Puttana natura

Era come se quella piccola baia fosse colma d’amore. Amore pieno e pesante come acqua. E facevo fatica a

nuotarci dentro perché…perché non era la mia natura. Non avevo mai respirato così tanto amore e piante e

alberi e acqua dolce e sesso crudo da rimaner così tanto vivo prima di allora.

Sensazioni sublimi quando quella bocca meravigliosa chiese al mio corpo nudo se volesse un bicchiere di

vino.

Una corta strada sterrata, un piccolo parcheggio e mucchi d’erba inesistenti, mentre vipere e insetti ci

accompagnavano dentro il cuore inesplorato di quel lago meraviglioso.

Il lago era vuoto. E il sole iniziava a cadere pian piano tra le colline come un voyeur che non voleva perdersi

neanche un attimo di spettacolo. Il nostro spettacolo.

Prese i bicchieri che aveva nella borsa solo per dimostrare che mi amava. Poi la pozione della verità color

viola fegato cadde rovinosamente sul fondo degli stessi, colmandoli.

Grazie alla forza di gravità fluì velocemente dalla bottiglia ai bicchieri, dai bicchieri alle trachee e giù fino ai

cuori. Fino a piantare l’aleggiante seme della follia direttamente al centro dei nostri destini.

“Vuoi fare l’amore con me?” disse quell’esemplare perfetto di crudeltà ed eleganza.

Fu così puro che somigliò a una poesia. Una poesia qualunque, non una in particolare.

Fu diretto dal cuore al cervello e subito dopo fu espresso nei modi più disparati.

“Quanto è strana la natura?”

Lei incise qualche espressione incuriosità sul suo sorriso grezzo rosa di neonato.

Eravamo sdraiati sul prato, l’uno di fianco all’altro. I cervelli li lasciammo ad affogare nell’acqua dolce di

quel lago solitario.

“Perché, secondo te, la farfalla” la mano scivolò sulla sua pancia di pesca sfiorando l’ombelico come se non

esistesse nient’altro “ha una vita così corta?”

Un bacio bollente ci ustionò le labbra:

“Perché la natura è una carogna. È un’adolescente brutta e gelosa, chiusa perennemente in casa, che gioca

con i destini di quei piccoli personaggi fatti di pongo” disse lei mentre mi carezzava l’orecchio. Poi scivolò

sul torace, massaggiandolo.

“La penso esattamente come te” sussurrai io arrivando finalmente alle porte del suo paradiso. Arrivò ad

aprirmi un gemito regale, impavido e superbo, da quelle lande oscure e sconosciute.

“Sono sicura che la natura se la ride di gusto quando vede la povera farfalla aleggiare scomposta”

Prese in mano il mio destino agitandolo come fosse inutilmente stupido, pronto ad essere educato da

quella dea sdraiata di fianco.

”Ci prova in tutti i modi: mutila le sue prede per vederle annaspare nell’unico giorno della loro vita. Che

sadica!” urlò, oltraggiata dal turbine di sesso che ci aveva ormai risucchiato tra i fili d’erba.

Poi salii sopra di lei. Poi dentro di lei. Poi accendemmo quelle luci ancora spente e dopo sentimmo il motore

della lussuria col suo rombo maestoso. Corpi tremanti e lucidi, mentre il sole calava pian piano cercando di

non perdersi neanche un attimo di quella meraviglia.

“Quando si ferma poi. Quella povera farfalla” dissi io affogado d’amore “non esprime neanche tutta la sua

bellezza. Noi vediamo solamente una parte di quel quadro stupendo delineato sulle sue ali”.

Fu sesso crudo e vero. Farfalle e bruchi e bozzoli e baci e graffi e morsi. Fu il nostro oltraggio alla natura. Un

urlo di disperazione verso quella strana boccata di vita regalataci dalla Madre di tutto quello che ci

circondava.

Planammo verso la realtà come due aquile sulla preda. Poi ci girammo indietro e vedemmo che era sempre

lì, quel magnifico spettacolo. Era sempre lì dove l’avevamo lasciato. E ogni volta era proprio la strada

difficile e tortuosa, era l’arrampicata e la discesa libera, a farlo risplendere così meravigliosamente.

