IL BATTITO TRA LE ROSE

Un mazzo di rose rosse appena colte è poggiato alla destra della semplice cornice di legno che non riesce a delimitare la travolgente energia che esplode dalla sua espressione felice.

La mia Bea ha sempre adorato i fiori, di qualunque tipo, purché fossero di entusiasmanti colori, belli di un’armonia rara e brillanti di vita, proprio com’era lei. Impossibile dimenticare la sua piena ed inconfondibile soddisfazione quando, da piccola, riusciva a cogliere in giardino dozzine di margherite o violette dalle forme insolite e dai colori originali. Questo amavo di lei: la sua grande capacità di riconoscere prontamente ed accogliere scintille di poesia ovunque.

Cerco sempre di stare ben attento che sul suo letto di un freddo grigio non vi siano petali opachi e secchi poiché secondo Bea, non più sostenuti dallo stelo, recano un messaggio di arido abbandono, straziante solitudine, incommensurabile lontananza.

Nonostante provveda, con amore sconfinato, accanto alla fotografia al consueto tripudio di colori in contrasto con questo livido ambiente, cupi sentimenti tentano di imporsi drammaticamente, a volte, sulla spensierata bellezza di mia figlia, indelebile nel mio cuore.

Sono trascorsi poco più di sette anni. Dalla notte di quel 21 Settembre la voce graziosa e morbida di Bea non mi sveglia più al mattino e non gioisce più per il disegno incantevole di alcuni boccioli.

Da poco più di sette anni trascorro la maggior parte del mio tempo a pormi domande che mi conducono nel vicolo cieco dell’ “ormai è troppo tardi”.

Piena responsabilità e lucida consapevolezza era il suo binomio peculiare. Quel 21 Settembre un balordo ha messo un punto fermo al sereno svolgersi della vita di Bea. Le ha intralciato la strada: guida in stato di ebbrezza.

I rettangoli bianchi disegnati sulla strada e il verde del semaforo le permettevano di raggiungere il versante opposto dopo aver appena lasciato la sua redazione. Nel suo studio dalle pareti sgargianti e dai numerosi scaffali appesantiti da libri di ogni genere, su quella piccola scrivania in legno aveva partorito idee originali, progetti interessanti. I suoi scritti profumavano di giovane e soave speranza. La sua determinazione era in un corsivo chiaro, lineare, in grassetto. La sua voglia colorata di andare oltre i limiti e la sua ingenua spregiudicatezza quella mattina non sono riuscite ad attraversare quelle due carreggiate. Ritmo spezzato. Una pausa inaspettata, inadeguata, incomprensibile.

Al volante di una Alfa Romeo nera l’incoscienza del grave pericolo, il letargo della ragione, l’irresponsabile silenzio della morale hanno distrutto la sua giovane e soave speranza, la sua delicata ed energica determinazione. Hanno spento l’interruttore dei suoi sogni. Hanno bloccato il suo film sul più bello. La totale noncuranza del semaforo rosso, l’accelerazione rischiosa, i riflessi offuscati, i pensieri opachi, confusi.

Un ultimo rombo.

Un ultimo respiro.

Speranza, terrore, ancora speranza, sgomento ed infine indefinibile angoscia durante gli ultimi minuti con mia figlia. Le sue mani, che raccoglievano e custodivano sgargianti fiori, erano inerti e di un pallido bianco.

Provo un’irrimediabile nostalgia del suo importante impegno al lavoro, del suo interesse per le opere di Proust, per l’arte che fiorì in Italia durante il Rinascimento e per Kandinsky. Mi mancano le ottime ciambelle ricoperte abbondantemente di glassa che preparava in occasione delle festività, i suoi guanti sempre rigorosamente rossi, il suo sorrisino divertito quando ogni volta mi faceva notare quel particolare coltellino con cui il farmacista stacca il codice del medicinale.

Ogni giorno ritaglio le ore, i minuti, i secondi trascorsi con la sua travolgente allegria e la perspicace curiosità. Piccoli dettagli, grandi eventi riempiono in fretta la mia mente.

La malinconia raggiunge il suo apice quando ricordo il battito dei suoi occhi, la limpida profondità del suo sguardo.

Bea, meraviglioso bocciolo, ha lasciato lo stelo troppo presto.

Quella sera il rosso al semaforo venne ignorato, fermando la vita di Bea.

