“… Ancora nell’anticamera ,la donna si era alzata.

Accantonando il disagio di una sfrangiatura (troppo trattenuta sul grembo),

osava far scivolare -sulle sue ginocchia- l’Abbandono

(del suo lavoro). Intessuto di poco .E tremava .”

 

“… Mentre il buio , penetrando la stanza , sovvertiva la sua ombra

all’origine della Prima luce : finché avesse fermato lo sguardo su quel

(suo) punto. Avrebbe visto:l’Apparenza appropriarsi di tutti i suoi contorni.

Prima che fosse ancora la Luce a decidere della sua definizione”.

 

“Attraversando la porta socchiusa, l’Unico (raggio di luce) tratteneva il suo

gesto . Fermo nell’ordito e … sembrava colore!

L’unico particolare, profuso di mille, sottili sfumature.

Era gioia! Nulla avrebbe impedito a quel gesto di rimanere in quel punto

…nell’attesa della luce che l’avrebbe dominata da fuori. Nessuno osò

entrare.

In quel momento.”

 

Il Resto spiò la fessura (prima di ritirarsi nelle sue stanze) .Deciso a lasciare

che fosse il sonno a pronunciare all’infinito il suo desiderio.

 

Poi vomitò su quelle frasi ricamate a giorno.

Vomitò come vomita un poeta (prima di riconoscere nel sonno: l’avventura

del penultimo giorno).

 

Lucia Nazzaro

 

Titolo del racconto … Nel disagio della trasparenza (1983)


Sul corpo invisibile

Ritratto (di scorcio)

Non sia mai che la pelle tocchi il profondo …  Sembra  recitare Pietro ( mentre l’assurdo intinge la lama nel ventre  (malato).  Eppure lo sguardo si nutre di quel corpo lacerato e l’ovvio calpesta l’infinita trama (brama) di un Universo corrotto dalla parola : amare.

Amare è spegnere  il lume dell’intelletto e chi ( come Pietro) ha osservato l’Universo  coprirsi  di vergogna ( mentre si moltiplicava all’infinito), lo sa.

In nome di Chi si apre il sipario sulla scena del sacro profanando  il silenzio del Sapere?

Per quale dio si combatte il ventre caldo dell’oscurità , giurando di averlo visto (il mostro!),  aggirarsi nei pressi della tomba del promiscuo, del folle… ?  Lui (Pietro) era lì.  La  sua lama affilata voleva intingere, sporcarsi ( come fosse un pennello!) di quel sangue che, suo malgrado, non usciva dalla profonda ferita. Non appagato dall’inutile gesto nutriva la pianta grassa  che aveva visto ammalarsi di orgoglio ferito e putire (subito dopo) delle spoglie di lui, che pure aveva saputo avvinghiarla (la vita) e godere di lascivia pura mentre,  consegnato il seme al suo destino, reclamava il suo diritto all’abbandono della specie.

Aveva visto la malattia abbeverarsi alla fonte della  pura menzogna. Il suo sguardo pietoso non aveva saputo tradire l’inganno di quelle stille di acqua … distillata di falso pudore e per questo motivo aveva giurato il falso a sua madre! Goccia dopo goccia l’aveva vista s-finire di quel falso nutrimento e facendo suo il corpo inerme aveva sottratto a Dio… l’ultima parola. Come si potesse!

Eppure quel caldo rancore scivolava fra le pieghe di quel lenzuolo che rendeva invisibile il suo corpo  (mentre la carne reclamava il diritto di essere, uomo!).  Innanzi tutto artista.  Mormorava e stirava … tirava il  tessuto a tal punto che ogni lembo rivelava essere la sua pelle: trama di un disegno fatto per ostacolare la vendetta che gli urlava da dentro. Contro chi o che cosa si scagliava il calore (colore) in quel magico inseguirsi di sipari aperti sull’universo di semplici scorci di un “abitare” inteso come sopralluogo di un’anima che nessuno specchio potrà mai riflettere?

Eccoli allora i suoi “teatri della memoria delle piccole cose”. Così mi piace definire ( mentre aspetto l’alba) i suoi  “ri-quadri mentali”, le sue opere.

