Nuda sotto la pioggia

Nuda sotto la pioggia,
che come spilli era sulla pelle,
inginocchiata davanti alla forza del mondo.
non più donna ormai ero,
ma fango,
Sporca delle mie colpe.
ma mai fui più fiera di essere colpevole,
e guardatemi pure dall’alto,
voi pecore dal niveo manto.
Ma sappiate che io,
lurido sporco fango,
sto ancor più attenta di voi,
a non sporcar il vostro pelo,
per timore che possiate così
macchiare me del vostro candore.


Non voglio più stare qui

Non voglio più stare qui,
lasciami stare,
intrigata nei nodi della tua follia,
Non mi toccare.
rinfacci colpe che non ho,
tu hai voluto tutto questo,
e aspetti scuse che non meriti,
perché le lacrime sono tutto quello che ho.
Piango di rabbia e odio,
sono loro che fanno girare il mondo,
e ora ne sono succube anch’io,
mentre stringo i denti raggiungendo il fondo.
Mi abbasso al tuo livello,
chiedendoti il perdono,
che forse dovrei chiedere a me stessa.
È l’ultima volta,
mi prometto,
mentre di nuovo vengo travolta,
dall’amaro sorriso della tua pazzia.


Angelo incarnato

Quella linea non mi piace, anzi dire che non mi piace è un eufemismo, la detesto. È troppo spessa, troppo rozza e non riesco a sistemarla, sto cercando di coprirla in qualche modo, ma cavolo, è come se fosse stata creata con un inchiostro indelebile. Non posso permettere che quella cosa resti li.
Il suo viso dovrebbe essere dolce, curvilineo, i lineamenti marcati, ma non troppo, gli zigomi appena accennati. Invece quella deturpa tutto il mio lavoro, quella linea retta che fa assomigliare il viso che volevo, ad una stramaledetta forma geometrica. Potrei essere Picasso da quanto il viso che ho creato sembra quadrato!
Lascio perdere il viso, ripromettendomi di ritornarci più tardi, doveva venire perfetto, invece…
Non riesco a guardarla senza digrignare i denti dal nervoso, ho impiegato ore, giorni, per trovare l’ispirazione e ora le mie stesse mani mi hanno tradito. Passo a dipingere il corpo della figura indistinta. Prima nella mia mente quella figura era un bambino, poi un vecchio, poi una ragazza, ora sembra essere un incrocio fra un uomo e una donna.
Inizio a disegnare il collo definito con un muscolatura non molto accentuata, ma decisamente maschile. Maschili decido di fare anche le spalle, grosse e potenti, in grado di sorreggere un palazzo, mentre il petto, la vita, le creo secondo delle linee curve e dolci. Voglio fare come Leonardo Da Vinci con il suo “Angelo Incarnato” solo che voglio fare la differenza fra l’uomo e la donna, molto più evidente, in modo da creare molto più contrasto fra le due parti.
Il seno abbondante, per accentuare il più possibile la parte femminile, sono indeciso su come disegnarlo. Vorrei vestire la mia figura con una toga, tipicamente romana, maschile, quella che lasciano una spalla scoperta. Decido che, oltre alla spalla, lascerò scoperto anche il seno sinistro. Allora inizio a disegnare il capezzolo, ho un idea molto precisa in mente, deve essere piccolo e rosa, deve spiccare, deve essere il centro dell’attenzione di tutti. Deve essere rosso, come un piccolo bocciolo di rosa rossa appena nato.
Del seno destro disegno solo la forma che si intravede da sotto l’Himation , e continuo disegnando la curva stretta e sottile della vita e quella larga e sensuale dei fianchi. La tunica la faccio finire sopra al ginocchio, in modo da poter disegnare meglio le gambe e riuscire più facilmente a renderle maschili. Devono essere tozze, muscolose, in netto contrasto con le curve gentili e femminili del tronco.
Intanto fuori il mondo va avanti, la sera cala e la mia camera si immerge lentamente nel buio, ma io non riesco a staccarmi dal mio quadro, non riesco ad abbandonarlo nemmeno un secondo così.
Inconcluso.
