A chi…

A chi…
Mi chiedo a chi potrei dare tutto l’amore che preme
sulle porte del mio cuore, che ho chiuso perché
troppo profondo è il dolore, la delusione.
Amare ed essere riamata.
Mi sarebbe bastato questo, due piatti e due bicchieri.
Ma proprio questo non ho trovato o forse l’avevo
e l’ho lasciato, ormai non ha più importanza.
Darò l’amore ai miei cari, ai miei amici,
ma l’amore che sognavo no, non ne voglio più saperne.
Era un sogno dolce e romantico, ma forse così
non doveva andare, forse io l’ho tradito
per non aver ascoltato il mio giovane cuore.
Ora il tempo degli affetti, sono belli anche quelli
e di rimpianti non si vive.
Addio mio tenero sogno…
E’ stato pur dolce averti.


Binge drinker

Tu probabilmente non sai neanche quel che vuol dire,
ma lo so bene io.
Quello che non so è quando deciderai nuovamente di trasformarti
e perdere così la tua dignità,
diventando una cosa penosa da guardare.
Ancora non hai capito che da sé stessi non si può fuggire
e che l’alcool non risolverà i tuoi problemi.
Ti farà invece perdere l’unica cosa bella che ti è rimasta,
visto che hai troncato con tutto il resto.
Faresti bene a renderti conto di quello che rischi,
perché stai già lasciando andare l’unica ancora che hai.
Potresti non perderla fisicamente, ma il suo cuore sì,
ed in parte lo hai già perso.
Nessuna voce dentro di te cerca di farti capire
quello che sta accadendo?
Io credo di sì.
Ma è più comodo ignorarla, almeno ancora per un po’.
Quando avrai perso tutto il suo cuore,
la persona piena di vita e di passione che hai accanto
sarà per te come una bambola,
che tenterai inutilmente di far rivivere.


Se solo…

Se solo tu non fossi così aggressivo,
se solo tu non sfogassi la tua rabbia su di me,
il mio corpo non sarebbe sempre malato.
Io tenterei di spiegartelo
se tu mi ascoltassi veramente
e non pensassi solo a difenderti.
Quante volte ho tentato di spiegarti
che l’aggressività colpisce il mio cuore ed il mio corpo,
ma nulla è mai cambiato.
Vorrei tanto poterti parlare con serenità
per risolvere questo macigno tra di noi,
ma so che non avrebbe alcun effetto.
Sarebbe solo un’altra discussione,
un altro sfogo di rabbia su di me
e la mia anima ferita mi farebbe ammalare.
Che speranze ho?
Non certo che tu cambi
ed è anche difficile che io riesca a fronteggiare la rabbia.
Vedo un tunnel buio, senza luce,
ed io nel tunnel con la mia infelicità.
Dov’è finita la mia gioia per la vita?
E’ stata risucchiata dalla rabbia che ti porti dentro.


Il vento dei ricordi

Quando il cuore mi sembra un macigno nel petto,
quando devo gioire da sola,
si solleva un vento che mi porta via.
Via dai dispiaceri,
dalla delusione di un amore tanto sognato,
entro nello scrigno dei miei ricordi.
Ma com’è possibile che siano così vividi,
così freschi, emozionanti come un tempo?
Forse il cuore è molto più grandi di quanto immaginiamo
e nulla dimentica.
Ci sono degli anni vuoti nei miei ricordi,
troppo dolorosi per poter riaffiorare.
Ma quelli fatti di amore, gioia, tenerezza,
quelli no,
li posso richiamare a comando.
E mi ritrovo ragazza innamorata per la prima volta,
con ancora la nausea per la troppa emozione.
O mi ritrovo sott’acqua,
pesciolina agile e snella che non ama la superficie.
O quando, ancora sfinita,
ho visto per la prima volta il miracolo della vita,
due occhioni azzurri appena nati
che mi fissavano spalancati.
Quante ricchezze ci sono dentro il mio cuore,
che attendono solo di essere richiamate
quando i giorni sono troppo bui.