Il vivace rosso di questi boccioli di rose, però, manifesta la bellezza del suo volto, la sua poetica armonia.

 

Maria Agata Caporale


AZZURRO CIELO

Le curve di questa ripida sciarpa cinerea ad una corsia sono limitate dal respiro idilliaco e armonicamente scandito del verde circostante. Dopo il primo tornante, questo scorcio pittoresco è incorniciato da ondulate e antiche fronde di ulivi e querce, contrastanti con la luce ambrata del caldo pomeriggio in questo paesino situato su un colle al confine tra Campania e Basilicata.

Il vento, quasi affannato, pare sostenere delicatamente la nostra salita a piedi, destando i bianchi petali delle margherite e la solarità delle ginestre ai bordi della stradina, quasi a voler sollecitare un rapido “sull’attenti!” rispetto alla calura che sembra immobilizzare il paesaggio.

Passo dopo passo, io e Cecilia, la mia collega esperta di videoriprese, raggiungiamo il traguardo. Sulla destra, nell’area picnic, ci abbandoniamo con un balzo all’indietro sulla ridente erbetta, questa frangia smeraldo alla fine della grigia sciarpa che ha appena avvolto i nostri passi sin qui.

Il panorama compensa in assoluto l’ardua passeggiata: l’armonico e preciso accostarsi del dorato granturco con il tripudio di verdure e i campi arati; il tutto protetto dalla corolla dei monti degli Alburni, di un indaco più intenso rispetto al cielo uniformemente ceruleo.

Avrei trascorso qui almeno un’altra mezz’ora, lasciandomi meravigliare dall’ordinata sequenza di guizzi di poesia ammirati dalla curva di questo colle, ma Cecilia mi ricorda severamente che le lancette stanno per indicare l’ora stabilita per l’intervista.

Da piccola, solitamente il sabato pomeriggio primaverile era dedicato al percorso di questo meraviglioso sentiero, i miei occhi erano abituati all’ancestrale purezza del profilo di questo bucolico ritaglio di valle e le mie gambe erano ormai avvezze alla sublime pendenza del viottolo. Ogni tratto e la meritata ricompensa, il panorama, mi meravigliavano ogni weekend distintamente e in modo sempre originale.

Dopo altre due curve più morbide e distese, raggiungiamo la struttura che accoglie storie dallo sfondo dorato e non smeraldo come il nostro.

Al nostro ingresso la sig.ra Manuela, la direttrice di questo centro di accoglienza, ci stringe la mano calorosamente, accompagnando tale cordiale gesto con un radioso sorriso. Nella sala principale gruppi di emigrati svolgevano attività diverse: alcuni chiaccheravano con serenità su tre divani, altri giocavano ad un biliardino un po’ arrugginito, taluni leggevano periodici o quotidiani in inglese.

Dopo aver attraversato quest’ampio e luminoso salone, Manuela ci accompagna in una piccola aula, dalle pareti celesti e con banchi ordinatamente disposti lungo tre file parallele. È qui che Manuela insegna ai nuovi arrivati la nostra lingua e i nostri costumi, in attesa di ottenere i permessi di soggiorno. Di fronte alla scrivania tre giovani provenienti dal Camerun, dal Ghana e del Sudan ci accolgono con abbracci colmi di gioia.

Cecilia inizia a sistemare con cura la telecamera, mentre io posiziono il mio computer portatile sull’ampia e deserta scrivania in fondo alla sala. Manuela si accomoda accanto a noi due dietro questo tavolino, come una particolare commissione d’esame che non ha proprio nulla da esaminare, bensì ascoltare con attenzione l’incredibile avventura vissuta da questi ragazzi.

Prende la parola Samir, di 33 anni, dal villaggio di Kumbo, in Camerun. Durante la sua presentazione appare sicuro di sé, successivamente l’emozione e lo struggente ricordo dell’Odissea vissuta durante il viaggio per raggiungere la Libia rende il tono di voce più fioco, le parole si inseguono a fatica, con la direzione del suo sguardo malinconico verso il pavimento.

Dopo un sorso d’acqua ed un profondo respiro, mostra orgoglioso dalla tasca destra un pezzo di carta dai bordi sdruciti, superstite del tragitto lungo, tormentato, ma non privo di profonda e coraggiosa speranza.

