L’arte di respirare

Buio.

Di nuovo; gli occhi si chiudono con un impulso proprio, inesorabile. Si aprono altrove, sempre incontrollati. Lascio alle mie spalle l’immagine tranquillizzante del mare, agitato ma costante; lo sento così vicino a me, così simile. Ma libero.

Vedo altri luoghi più o meno familiari.

Ora sono sulla riva del lago dove spesso ho camminato a lungo, pensando al futuro. A quello che avremo fatto, a quello che avremmo voluto fare senza mai convincerci. Tutto sembrava facile, vivevamo seguendo il ciclo del Sole e della Luna. In un meraviglioso ritorno allo stato naturale.

Un inaspettato senso di serenità mi pervade; ma so che da un attimo all’altro riaprirò gli occhi, tornando alla realtà attuale, dove non c’è più luce. Quell’effimero senso di serenità, così inafferrabile, che solo per poco avevo provato tornando con la mente a ricordi e sogni irrealizzati, svanisce.

 

Buio.

Sono sulla scogliera; non sulla parete più alta, che osservo dalla mia posizione. E’ così impressionante da togliermi il fiato. Sono deciso ad andare via, a correre il più lontano possibile, come se questo potesse davvero allontanarmi dal malessere penetrante con cui convivo.

 

Spesso ritorno lì, non solo con il pensiero. E’ diventato quasi un rito il mio; vado lì, alcune volte mi fermo solo per pochi minuti, che diventano ore o giornate intere. Solo quando mi accorgo che il sole sta calando, quando ormai è il tramonto, rinvengo dalla trance, dal malefico torpore che mi paralizza.

 

Sono mesi che fuggo da me stesso, se trovo un po’ di pace, fuggo nuovamente. E’ la mia punizione, eterna. Non merito tregua, non posso trovarla, in alcun luogo.

 

Buio.

Ero a casa ed osservavo il gatto sonnecchiante sulla vecchia poltrona. Apre gli occhi felini e mi osserva interrogativo, ma il suo interesse dura ben poco. Si stiracchia noncurante, troppo preso dalla sua igiene.

 

Ora sono in una via tanto stretta che è difficile riuscire a farsi strada tra i passanti; la via sbuca in una piazza, anch’essa gremita di persone. C’è rumore, quello bello fatto di risate e grida di festa, venditori ambulanti che attirano clienti, bambini che si rincorrono senza pensare alle ginocchia sbucciate. Non credo di essere mai stato qui. Mi metto in disparte, nessuno si accorge di me e questo mi piace, mi rassicura.

 

Queste strane digressioni mi fanno compagnia. E’ come se stessi leggendo il libro della mia vita, potendo scorrere le pagine e decidere in qualche strana maniera come andare avanti. Ho bisogno di recarmi in un altrove, in uno luogo atemporale, dove poter percepire un qualcosa che la mia sola anima può fino in fondo apprezzare.

 

Buio.

Di nuovo a casa; il gatto è saltato accanto a me sul divano, in cerca di coccole. Momento di complicità raro, ma così vero e pieno di amore.

 

Come mi sento? Perso, solo, confuso, disperato.

Non sapere come ricostruire ciò che è rovinosamente andato in pezzi. Sento concretamente il peso di ogni singola decisione, bloccato dalla paura di scatenare un inarrestabile effetto domino.

 

Buio.

Non serve aprire gli occhi per capire dove mi trovo.

Ci sono luoghi, profumi, colori dotati di una potenza inaspettata. L’imprevedibilità è la loro forza. Colpiscono con una violenza tale da non lasciare scampo. Si è costretti a fare i conti con il passato. E’ quasi una rivendicazione, come se volessero sottolineare la loro importanza, la loro permanenza. Legati indissolubilmente alla memoria individuale, dove ogni tentativo di esorcismo fallisce.

I sensi sono allertati.

Annuso. La macchina rimbomba del suo profumo dolciastro. Note di testa alla rosa centifolia, la rosa più preziosa. Note di cuore al gelsomino, la dea della notte, come te che l’amavi tanto.