Figlia adorata

Anche tu ti sei accorta
Che mai come ora stiamo state così vicine.
Tante incomprensioni, tante intromissioni
ci avevano allontanato.
Ma l’amore no,
quello resisteva tenace anche nelle ore più buie.
Ed ora è esploso,
gioia impagabile che ci unisce saldamente.
Non importa dove siamo,
non importa con chi siamo,
ora il legame è solo tra te e me.
Mi hai reso nonna,
tu hai la tua vita
come io ho la mia.
Ma sappiamo entrambe che nulla più ci separerà.
Quanto ti adoro, bellissima creatura
Che ho avuto in dono come figlia!
Attraverso mille pene
sei diventata forte e coraggiosa,
pur mantenendo tutta la sensibilità.
Ci capiamo anche senza parlare,
uno sguardo o l’abbassare degli occhi
parlano per noi.
Coraggiose sono le donne
e non hanno il bisogno di dimostrarlo.
Ormai donne tutte e due,
abbiamo un tesoro
che di farà rialzare dopo ogni caduta.
Ti voglio così tanto bene…


Aries, la storia di una goletta

Mi ricordo ancora, come fosse oggi, quando mi trovavo nel capannone dietro la fabbrica, dove mio papà, insieme ad un amico, stava costruendo, pezzo per pezzo, una goletta meravigliosa e grandissima, per me che ero piccola…
Sento ancora il profumo di legno bagnato che si diffondeva quando mio papà tirava fuori le assi, una dopo l’altra, da una scatola di legno che buttava fuori tanto vapore, mmm… che delizia!
Anche se ero piccola capivo che le metteva là dentro perché il legno diventasse flessibile. Difatti, appena le tirava fuori, le posizionava e fissava su quello che mi sembrava uno scheletro di dinosauro, e le faceva asciugare curvate fissandole con tanti morsetti alla struttura. E così per ogni singola asse, pazienza infinita perché infinita era anche la sua passione. Come ero contenta di gironzolare attorno ed osservare ogni cosa con i miei occhi, già curiosi per tutto ciò che mi circondava.
Ci sono voluti cinque anni di tenace lavoro serale per terminare la splendida goletta, mogano per gli interni e le battagliole (la ringhiera delle barche) e durissimo, chiaro teak per il ponte, dove potevamo solo a piedi nudi camminare. E com’era piacevole sentire quel legno liscio sotto i piedi…
Ho saputo da adulta che il progetto della goletta era stato fatto da Harrauer, famoso a quanto pare. Da piccola pensavo l’ avesse fatto mio papà, che è sempre stato geniale, e mi sembrava più che naturale che potesse progettare una barca. Ammirazione sconfinata delle bambine per il loro papà…
Poi, quando ero già alle medie, mio papà mi ha mandato per due estati a scuola di vela, bellissima esperienza di vita! Era una piccola accademia militare ai miei occhi, si dormiva in bungalow, si mangiava in mensa e tempo rigorosamente scandito dalle lezioni di teoria in aula la mattina e da quelle di pratica in mare con piccole barchette a vela, mattina e pomeriggio. Nostro compito era anche armarle, cioè posizionare albero e deriva e montare le vele, prima di uscire in mare e disarmarle al rientro. In tutto 4 volte al giorno! Massima disciplina, ma per me era tutto meraviglioso: far andare la barchetta a forte velocità e sentire il vento tra i capelli, imparare i nodi marini (che sfrutto tuttora per gli usi più disparati) e… la rosa dei venti! Che mondo magico!
E poi a fare pratica sulla goletta! Mio papà aveva dovuto superare ben più difficili esami nautici a Genova, per ottenere un patentino col quale poteva navigare ovunque. Ma noi non ci scoraggiavamo per così poco, l’entusiasmo ci accomunava.
Dentro Aries, cosi chiamata perché al posto della polena (una statua di legno, solitamente una donna, fissata sulla prua della nave, giusto sotto l’ attacco del bompresso, il “naso” della goletta) aveva una grossa testa d’ariete. Bianca come lo scafo e definita con leggere linee color oro.
Si entrava all’ interno attraverso un boccaporto, ingegnosa porta multiuso, e per primo c’era un piccolo soggiorno rivestito di mogano con un grande tavolo ed ogni minimo spazio sfruttato da armadietti con chiusura di sicurezza. Poi seguiva l’ angolo cottura, piccolo ma funzionale, il bagno con il gabinetto che non si poteva, per ovvi motivi, usare in porto, due cabine letto con cuccette e vani per riporre le nostre sacche (bandite le valigie! ), una con 4 cuccette e l’ altra con 3. Alla fine c’era il vano per riporre le enormi vele, fatto a triangolo perché era all’ estrema prua, lì finiva lo scafo. Tutto era rivestito di mogano lucidato col flatting, vernice resistente usata per le barche. Com’era bella! E che piatti deliziosi cucinava mia mamma, cuoca eccezionale, in quel cucinino! Ah, quanti ricordi…