La natura intanto rideva alle nostre spalle e noi ci addormentammo in un letto di foglie con le ali spiegate

verso il lago, sapendo che il giorno dopo non ne sarebbe rimasto nulla di noi.

Baciai il paradiso dal basso della mia desolazione e, poco più tardi, mi addormentai piangendo, rivolto verso

quella meravigliosa farfalla di fianco a me.


Tramanto al ritorno da Bologna

Una linea che lampeggia ininterrottamente su di un mare di bianche realtà. Un’invisibilità da cercare nel

cervello sottovuoto che sta accompagnando ancora la mia vita.

Le realtà si delineano sulle rughe della mia faccia. Le pieghe nella fronte che una volta non c’erano, adesso

gareggiano come scie di ricordi. E l’aria da malato terminale che avvolge lo sguardo cupo e spento è un inno

alla solitudine dei pazzi da stalla. Quelli che urlano e vivono e bevono bruciano tutto, anche se non ne

hanno realmente bisogno. Perché la loro felicità è lì, scaldata tra costole e ascelle. Protetta, tra anima e

cuore.

Guardo infinitamente dentro lo stesso cuore che sputa verità su un letto di ignobile autostima refrattaria, e

inizia il viaggio.

Vengo sparato come un proiettile, per poi trasformarmi in inchiostro volante e astratto in una scia di indaco

gas stellare con tratti somatici di sognatore. Il cervello riemerge dal cestello della friggitrice, augurando al

mondo una fine migliore di quella alla quale sta assistendo.

Le dita sono glacialmente intorpidite dalle notti nelle quale il motivo per cui lo si faceva non era troppo

forte come lo pensavamo. Ed è qui che appare la vera tristezza. Perché è passato un anno, e ancora non

riesco a collegare lo spinotto dei sogni.

La macchina corre lungo l’autostrada e stelle che s’incontrano per caso fanno partire una sorta di grande

carro lungo la Grosseto-Bologna incastonando tra loro realtà diversissime dentro quattro lamiere.

Speranza, paura e anche molta fiducia che danno l’imput all’ondeggiare delle redini grigio smog

costeggianti la mia sella. Tra una risata del tutto estranea e una storia incredibile, mixiamo nel tritacarne

della casualità un procrastinatore di teorie sulle droghe sintetiche e un lavoratore concreto scappato dalla

vera guerra. Quella che puzza come una fogna, e che ti sbatte in faccia come un treno a centottanta e tu

non puoi che sentire le urla entrarti sino alle ossa per poi farti rabbrividire a ogni timbro simil-disperato che

incontrerai in futuro.

Arrivando, il cervello inizia a friggere e le gambe a far male e le risate a sciogliersi in una nube di reale

liquida felicità che disseta gole secche di emozioni.

Poi ci sono stati attimi di speranza e i buoni propositi non urlati a nessuno, ingabbiati dentro casse

toraciche come vuoti di positività. E persone bianchissime che sognano realtà scomode e le vomitano su di

un terrazzo anonimo alle 10 di sera.

Le persone che non si sanno divertire e passeranno la loro vita a credere di farlo, le altre che lo fanno in

ogni attimo della loro vita e le altre che attendono quel momento come fosse oro. Poi urla e baci e abbracci

e l’anno corre via come una puttana con le banconote in mano, portandosi via momenti stupendi ed

emozioni dalla tua storia. Lasciandoti lì, spiazzato, in un divano di colore indefinito che gira e gira e tutto

intorno a te diventa nero e hai paura di cadere da un momento all’altro ma alla fine, forse, nemmeno

t’importa più di tanto. Perché torni alla realtà come un sub in carenza d’ossigeno e inali tutto il meglio che

questi schiavi dell’ingiustiia posson regalarti. Ed esali speranze appena concentrate sopra universitari pieni

di belle speranze e sogni e occhi di genitori fieri e case accoglienti e copertine di flanella e pigiamini a pezzo

intero e nonne sognanti e piangenti che stringono corpicini purissimi di bellezze celestiali.