Ascolto. Note indistinte che mi rimbombano in testa.

Osservo. Ti guardo. Un istante diabolico.

 

Luce.

Fari inaspettati.

Ascolto. Assordante silenzio intorno a me.

Continuo a respirare, istintivamente, con fatica; solo io.

 

 

Ho continuato a farlo fin troppo a lungo; ogni attimo è solo dolore, freddo, piombo nel cuore.

Amo la vita, ma lei sopra ogni cosa.

Amavo la vita, ma lei per sempre.


Il pranzo della domenica

La luce entrava decisa: la finestra della stanza era esposta ad est quindi dalle prime ore del mattino si potevano ammirare i colori dell’alba. Per lo stesso motivo, subito dopo mezzogiorno, la camera piombava in un freddo grigiore, che la accompagnava fino alle luci del mattino successivo.

 

Inaspettatamente preferiva proprio le ore più buie e fredde per entrarvi. Si sentiva accolta in quel silenzio quasi surreale; osservava, rapita, la campagna che si apriva, immensa, a pochi metri dalla casa e che al crepuscolo lasciava intravedere i profili dei castagni e dei non lontani faggeti. Tutto questo le ricordava con nostalgia gli scenari leopardiani, studiati a scuola ed amati a casa. Così ricercati e immaginati, così malinconici e sognanti.

 

La sua compagna quotidiana era l’ansia, un senso profondo di vuoto nel petto, anche se ogni respiro le sembrava così pesante.

Angoscia ed inadeguatezza la avevano perseguitata più o meno latentemente sin da piccola. Talvolta provava imbarazzo addirittura nel rispondere ‘presente’ alla maestra che faceva l’appello, o a giocare a nascondino con gli altri bambini per paura che nessuno la cercasse, che si dimenticassero di lei. Spesso anche quando le chiedevano come si chiamasse avrebbe voluto rispondere con un nome più corto o diffuso, così da non doverlo ripetere nuovamente e correggere il suo interlocutore.

Con il passare degli anni le insicurezze erano cresciute: si sentiva come paralizzata, incapace di affrontare situazioni anche banali. Più osservava gli altri compierle con disinvoltura, più il suo senso di inadeguatezza cresceva.

 

Per questo, da sempre, la stanza avvolta nella penombra le sembrava un rifugio sicuro, una tana dove nascondersi e riflettere sul mondo ma soprattutto sul suo rapporto con il mondo. L’unico luogo in cui si sentiva sé stessa era il casale, così familiare e rassicurante, così pieno di vita, così saldo e sicuro da bastare anche per lei.

 

Doveva essere una bella giornata, aveva pianificato di allestire il porticato. Oggi aveva bisogno di ‘assicurare’ il passato, di rivivere situazioni conosciute, tornare nei luoghi della sua infanzia e trarne quella forza per il futuro, di cui sentiva il bisogno.

 

Negli ultimi anni quando andava a rifugiarsi nella casa di campagna, che apparteneva alla sua famiglia da sei generazioni, ripeteva, quasi come in un rituale, gesti che anni prima aveva visto fare alla nonna. Dall’angolo destro della camera si trascinava la vecchia sedia a dondolo, lentamente. Con meticolosa attenzione la sistemava davanti alla finestra, in modo che, una volta sprofondata sul cuscino di velluto grigio, avrebbe potuto appoggiarsi al davanzale e assaporare lo spettacolo riservato solo a lei.

 

Era uno dei pochi piaceri che si concedeva, nascosto e notturno: amava le tenebre. Il buio non era un mistero per lei, aveva imparato a vedere non solo con gli occhi ma anche con i suoni.

Ne era sempre stata affascinata, contrariamente ai suoi coetanei non aveva mia chiesto di lasciare una luce accesa, non controllava l’assenza di mostri sotto al letto o nell’armadio. Amava l’oscurità e la notte la accoglieva maternamente, nel suo grembo stellato, senza fare domande, senza pretendere risposte.