Aveva all’esterno due alberi maestri, altissimi. Il più alto era a poppa, dove c’era una piccola piazzetta con delle panche attorno ed un bellissimo timone a ruota in mogano al centro, con la strumentazione necessaria. Si pilotava in piedi ed esposti alle intemperie, quante volte sotto la pioggia battente e con i pantaloni e la giacca gialli impermeabili, come nei film!
Per tutta la lunghezza della nave c’era questo ponte di teak, resistentissimo, ma vietatissimo alle creme solari! Ma chi pensava alla crema solare? Io no di certo! Il secondo albero era posizionato quasi a prua, dopo il castelletto, struttura rialzata con finestrelle per dare più altezza e luce alle cabine. Infine, all’ estrema prua, era innestato il bompresso, identico al naso di Pinocchio, fissato allo scafo con 4 catene grosse in metallo.
La velatura, altro racconto affascinante!
Sull’ albero maestro di poppa veniva issata la grande e trapezoidale randa, con due file distanziate di nastri per ridurre la velatura in caso di maltempo, e sopra la vela di trinchetto triangolare. Sull’ altro albero solo una grande randa trapezoidale. All’ attacco del bompresso c’era il primo fiocco, agile vela triangolare. Sulla punta del bompresso era fissato l’ altro fiocco, più grande del primo e più difficile da raggiungere, perché ci si poteva arrivare solo avanzando a piedi nudi sulle catene (altro che massaggi shiatsu! ) tenendosi ben saldi con le braccia al bompresso. Questo era in genere compito mio, che non avevo paura ed ero ben allenata dalla ginnastica artistica, dove l’ equilibrio era fondamentale. E questo con ogni tempo, con onde che mi sommergevano quasi del tutto e senza onde. Bella scuola di vita!
La prima crociera è stato il nostro battesimo in mare, letteralmente, visto che la goletta si è quasi capovolta alla prima tempesta! L’ alto Adriatico non è un mare poi così calmo come si potrebbe pensare…
In ogni caso, solo navigando ed affrontando il mare ci siamo fatti le ossa ed imparato ad evitare di rimanere con tutte le vele issate durante una tempesta, la peggior cosa che si possa fare! Poi abbiamo imparato altre raffinatezze, come mettere la goletta parallela alle onde alte e lunghe per non farla beccheggiare, che provocava spiacevoli disagi a qualcuno…
Mi piaceva moltissimo quando lo facevamo, la goletta seguiva il mare invece che litigarci, veniva portata in alto dall’ onda e vedevamo dove ci trovavamo, poi scendeva naturalmente e ci trovavamo tra due onde, due muri d’acqua che impedivano ogni visuale. E senza sforzo, senza agitazione.
Quanti ricordi, si accavallano impazienti di uscire!
Di notte, ancorati in alto mare, ci tuffavamo in acqua alla luce della luna e delle stelle. Muovendo braccia e gambe si creavano delle magiche scie fosforescenti, come fosforescente era la nostra pelle quando risalivamo a bordo. La magia era il plancton, minuscoli microrganismi di cui si cibano tanti pesci.
Oppure quando si era in piena navigazione a vela e mio padre fissava alcune funi a poppa (se dici corda in barca ti tagliano la lingua) e le lanciava in mare. Chi se la sentiva si tuffava in mare e si aggrappava alla fune per essere meravigliosamente trascinato nel mare dalla goletta che procedeva veloce.
Splendida esperienza di vita da offrire ad un figlio, che così impara ad avere coraggio nella vita ed a rialzarsi anche dopo le più rovinose cadute, come mi è regolarmente successo.
Ho visto colori splendidi del mare tra le isole Incoronate della Dalmazia, mi sono tuffata di testa in mare dalla battagliola innumerevoli volte gustando la bellissima sensazione di infilarsi come un ago nell’acqua, tuffi che con la pratica sono diventati perfetti. Capire le condizioni meteorologiche solo osservando il cielo ed il colore del mare, che in realtà ha mille colori…
Ritrovarsi un giorno con i lunghi capelli color grano che risaltavano sulla pelle scura ed il corpo tonificato dal quotidiano esercizio alle vele e nel mare, diventato agilissimo ed obbediente ai comandi. Che sensazione grandiosa, potente!