Quel che mi ricordo è l’abbraccio tra le fronde ghiacciate di neve e il mio piscio caldo sulla strada del ritorno

che evapora e sale fino in cielo portandosi via il meglio, di quel che calpestiamo, assieme alla speranza che

la privamera arrivi, prima o poi, per tutti.

E il tramonto. Cazzo, dove la strada finisce e gli umani ingabbiano la loro intima perversione dentro a

cumuli e cumuli di smog alto come castelli, gli altri, quelli che credevano in qualcosa, sotto sotto, si

scaldano con il dolce suono del dipinto più bello del mondo. Una vita sospirata su di un foglio bianco che

diventa indaco e rosa e arancio fresco di Sicilia e giallo acceso come la realtà che inebria le nostre

pigmentazioni. C’è chi dice che i colori non esistono. E lo direi anch’io, se non fossi fermo nella piazzola di

sosta sulla discesa dopo Paganico con le quattro frecce, e Dio in persona mi stesse sussurrando un segreto

con piccole pennellate di celestiale voce bianca di bambina cieca.


Lividi

“Mamma, mamma” voce angelica che non smetterei mai di ascoltare. Giulio nella sua stanza.

“Arrivo” smetto di lavare i piatti e tolgo i guanti lasciando tutto lo sporco ad ammorbidirsi ancora un po’.

Scale che si susseguono in ordine preciso e passi che precedono la meraviglia. L’unica ragione della mia vita.

Apro la porta e lui è lì, davanti a me. I capelli a scodella che gli abbiamo fatto la settimana scorsa cercano di

coprire la faccia. E lui sta cercando di far proprio quello: sparire e teletrasportarsi da un’altra parte.

Cinque anni e occhi meravigliosi coperti da palpebre di speranza strizzate in pensieri intensi d’evasione.

Gambette bianche e morbide incrociate in posizione zen e dita che si fondono con tempie a mo’ di

filosofico scontro tra estranei pensatori.

“Amore, ma dove sei?” dico io mentre sorrido. Poi mi metto in ginocchio e appoggio la mano sul letto

abbassando la testa per guardar sotto.

“Qui non c’è” bofonchio mentre, ogni tanto, gli mando qualche occhiata.

“Potrebbe essere nell’armadio!”

Apro l’armadio e, stranamente, non c’è ombra di mio figlio.

“Ma dove si è cacciato?” rimugino a voce alta. Lui accenna un sorriso ma rimane concentrato il più

possibile.

“Giulio! Giulio!” inizio a far la voce preoccupata. “Giuliooo!”

Silenzio.

“Oh mio Dio ma dove è andato? Ora dovrò chiamare la polizia così che lo trovino!”

Cammino con passo strascicato verso il telefono fuori dalla stanza quando sento dire “Mamma, mamma.

Non chiamare la polizia! Sono qui!” e il mio angelo corre verso le mie stanche braccia come fossi il suo

prediletto ripostiglio.

“Amore, ma dov’eri?”

“Ho imparato finalmente a teletrasportarmi, mamma! Vuoi sapere come ho fatto?” e gli occhi sono così

meravigliosi e pieni di sogni che quasi mi vien da piangere quando gli chiedo di spiegarmi il trucco.

“Basta che chiudi forte forte gli occhi e metti le dita sulle tempie e stai ferma immobile per tutto il tempo e

pensi di andare via dalla stanza. E poi…e poi tu vai davvero in quel posto che pensavi prima e così le cose

che sono dove ti trovi esistono davvero. Tu le senti, ma non ti vedono. Sparisci, mamma!”

“Ma davvero?” chiedo incuriosita.

La sua voglia di vivere, la speranza nel mondo e tutto quello che c’è dentro mi fanno scattare in un

abbraccio spontaneo che lo strizza in una morsa materna. E non ci sono legami e amori e amicizie o

comunque sentimenti più puri di quelli che una madre può provare per il proprio figlio.

L’attaccatura dei capelli sulla nuca è morbida e la mano ci passa consolatrice un paio di volte prima che si

stacchi dalla presa. Gli chiedo dove ha pensato di andare in quegli istanti di fuga.