Lo tiene ben stretto tra le mani, ed un sorriso illumina d’improvviso il suo volto. Questa è la poesia tradotta in italiano che Samir ha scritto in inglese sul retro di questo foglietto:

“Il caleidoscopio di riflessi di luce sull’infinita distesa d’acqua che si accartocciava in continuazione. Il monotono graffiare delle onde sui dorati, minuti granelli di sabbia. Il sospiro ora affannato, ora lieve di un’anima che non conosce tregua, non conosce fissità, plasmata dal vento, custode di sconosciuti tesori ormai dai toni perlacei. Quest’azzurro che avvolge slanci di branchie palpitanti.

Un tempo il respiro di quest’anima misteriosa era il mio unico rifugio, l’anelito di speranza che ora mi pare di aver dimenticato.

Durante questi pomeriggi di primavera trovo immensamente piacevole osservare per ore, oltre queste tende damascate, nuovi campi coltivati, un nuovo oceano di papaveri, margherite, ciliegi in fiore in un armonioso tripudio, nuovi sorrisi di ragazzini sereni che corrono in bicicletta, fieri di riuscire a sfidare il vento. Abbiamo abbandonato campi resi aridi dai conflitti, un oceano che traghettava disperati, i quali guardavano l’orizzonte con fiducia e preghiera, quell’orizzonte che per molti, anche bambini, è rimasto solo una sfumata linea retta che delimitava l’immensità del cielo”.

Con il foglio ancora tra le mani alza lo sguardo, inizia il racconto, fissando con soddisfazione l’obiettivo della telecamera, con la voce che modula una storia dai toni drammaticamente poetici, catturando tutta la nostra attenzione.

“Ho deciso di lasciare il Camerun, la mia dorata terra natia, per divenire finalmente libero, per non proseguire più secondo la via consueta che conduce alla totale distruzione, all’annichilimento del significato vero della vita, ma per svoltare ed imboccare, come molti altri nelle mie stesse disperate condizioni, il vicolo che dovrebbe condurre alla “salvezza”: il viaggio su miseri barconi verso Lampedusa, da lì in Europa.

Sul pullman che ci ha condotto in dodici giorni dal Camerun al Ciad eravamo in trenta. Non conoscevo nessuno tra coloro che osservavano come me quel brullo orizzonte ravvivato appena da qualche albero d’acacia. Per raggiungere la Libia erano disponibili solo due fuoristrada. La possibilità di abbandonare il Ciad per continuare il sogno europeo si presentava per ben pochi. Ma ce l’ho fatta! Sono riuscito a salire sul mezzo che, ora dopo ora, mi avrebbe avvicinato all’Equatore con Mohammed, il ragazzo che sedeva accanto a me sul pullman e con il quale intrattenni la più breve conversazione della mia vita: ci rifugiammo nei pensieri che affollavano la nostra mente dopo aver saputo il nome e l’età dell’altro. Il crudele silenzio regnante durante il tragitto ci costrinse a ricordare con profonda nostalgia le albe che si affacciavano timide, abbracciate alla terra natia sabbiosa, da quel cielo noncurante delle nostre lancinanti sofferenze nel fianco d’Africa. Lo sguardo fiducioso di mia nonna il giorno della mia partenza. L’abbraccio senza fine dei miei fratelli, che non volevano lasciarmi andare per poterci recare insieme in estate, almeno una volta al mese, nel dipartimento di Ngo-Ketunjia ad ammirare l’area protetta “Kilum Ijim”. Ricordo ancora quando mio fratello Vincent si fratturò il polso destro cadendo da un albero da cui era possibile ammirare il lago Oku, sorto in un’ampia caldera.

Strinsi la spalluccia del mio vecchio zaino, il quale conteneva preziose immagini e ritagli; una di queste ritraeva me e la mia amorevole nonna Fara mentre eravamo intenti a cucinare insieme. Vorrei tanto riabbracciarla e ammirare il suo volto luminoso, nonostante le marcate rughe, che lei ama definire con questo epiteto: “i solchi entro cui scorrono i giorni andati”. Quando la fame prendeva il sopravvento, non potevo fare altro che chiudere gli occhi per sforzarmi di ricordare il sapore del prelibato pollo fritto che mia nonna preparava. Ricordi ormai lontani.

Sarei voluto partire con la mia famiglia per affrontare il pericoloso viaggio confortato dallo sguardo sicuro e tenace dei miei due fratelli e di mia nonna, ma quest’ultima, la nostra guida dopo l’uccisione dei nostri genitori, non sarebbe riuscita a raggiungere la Libia in condizioni non adeguate alle sue 93 primavere.

