ormai deserte e una volta in cucina preparai con molta cura il banchetto notturno.
Divorai tutto come un animale, sporcando ovunque, vestiti, tavolo, pavimento e quando finii gettai il piatto nel lavandino. Mi sentivo finalmente bene, dopo una giornata d’irrequieto vagare, dopo un altro giorno passato a cercare.
Mi affacciai al balcone della cucina per guardare fuori.
Tutto era immobile nel giardino dell’oratorio illuminato dalla luna e l’orologio del campanile segnava le tre.
Ogni cosa era al suo posto e sembrava disegnata.
I confini di ciò che vedevo, alberi, linee pedonali, lampioni, mucche in lontananza nel campo, erano così ben definiti che tutto sembrava finto.
Un lieve vento mi accarezzò il viso ed ero contento di essere lì, mi sentivo come immerso totalmente in quelle immagini che vedevo, beatificato come da un bagno nell’unità del mondo.
Rimasi a guardare per un po’ quelle meraviglie che inondavano i miei occhi come cascate.
A un tratto un sacchetto nel cortile fu preda di un vortice d’aria e non capii il perché ma quella magia finì.
Sentii le vene della notte pulsare più forte ed era come se il mare si stesse agitando.
Vidi un uccello dirigersi verso casa mia.
Era magnifico, con ali dorate e con uno sguardo che non dimenticai, ed era circondato da un’aura d’immensità.
Mi strofinai gli occhi quasi incredulo, e guardando più attentamente mi accorsi che dietro quel volatile ce n’era una fila infinita di altri uguali.
Mi agitai senza capire cosa stava succedendo. Lo stormo stava crescendo ed era sempre più vicino al mio balcone, e più si avvicinava più non sapevo cosa fare, cosa pensare.
Tornai dentro di corsa ma non feci in tempo a chiudere la porta del balcone che il primo si fiondò dentro, appollaiandosi contro la parete di fronte all’acquario. Quella delle ombre, delle città sulla luna e dei prati di piume.
Gli altri lo seguirono e gli si appostarono vicino.
Dopo poco la stanza era piena di volatili sulle pareti e io ero talmente impaurito che per un momento venni rapito dall’idea di lanciarmi giù dal balcone.
Ma rimasi inerte continuando a osservare l’incredibile spettacolo: non smettevano di volare dentro la stanza e senza sosta.
Non so perché ma mi calmai. Gli uccelli avevano uno sguardo angelico, sembrava fossero venuti a salvarmi. Era inquietante quanto era successo, ma non loro.
Loro sembravano volermi comunicare qualcosa, con occhi che erano penetranti e rassicuranti.
Non smettevano di volare dentro casa mia, con movimenti aggraziati e armonici.
Passò poco tempo e mi sembrava quasi normale che fossero lì.
Mi abbandonai al suono dello sbattere delle loro ali, al nuovo colore che davano alla stanza, al lume che l’intreccio dei loro sguardi accendeva nel mio cuore.
Quasi non c’era più posto e ciò che poi avvenne fu incredibile. Gli uccelli iniziarono dolcemente e fondersi con le pareti e a scomparire. Si sciolsero come neve al sole e uno a uno li perdevo di vista.
Mi sembrava di essere tornato bambino, ai tempi in cui passavo i pomeriggi a raccogliere i soffioni e a correre più veloce che potevo, per far rubare il loro fiore dall’aria.
Uscii sul balcone e guardai lo spettacolo da fuori. Mi accorsi, così, che la camera era rimasta sola in mezzo ai campi, circondata dalle mucche, dai tralicci che sezionavano il paesaggio e sovrastata dalle nuvole.
Ciò che vidi fu stupefacente.
All’esterno le pareti si stavano trasformando in fogli, fatti sia dai mattoni e dal cemento dei muri, sia dalle ali e dagli occhi di quegli angelici esseri.
I fogli iniziarono a spargersi per i campi vicini e tra le case del paese, traghettati dal vento.
Presero a volare poi verso la grande città, verso l’immensità, racchiudendo un segreto che mi sembrava di poter afferrare con la mente, ma che sul momento riuscii solo ad ammirare.