“Sono andato a Marina. Ero al mare e c’era molto caldo, ma ero in costume e non lo sentivo. Poi…poi sono

andato a fare il bagno e dopo ho riaperto gli occhi ed ero qui con te” disse lui con sicurezza “ma se non

sentivo che volevi chiamare la polizia io andavo a fare anche il bagno fino all’acqua alta come ho fatto con

babbo la scorsa estate. Ti ricordi?”

Io annuisco e sorrido. Poi gli do un bacio sulla testa e mi avvio verso la cucina per continuare a lavare i

piatti:

“Ma mamma, non vuoi teletrasportarti da un’altra parte anche te?” mi chiese, e mai domanda fu più

brutale nella sua innocenza.

“No, amore. Io sto bene qui” risposi mentre volsi le spalle e andai verso la cucina. E mai risposta fu più

amara e condita di false speranze.

Il pomeriggio passò velocemente e i piatti fecero lo stesso. Così trovai ancora un po’ di tempo per imparare

a teletrasportarmi assieme a Giulio. Poi, verso le 20.00, arrivò Marco.

Aprì la porta e gettò le scarpe all’entrata nel maniacale modo di fare che aveva ogni giorno.

“Allora, c’è qualcuno in casa?” urlò con voce biascicante autorevolezza.

Avrei voluto spiegargli che, a quel mondo, ad azione corrispondeva reazione. E che ognuno era

conseguenza di tutto quello che faceva e che la vita non poteva sorridere sempre ad ogni suo

comportamento di ubriacone, ma sarebbe stato tutto inutile. Un maiale non capirà mai quanto è

meraviglioso il cielo neanche portandolo su di palazzo, pensai.

Così risposi “siamo qui” con voce delusa.

Lui venne in camera portandosi dietro un odore acre di Jack Daniel’s che ormai sapevo riconoscere da

lontano. Anche se quella era una misera abilità che avrebbe acquisito anche un fumatore incallito, davanti a

lui. Davanti all’odore di alcol e di volgare delusione che emanava ormai da anni.

“Vieni qui. Che fai non mi saluti?” chiese a Giulio. Ormai neanche uno sguardo verso di me.

Silenzio.

“Dai Giulio, vai a salutare babbo che è tornato da lavoro” dissi io facendo da paciere. Ma nella mia testa

volevo che morisse e che io e Giulio scappassimo lontano da quell’inferno senza viverne un solo istante di

più.

Giulio seguì il mio consiglio e con fare svogliato camminò verso il padre guardando per terra. Io mi sentii

una traditrice per averlo spinto all’inferno direttamente dalla porta principale.

“Allora, campione, Domenica ti porto al circo. Ti va?”

La zaffata che ne venne fuori ricordava una distilleria malconcia ma Giulio non demorse e annuì guardando

il pavimento. Sapeva bene che se non rispondeva o faceva notare l’odore della bocca del padre sarebbe

finito in guai seri. Era forte il mio bambino. Aveva capito tutto di come si stava al mondo.

“E rispondimi per bene!” lo prese per il mento, alzandogli lo sguardo.

Sguardo intenso per qualche secondo, poi ottenne la risposta e Giulio tornò a sedere con me e i giocattoli.

Il mostro se ne andò e io detti a Giulio un bacio mentre guardavo i rimasugli dei vecchi occhi pieni di vita,

spegnersi alla velocità della luce in una stanzetta per bambini.

Andai in cucina e incrociai Marco mentre prendeva una birra. Quando si avviò verso il divano domandai:

“Ti sei fermato al bar anche oggi?”

“E a te che cazzo ti frega?”

“A me niente. Ma almeno smetti di promettere cose a tuo figlio che non manterrai mai. Promettilo alla

birra di andare al circo. Sicuramente sarebbe una proposta più sincera”

Lui si fermò all’entrata della cucina. Le spalle gonfie si ingrossarono dalla rabbia.

Dovevo imparare da Giulio. Accidenti alla mia bocca del cazzo. È tutta colpa mia.

“Cosa hai detto?”