Col cuore straziato, la decisione di lasciare la mia famiglia, la mia casa, la mia Kumbo, il mio amato Camerun, dai bordi dei grigi sentieri sfumati dalla terra rossa e dalle vaste pianure che profumano di inestinguibile desiderio di libertà, è stata confermata dopo nove mesi di riflessioni, accurate valutazioni delle conseguenze, chilometri di passeggiate per trovare una soluzione alternativa. Nulla. Situazioni che permettevano solo a me di arrivare in Europa: i miei fratelli non sapevano nuotare, non avevano mai intrapreso un viaggio così lungo e ogni volta che rivolgevo loro questa proposta rispondevano con un deciso e timoroso: “Non!”, talvolta accompagnato da interminabili lacrime. La paura e il terrore prevalevano, impedendo loro di immaginare un futuro tracciato da orizzonti diversi, nuovi.

Come il tramonto che mi sorprese a Koji, in Nigeria, pochi giorni dopo la partenza, dove sostammo sulle rive del fiume Benue, la cui sorgente è situata nel mio Paese. Fu meraviglioso osservare una piccola imbarcazione assecondare le onde di questo chiaro corso d’acqua, diretto a lambire argini che sorreggevano alcune piante, dietro le quali la fioca luce del sole penetrava appena, filtrata dalle alte e scure fronde.

Ricordo che ci fermammo per tutta la notte al margine della strada asfaltata a ridosso del Benue.

Appena aprii lo zaino, due piccoli ritagli, dai bordi limati dal tempo, mi ricondussero a casa, quasi ripercorrendo, pervaso da indescrivibile nostalgia, il fiume Benue nel verso opposto rispetto a quella piccola imbarcazione, fino alla mia terra, al mio Camerun.

La foto dell’automobile ritagliata dal giornale e il disegno della nostra famiglia realizzato dal mio fratellino Tony all’età di quattro anni consolarono al meglio la mia inappagabile stanchezza.

Sorrisi, forse esageratamente, come feci la prima volta che vidi il “capolavoro” di Tony, come lo definiva di solito, osservando il mio corpo ridotto a brevi tratti: la linea verticale del busto e le quattro linee degli arti che si allungavano sproporzionatamente sul foglio per abbracciare mia nonna Fara e mia madre Anaya. Vincent e Tony sul lato destro del foglio, vicino alla nostra casa in mattoni in braccio a nostro padre Mohammed. Mi accomodai sotto un alto albero, vicino ad alcuni ragazzi che avevano viaggiato con me sin qui, alternando brevi dialoghi e tanti ricordi da aggiungere alla collezione.”

Il mio sguardo raggiunge gli occhi di Cecilia spalancati verso di me: siamo incantate dal modo “meraviglioso” con cui Samir riesce a ripercorrere con estrema cura lo svolgersi delle situazioni, abilità che Dostoevskij mirabilmente affida al sognatore protagonista de “Le notti bianche”. Sembra quasi che la forza e la sicurezza con cui racconta provenga da quel pezzo di carta che accarezza e osserva attentamente, come se le sue molte parole apparissero l’una dopo l’altra su quel piccolo lembo di grandi “plus ultra” desiderati e di queste struggenti memorie.

Il giorno seguente una jeep conduceva a Tripoli Samir ed altri sette uomini che avrebbero voluto raggiungere vivi Lampedusa, il tanto agognato e sicuro approdo, dove le finestre delle abitazioni sono spalancate dalla tiepida brezza della quiete, lontane dalle straripanti uscite d’emergenza in Africa.

Samir prosegue la narrazione, soffermandosi sull’arrivo a Tripoli segnato da grande confusione e paura.

“I nostri sogni hanno iniziato a vacillare dinanzi all’atroce consapevolezza del pericolo del viaggio. La determinazione dei nostri sogni si volgeva verso un’inaspettata e drammatica caducità, divenendo fragile e tremante come le inermi tavole degli inadeguati natanti. Alcuni miei compagni di viaggio non volevano più partire, ma furono costretti ad imbarcarsi dagli scafisti; i tanti “Caronte” che, tracciando una debole rotta aggredita dalle onde, sottile come il filo su cui poggia l’equilibrista attorniato dall’indeterminatezza, rendono le limpide acque Mediterraneo silenziosa sepoltura per molti disperati.