Un’ esperienza che mi ha forgiato dentro e che, nei momenti più disperati, mi ha sempre fatto vedere una piccola luce laggiù in fondo, quando tutto intorno era oscurità.
Oggi la goletta non esiste più.
Ha preso rotte inaspettate, navigato per mari lontani, per poi finire i suoi giorni tra le isole delle perle nel Pacifico.
La storia della mia famiglia, ma questa è un’ altra storia, non è andata come si pensava. Un rovescio finanziario per mio padre l’ha fatto salpare all’ istante agli inizi degli anni’80, insieme a mia mamma giustificatamente riluttante (anche perché il loro rapporto si era deteriorato), per chissà dove. L’ importante era fuggire. Noi figlie, già grandi, ce la siamo cavata come meglio abbiamo potuto, chi con rancore, chi con comprensione. Dopo un anno mia mamma è tornata, sentiva troppo il richiamo dell’ amore per le figlie ed anche per una vita stabile.
Mio papà non è mai più tornato nella sua vita.
Ci sono stati anni trascorsi senza sapere dov’era, arrangiandoci noi donne, chi studiando e chi lavorando. Poi, all’ improvviso, un suo amico italiano si è messo in contatto con noi, dopo circa 7 anni, per avvisarci che mio papà era in difficoltà e si trovava su un’ isola al largo di Panama, sul Pacifico.
Aveva conosciuto una donna, con la quale aveva navigato per metà del globo, che lo aveva lasciato all’ improvviso e lui non voleva più vivere. I ricordi sono confusi a questo punto, so solo che abbiamo ristabilito il contatto, contatto che io sola ho mantenuto con lui fino alla sua morte. E sempre io sono stata la sola ad essere avvisata della sua morte dalla polizia, perché lui aveva in tasca un biglietto col mio numero di telefono… che tenerezza.
Dopo aver superato il suo grande dolore per l’ abbandono, aveva conosciuto una giovane, e sicuramente bella se lo conosco, signora di Panama città. Si sono innamorati e mio papà, che intanto si era organizzato la vita imbastendo una piccola impresa di restauro e costruzione di case a Contadora, la più importante dell’arcipelago delle perle, ha progettato e fatto costruire sull’ isola una bella, grande casa. Lui e Mariela abitavano al piano superiore, mentre il piano terra era adibito a Bed & Breakfast. Così, in semplicità, avevano trovato il modo di vivere insieme ed anche mantenersi. Io ad ottobre andrò a Contadora, dove ancora vive e lavora Mariela, di cui sono diventata amica. Vedrò i luoghi dov’è vissuto mio papà, ritroverò radici spezzate…
Negli anni in cui mio papà viveva a Contadora la goletta invecchiava, insieme a lui. Un giorno hanno capito che non avrebbero più potuto divertirsi insieme, non ne avevano più la forza. Posso immaginare lo struggente dolore di mio papà nel lasciare andare un’amata compagna di tante avventure, ma un capitolo della sua vita si era concluso. Durante gli anni vissuti a Contadora mio papà ed io ci siamo scritti, parlati al telefono, spedito fotografie. Io l’ avevo ritrovato, con semplicità perché non so fare diversamente, ma il resto della famiglia no. Mia mamma con dolore ma senza rancore, mia sorella sfortunatamente con dolore e molto rancore. Così hanno avvisato me quando è morto…
Mio papà è volato via il 1° agosto 2008 e da allora Mariela ed io ci siamo mantenute in contatto anche telefonico. Per poter comunicare in spagnolo con lei ho scovato su internet un corso gratuito online di spagnolo, sufficiente per persone desiderose di capirsi. Mariela poi mi ha fatto un regalo veramente prezioso. Durante gli anni di navigazione mio papà ha tenuto un diario di bordo insieme alla sua compagna di allora, della Svizzera francese. Diario che ha riempito di splendidi, coloratissimi disegni. Mi ha mandato le scansioni in pdf di tutte le pagine dei sette volumi del diario ed io ho potuto così colmare i vuoti che avevo.
Da questa storia ho imparato una cosa, penso importante.
Se si accettano le persone, soprattutto i propri genitori, senza giudicarle, anche con i loro errori (chi non li fa scagli la prima pietra), si fanno esperienze straordinarie, inimmaginabili, inaspettate, che la vita riserva a chi guarda il mondo con amore.
Grazie mamma, grazie papà, per tutto quello che mi avete donato, ciascuno a modo suo. Mi avete resa forte e coraggiosa. Ed io vi porto sempre nel mio cuore, come porto al dito le vostre fedi nuziali che ormai non vi servono più…