 

Anche la notte scorsa, così come tante volte aveva fatto in quella casa, si era sistemata sul vecchio cuscino e, sorseggiando avidamente il suo infuso, si era dondolata guardando il cielo scuro, senza luna. Pensava alla vita, alle vicende delle persone che prima di lei avevano riempito quelle stanze.

 

Ogni volta che ripeteva la tradizionale cerimonia, trovava conforto e finiva per pensare di non essere poi tanto sbagliata. Aveva una sua fede, una sua etica e credeva fortemente nel destino.

 

Dal giorno della morte del nonno tutto era cambiato, la casa sembrava quasi irriconoscibile, così vuota, silenziosa. Lui era l’anima di quella terra, che amava con un ardore e una fedeltà di cui poche donne possono dire di aver beneficiato. A sua volta la natura lo ricambiava: le attenzioni e la devozione del nonno erano ripagate dall’abbondanza dei prodotti che ogni stagione il suo podere offriva.

Non lo faceva per soldi, non si sarebbe mai sognato di venderli; una parte la teneva per sé, per la sua famiglia e gli amici. Tutto il resto veniva donato ai pastori del vicinato, che ricambiavano la sua generosità con qualche forma di formaggio.

 

La sera prima, quando Maddalena era arrivata al casale, dopo aver percorso la meravigliosa campagna senese, aveva sentito la mancanza dei nonni più che mai. La luce dei lampioni del vialetto era spenta, così come quella davanti al maestoso portone, che, con le sue incisioni l’aveva sempre intimorita.

Entrata in casa, aveva respirato profondamente, inconscia attesa dell’odore del caminetto, che la nonna era solita accendere sin dalla mattina, per riscaldare la grande cucina. La casa sembrava aver perso la sua vitalità, il suo spirito.

Il vecchio Pietro, rimasto vedovo, aveva tenuto duro, sforzandosi di mandare avanti la sua vita: oltre ai suoi compiti aveva iniziato a svolgere anche quelli della moglie, per onorarla e ricordarla quotidianamente.

 

Maddalena aveva deciso che era giunto il momento di far rivivere quella magia che le era stata trasmessa da bambina, quando rimaneva dai nonni durante le vacanze. Dopo cena, ogni sera, con i cugini, si sedevano sotto al portico e osservavano rapiti il rincorrersi delle lucciole, ascoltando il rumore della natura che li circondava.

 

Voleva fortemente riprovare quella gioia così pura, così primordiale che aveva sentito in quelle afose giornate estive, fatte di risate, di liti, di giochi e di tante lezioni di vita che solo crescendo era riuscita ad apprezzare fino in fondo.

 

Quando lei e i cugini rimanevano dai nonni, vigeva la regola del pranzo della domenica, un appuntamento fisso, a cui nessuno poteva mancare, a cui nessuno avrebbe mai rinunciato. Ada iniziava a decidere cosa servire ai suoi ospiti dalla mattina del giovedì e talvolta la preparazione del banchetto richiedeva un impegno di giorni. I giovani nipoti la aiutavano, o così credevano di fare, ma in realtà l’intento della donna era quello di trasmettere loro il piacere delle piccole cose e l’importanza di sacrificarsi per chi si ama.

 

Maddalena aveva deciso da un paio di mesi di trasferirsi al casale, recuperando le tradizioni di famiglia, ricostruendo l’identità dei suoi cari, onorando la loro memoria. Aveva riflettuto a lungo ma sapeva di aver fatto la scelta giusta.

 

Le ultime due settimane le erano servite a rimettere in ordine la casa, si era fatta aiutare da qualche vicino a sistemare il grande giardino e aveva già iniziato a ricreare l’orto di cui suo nonno era stato geloso custode.

Gli ultimi tre giorni li aveva passati in cucina, la domenica i cugini e le loro famiglie sarebbero stati ospiti di Maddalena e de “la Selvaccia”. Così aveva ribattezzato la casa, così come suo nonno amava chiamarla.