Continuo a disegnare imperterrito, fregandomene del mondo e della stanchezza che mi si appiccica alle ossa, che le fa scricchiolare a causa delle troppe ore passate ricurvo su uno sgabello a dipingere. Grandi, grandi e sodi, mi immagino di toccarli, di sentire i muscoli guizzare sotto le mie dita. I polpacci perfetti, ecco cosa sono riuscito a disegnare, almeno a parer mio. Ma in fondo non dovrebbe importarmene molto del mio parere, in fondo sono i pareri degli altri che fanno avanzare la mia carriera.
I loro commenti mi rimbombano ancora nella testa, come tanti echi lontani, eppure alle mie orecchie sembravano così vicini.
Orrore nei loro occhi.
Di ribrezzo si arricciavano i loro volti.
Eppure,ogni volta che lo vedevo, non potevo che riempirmi di gioia e di orgoglio.
Avevo creato un ritratto bellissimo. Una madre con in braccio il figlio nudo adolescente. I capelli, il viso, il busto e le gambe del figlio erano femminili, le parti intimi erano maschili, così come le braccia e le spalle.
Tutti hanno guardato solo la stranezza delle fattezze di questo individuo, non si sono soffermati sul significato, non hanno nemmeno voluto ascoltare le mie ragioni. L’amore di una madre va oltre tutto, il sesso, l’aspetto, è semplicemente incondizionato, ma nessuno ha tentato capire, nessuno ha voluto capire, soffermandosi solo sull’aspetto esteriore delle cose.
Piango al ricordo di quelle parole così dure, piango di rabbia e delusione, mentre continuo a disegnare i piedi, in particolare le dita di essi, magre, ma tonde sulla cima. Ora ritorno al viso, disegnandolo velocemente, senza pensare, e viene fuori da solo, come se ce l’avessi avuto in mente da ore e l’avessi disegnato da sempre.
Quando è finito mi stupisco di quello che ho disegnato, ma non ne sono insoddisfatto anzi. Finisco gli ultimi dettagli, le mani, le pieghe della tunica, i colori e infine,ali. Ali d’angelo, grandi e imponenti, dai colori più chiari rispetto a tutto il resto, come se si illuminassero di luce.
Faccio un passo indietro, e accendo la luce in salotto, per ammirare il mio dipinto finalmente concluso. Etereo. Solo così potrei definirlo. I colori pastello gli danno un bellissimo effetto sfumato, come se fosse una fotografia e nel momento in cui la stavo scattando il mio obbiettivo si fosse mosso.
Di nuovo ricomincio a piangere, ma questa volta sono felice. Vado in camera mia e prendo una corda, ruvida, così sono sicuro che farà male, perché se provi dolore vuol dire che sei, eri, vivo. Torno in sala, non riesco a staccarmi dalla mia opera nemmeno un secondo, ne sono troppo fiero.
Lo farò qui.
Appendo la corda al lampadario, proprio davanti al dipinto. Sarà forse stato il fato? Probabilmente. Prendo anche una delle vecchie sedie dal tavolino che è in quella che, dovrebbe essere, la sala da pranzo.
Non piango più ora e non ho più paura e Salgo sulla sedia. Forse dovrei firmare il dipinto, penso guardandolo dall’alto in basso, legandomi la corda intorno al collo. No, non importa. Capiranno tutti che sono io il suo creatore, penso guardando il viso che ho dipinto. Il mio viso dipinto.
Per un attimo mi immagino lì, dentro al dipinto, con le ali sulla mia schiena che si muovono e vibrano a contatto con l’aria. Con i piedi faccio ondeggiare la sedia, la paura mi assale di nuovo, volto la testa di lato e non ci sono ali sulla mia schiena, ma ormai non posso più tornare indietro.
Manca ancora un piccolo passo e potrò volare per sempre, volare via da qui. Che bello sarebbe. Deciso calcio la sedia, facendola schiantare con un tonfo sordo a terra, ma io non cado, la corda intorno al mio collo mi fa rimanere appeso.
Gli occhi del mio dipinto stanno sorridendo, e benché la mia gola inizi a bruciare e a dolere, anche io sorrido, sentendo l’aria bloccarsi a metà nei miei polmoni. Non ho più lacrime da sprecare per gli altri, solo sorrisi da donare a me stesso, ed è così, sorridendo, che scivolo dolcemente in quel mare nero, e, chiudendo gli occhi lascio che l’oscurità mi accolga.