Ancora non si era girato ma già immaginavo i suoi occhi rosso fuoco con pupille immensamente perse nel

vuoto di quella rabbia. L’unica cosa che lo faceva sentir vivo.

Si girò un attimo dopo e gli occhi erano veramente bollenti che il terrore mi pervase e mi costrinse a dire

“niente” e a glissare davanti alla pazzia di un uomo comandato dall’alcol.

Ma l’uomo non si fermò, come non si era mai fermato davanti a queste situazioni da vigliacco frustrato.

Così avvicinò il suo corpo con fare da gangster impugnando la bottiglia e indicandomi, assieme alla sua

amica che si dimenava dentro il marrone colore del vetro.

Mi minacciarono come avevano sempre fatto. Lui e lei. E mi puntavano dita, mi stringevano il collo e mi

accarezzavano in modo brutale le guance mentre bestemmiavano frasi di volgarità e arroganza senza

valore.

Io ero attanagliata dalla paura della sua furia. La conoscevo bene e dovevo agire da brava mogliettina per

far sì che essa non venisse fuori.

“Cosa c’è, non ti piaccio più?” mi disse mentre strinse violentemente il mio culo tra quelle chele ispide che

provocarono solo fastidio al mio corpo. Mani che un giorno furono piene di passione e gloria, adesso erano

il mezzo che infastidiva il mio animo già spezzato dal ricordo dell’amante che era in lui.

Io rimasi in silenzio mentre la sua lingua spezzò il mio equilibrio e si unì alla mia in uno schifoso miscuglio di

saliva acida e alcol e fiato di tenebra e labbra di cartone.

Mi appiccicò al frigorifero e la maniglia sbatté sulla mia schiena già stuprata più e più volte e mi venne da

dire “aiah”, ma questo lo arrapò ancora di più da chiudere la porta a vetri della cucina e cercare di

sbattermi sul tavolo. Io resistetti un po’ ma le sue dita scavarono dentro me come delle macchine.

Io ero troppo asciutta e sentii solo dolore e lo respinsi. E più lo respingevo e più la sua potenza dirompente

si gonfiava come la sua schiena e mi provocava dolore. Un dolore che negli anni non avevo ancora imparato

a sopportare.

Alzò il vestito che tenevo per casa e cercò di infilarlo blaterando che comandava lui là dentro e che era lui

che guadagnava e portava in casa il pane e che voleva rispetto e che dovevo fargli da schiava e tutte queste

cazzate mentre spingeva dentro me la fotocopia venuta male del ricordo di quando facevamo l’amore.

Per fortuna l’alcol lo portò nel baratro come ogni volta e il cazzo non rimase abbastanza duro così

risparmiai una scopata piena d’odio e niente di più, come una brava puttana casalinga senza dignità.

Perché quella ero. Ero una puttana, sì. Non c’era altro modo per definirmi. Anzi le puttane erano molto

meglio di me perché avevano figli a casa che non sapevano nulla del loro lavoro e che vivevano agiati e

facevano tutto quello per costruirgli un futuro lontano dalla merda che vivevano ogni notte.

Io ero solo l’ombra di una puttana disgraziata e senza speranze. Ecco cosa.

E quel mezz’uomo che cercò di scoparmi si allontanò e mi diede un pugno sui reni che entrò fin dentro le

ossa, piegandomi dal dolore.

Non sapevo perché l’avesse fatto come non lo sapevo mai. Eppure ero una buona madre. Cucinavo bene e

tenevo casa pulita. Poi trattavo mio figlio come un principe. Cosa voleva di più da me?

Così piansi come una disperata mentre urlavo dolore nell’angolo di quella cucina che stava diventando la

mia prigione giorno dopo giorno. E non c’era alcun Dio che riusciva a salvarmi dalla tempesta che si

scaraventava sulla mia ombra.

“Stai zitta, troia. Ti ho detto di non far sentire a Giulio le tue lamentele da deficiente. Smettila!” e uno

schiaffo in faccia mi tolse trucco e orecchini e sopracciglia minuziose e creme di bellezza. E tutto il mio

essere donna era lì, sparso nell’angolo opposto di quella galera.