Mi piace pensarti  fra le strade di questa inquieta Londra. Tu e il tuo desiderio sotto il braccio. Intendo la tela che ospiterà incredula e a tua insaputa, l’orrore di questo momento storico.  La ospiterà in una stanza e come sai fare tu, ritaglierà all’oscurità quel poco, quel tanto di verità che sa rivelarsi  solo a un intelletto non ristrutturato … ma soprattutto schivo di parole inutili, di ricami orditi sul verbo essere. Essere chi  o che cosa se non  la testimonianza (il testimone?) dell’ultimo avventore che non ha detto grazie quando hai fatto finta di non vederlo mentre spiava l’esuberante decolté di quella donna  che impacciata voleva solo calmare il vagito del bimbo che non poteva ancora urlare:

“Ho fame!”. Che così si placa l’appetito  e la coscienza e l’ardore di chi allatta, ma non mai la vergogna di tradire con un rigurgito il senso di una pienezza mai desiderata. Almeno non al punto di invocare l’abbandono di quel seno ormai flaccido, pronto a servire il rimorso di chi lo ha succhiato.

L’Uomo, l’artista sapeva di essere stato lì (come qualsiasi maschio!), ma non poteva abiurare l’ingegno  che lo voleva Madre! Perché poi? Per servire nuovamente un maschio ( perché si perpetuasse la specie dei simili e dei ribelli)?

No, semplicemente voleva il  -suo- luogo bandirsi altrove. Laddove la memoria si sazia di  grandi solitudini e recita insieme all’Universo l’ultima preghiera possibile: restituiscimi il Silenzio, Uomo. Che io possa udire il rumore degli astri. Che possa, quel rumore, essere udito da quella specie che ha nutrito la parola saccente favorendo l’inganno di chi osa reclamare l’Ordine!

Come non fosse un delitto  pronunciarlo (l’ordine)…senza la consapevolezza di nominare qualcosa che non appartiene né all’uomo, né alla scimmia, al cane…  E l’Ordine muore, gettato com’è nella spazzatura dei diritti umani! Quali diritti? In nome di quale Dio si brandisce la lama? Non la tua, quella compromette solo il tuo equilibrio…mentre si avventura nel quadro e disfa il tuo agire di uomo.  Questo lo sai e sai anche dove  ripara la ragione prima di concedersi al nulla, all’oblio. Sai dove abita (Dio), ma temi troppo la menzogna che lo vuole padre di tutte le creature, ma soprattutto  lo hai visto troppo maldestro in quel  suo ruolo ( come non glielo avesse consegnato l’uomo!).

Disfatto, consumi  nel sonno il tuo delitto. Reclami al giorno  l’indugio al silenzio e alla parola conficcata il gelo della sua natura e a te stesso l’orgoglio di aggirarti incauto fra il soggetto e il suo complemento. E’  così che accompagni  la tela al suo martirio… Accarezzando il suo profilo.

Ma così si corrompe l’Ordine! Si seduce e il diavolo e il buon Dio…

Sai anche questo, ma non ti nascondi, tutt’altro, riveli il gioco, tiri per i capelli l’immagine perché entri (fatto suo l’inganno),  indisturbata nella memoria delle cose, come una seconda pelle.  Perché la Pittura, questa terra di nessuno, sia  “abitata” rivendicando il suo diritto al colore, alla menzogna (forse) consapevole della menzogna ma spudoratamente vera, come è vero che amare è contaminarsi!

Ti vedo. C’è pulizia intorno a te, mentre dipingi. Ogni oggetto, strumento del tuo fare, “entra” nello spazio della tela ( il tuo spazio), naturalmente accompagnato da un gesto che contamina solo le tue mani che, ogni volta, stupiscono dell’abbandono che ha  determinato il loro “insozzarsi”. Ma nulla intorno a te rivela l’intensità del rapporto appena consumato… solo il quadro ora parla al tuo sguardo ( mentre il colore urla la sua voglia di essere Madre).

Lucia Nazzaro

…  continua   ?