In tal modo si diventa cifre da condurre verso un porto sicuro, verso il miglior approdo che si possa desiderare, dopo aver affrontato intere giornate assecondando il movimento ora brusco, ora più sereno delle onde. Ciò che avevamo nelle nostre tasche erano ciondoli di speranza, foto ingiallite abili a sprigionare indelebili ricordi. I nostri sguardi colmi di lacrime ma bramanti di vivere una nuova vita, che sarebbe iniziata di lì a poco.

Non conoscevo nessuno quando ho posato il mio piede su quella tavola di legno azzurra e bianca che condusse le nostre speranze in salvo, ma non fino alla meta ambita da tutti.

Il sinuoso incresparsi delle onde non mi permetteva di concentrarmi a sognare durante tutto il viaggio i miei futuri giorni in Europa.

L’instabilità del nostro mezzo verso la libertà mi allarmava, ma era l’unica possibilità.

La preoccupazione di dover solcare quelle onde anche quando la luminosità della luna sarebbe stata il nostro unico faro.

Nonostante tutto ciò, speranza e desiderio di correre incontro al mio futuro si imponevano dentro me.

Fuggivo da una terra che non mi avrebbe concesso il futuro che sognavo sin da bambino: diventare meccanico. Ecco, ho ancora con me i frammenti bagnati e sbiaditi di quell’immagine che raffigurava una ruggente Mercedes S Coupé. La osservai in modo fisso per buona parte del viaggio, era il mio sogno più autentico poterla guidare, un giorno”.

Samir ci mostra l’immagine che ha accarezzato sin dall’inizio dell’intervista e i suoi occhi iniziano a sorridere.

“Ricordo che immediatamente balzò accanto a me un bambino all’incirca di 7-8 anni. Si slacciò dalle braccia della madre per sedersi accanto a me, incuriosito e al contempo affascinato da quella foto che avevo ritagliato tempo prima da una rivista specialistica sulle automobili. I contorni erano meravigliosamente ravvivati dai raggi del sole, rendendo ancora più brillante la vernice di un candido azzurro cielo. Il fanciullino era incantato, sembrava non avesse mai visto un modello d’auto del genere o, molto probabilmente, un’auto di quel colore.

-Ti piacerebbe attraversare immensi campi a bordo di questo gioiello?- gli chiesi per scollare i suoi occhi dall’azzurro dell’auto in contrasto con i verdi prati dello sfondo. Il ragazzino annuì convinto, prendendo la foto tra le sue mani, custodendola. I miei ricordi di quell’incontro sono ancora straordinariamente vividi e ne sono davvero felice.

Ci ponemmo contemporaneamente due domande diverse: io gli chiesi il suo nome, ma il piccolo, accovacciato accanto a me, era interessato al modello dell’automobile.

-È una Mercedes Coupé?-. Il mio “Esatto!” lo rallegrò e le estremità delle sue labbra sottili si sollevarono verso l’alto in un sorriso soddisfatto, poi pronunciarono il suo nome: Nantuma.

Continuò a raccontarmi con tono entusiasta e nostalgico che avrebbe tanto desiderato poter viaggiare con quell’auto tra le vie affollate da mercanti di tessuti e spezie nella sua città, Damasco, osservando la sublime antitesi tra il velo azzurro del cielo che muta nell’affascinante incontro tra rosa e arancio al tramonto e le mura delle case bianche, superstiti alle bombe.

La mia inesauribile fiducia per i lembi di terra che avremmo baciato una volta arrivati a Lampedusa mi spinse ad allontanare dal suo cuore la nostalgia per condurlo per mano nel mio mondo e raccontargli l’elenco delle nuove avventure che avrei voluto vivere, delle nuove città che avrei voluto visitare, dei nuovi sguardi che avrei voluto incontrare oltre quel mare.

Nuovi sguardi felici in cui si può scorgere determinazione e sempre nuove possibilità, non distruzione e odio.

Ricordo che rimisi in tasca l’immagine con l’auto per ascoltare i desideri di Nantuma, seduti l’uno accanto all’altro, con il sorriso di sua madre che aveva permesso il mio indelebile incontro con quel bambino. Saremmo approdati insieme in Sicilia e lì avremmo visitato Palermo, assaporando un tipico ottimo cannolo. Non ci saremmo accontentati di visitare solo la Sicilia, avevamo programmato di voler provare le differenti emozioni che ci avrebbero travolto passeggiando per le città europee. Nuove emozioni, il cui comune denominatore sarebbe stato la travolgente voglia di scoprire guizzi di bellezza ogni giorno.