Non ero più una donna.

Forse ha fatto bene a picchiarmi. Sono una nullità.

Poi un altro pugno arrivò dritto nella pancia mentre il suo sguardo di fuoco strizzò la mia faccia a pochi

centimetri dalla sua.

“Ci siamo capiti?” mi chiese con calma apparente alitando tutto il suo disgusto.

Io annuii ma forse non bastava per lui. Oppure era ancora un minimo arrapato da questa violenza, così mi

prende la testa e se lo tirò fuori in cucina e lo spinse in bocca mentre mi derideva e mi diceva di aprire “da

brava mogliettina” e tirare fuori la lingua e ingoiare tutto il mio padrone. E io piangevo e piangevo mentre

strozzavo con quel mostro in gola.

Mi venne da vomitare. Vomitare per tutta quella vita che regalavo ogni giorno a un assassino di emozioni

che avevo fatto entrare io e non riuscivo a mandar via.

Forse l’atto violento in sé era la sua ragione di vita. E questo lo dimostrava il fatto che l’uccello che bloccava

la mia trachea cominciò a indurirsi per davvero e le mie lacrime non bastarono più. Perché sapevo che dopo

pochi minuti mi avrebbe scopata sopra quel tavolino e io sarei dovuta stare in silenzio così da non attirare

l’attenzione di Giulio e non segnarlo a vita con quella scena orribile.

Poco dopo mi girò con forza sul tavolo, come avevo previsto, e mi alzò la gonna di nuovo. Stavolta

sputandosi in mano e avvolgendoci il corpo del reato, prima di entrare.

La tecnica funzionò ed entrò e uscì dalla mia vita come un uragano in una discarica che alzava montagne di

spazzatura e le faceva girare e girare spargendole per tutta l’immensa e meravigliosa cittadina che un

tempo era la mia vita.

Ma io avevo un segreto che lui non sapeva. Io credevo in qualcosa.

Io credevo in mio figlio e credevo che finché lui fosse stato vivo, vicino a me, avrei potuto fare qualsiasi cosa

nella vita.

Allora feci come mi aveva insegnato. Smisi di piangere e mi concentrai. Mi concentrai per sparire da quel

posto e andare via in luoghi lontani.

Appoggiai i gomiti sul tavolo e le mie dita tremolanti spinsero fortemente le tempie. Gli occhi si chiusero

con forza e cercai di sparire da tutto quell’inferno.

Le immagini stavano svanendo e mi venne in mente una spiaggia.

La spiaggia era caldissima e vidi Giulio, in acqua. Era molto lontano. L’acqua era altissima laggiù. Mi chiamò.

Mi disse “Mamma, mamma. Corri! Non sai che ti perdi!”

E io non ci pensai due volte a correre da lui.

La mia corsa fu libera e leggera e diventava goffa e scoordinata pian piano che il livello si alzava. Così cercai

di scappare dall’acqua che m’invadeva per fare il prima possibile e raggiungere il mio amore puro, mentre

in sottofondo sentii diminuire quei fastidiosi spasmi che ricordavano vagamente l’ansimare di mio marito.

La corsa non era più fluida e facevo fatica a continuarla. Così mi tuffai e mi lasciai trasportare dall’acqua che

pervase il corpo e nuotai e nuotai mentre le voci di mio figlio erano sempre più vicine e la testa andava giù

e in lontananza sentii una piccola voce ovattata che gridava “ma dove cazzo sei finita? Dove cazzo sei?

Troia! Torna qua che non ho finito con te” e altre cose che non capii bene perché ormai ero troppo lontana

da tutto quello per sentirle. Nel mio immenso, profondo, mare d’amore.

“Ce l’abbiamo fatta, mamma!”

Rialzai la testa dall’acqua e mio figlio era lì a pochi metri. Lo vedevo. Così mi godetti la freschezza di quel

vento e il sole cocente al di sopra di tutto che ci guardava, mentre un gabbiano urlava la sua canzone

preferita al mondo e volava sulle nostre teste.

“Sì amore, ce l’abbiamo fatta”.