Le lancette dell’orologio sembravano non compiere il giro completo con Nantuma. Riuscimmo a ritagliarci il nostro spazio sul barcone, il nostro entusiasmo appariva insolito ai nostri compagni di viaggio. Mi considerò subito un grande amico e insieme tessemmo le trame di un sogno che eravamo impazienti di vivere fino in fondo.

Avrebbe tanto voluto salire tutti i gradini della Torre Eiffel, sino all’ultimo, per ammirare da lì l’iridescente Parigi.

E ammirare petali di tempera scura librarsi nell’aria, stormi di uccelli abbandonare tetti violacei e ambrati; turisti con lo sguardo verso l’alto, verso di lui, e il respiro dei negozi, le strade come alvei affollati da impegni e desideri, smeraldi dalle solide radici che nobilitano i tanti quartieri, che lo zio, abitando qui, attraversava spesso in bicicletta.

Imparare a meravigliarsi: un panorama così diverso, così lontano dalla terra che lo aveva generato e che, per drastica necessità, era stato costretto ad abbandonare.

Aveva visto una riproduzione della torre Eiffel su un tappeto in un negozio di stoffe a Qatana, piccolo villaggio vicino a Damasco. Gli zampilli delle piccole fontane, che costituiscono un piccolo e grazioso sipario della torre Eiffel, gli hanno trasmesso, sin dal primo momento in cui scintillavano su quel tessuto poco pregiato visto qualche anno prima, una sensazione di travolgente tranquillità e gioiosa armonia. Minute fonti di vita. Non come le schegge delle bombe, tremende dispensatrici di morte e desolazione. Frammenti dalla potenza ineguagliabile. Potenza poetica, intendo.

La potenza poetica con cui io e il mio vecchio amico Nabi farcivamo con entusiasmo i nostri discorsi davanti alla cattedrale dalla cima quadrata. Leggevamo e commentavamo poesie, in particolar modo eravamo affascinati dalla pura e diretta potenza poetica del componimento “Avremo fame”, scritto dal nostro conterraneo Joseph Tala. Ricordo ancora alcuni versi: “Avremo fame domani perché tutti gli uomini, spezzando le loro catene e facendo una catena, conducano il mondo alla fonte della condivisione”. Parole che evocano l’antico sentimento della giustizia sovrana che non dovrebbe mai conoscere il buio del crepuscolo e che mira unicamente alla felicità. Il simbolo della giustizia è la bilancia, la quale ristabilisce equità ed ordine tra le parti. Uguaglianza ed equilibrio è stata la priorità per il Camerun già dagli anni ’90 del secolo scorso. Conflitti e sopraffazioni fra la parte dominante, quella francese, e la minoranza inglese. Io e Nabi eravamo alcuni tra i membri del SCNC, il Southern Camerun National Council, movimento non violento con lo scopo di ottenere l’indipendenza della zona inglese. Il nostro motto è: “La forza dell’argomento, non l’argomento della forza”. Per raggiungere il nostro ideale alcuni nostri colleghi hanno seguito il mezzo più condannabile: compiere atti terroristici. Ma il nostro obiettivo era solo spezzare le catene dell’odio e della convivenza ormai resa insopportabile da soprusi e prevaricazioni messe in atto dal governo francese. Spezzare le catene per poi stringere le mani, raggiungere con trasparenza e dialogo, percorrendo la via della diplomazia, accordi positivi e giusti per una vita migliore.

Purtroppo non esistono chiari segnali ad indicare tale virtuosa via, non tutti la riconoscono, nascosta tra i fitti rami degli alberi dell’inconsapevolezza e si ottengono, purtroppo, risultati disastrosi.

Oppressione e disprezzo che determinano disperazione e inevitabile fuga sui barconi,

a fissare il monotono azzurro che avvolgeva me e Nantuma”.

Nantuma si ferma per qualche secondo prima di proseguire il racconto.

“Nantuma non provò mai l’indescrivibile sensazione che conquista il tuo cuore quando si raggiunge l’ultimo gradino della Torre Eiffel.

Nantuma non raggiunse mai Lampedusa e non poté baciarne la terra.

Un terribile guasto al motore. Gli sguardi allarmati di coloro che condividevano il nostro stesso grande sogno accanto a noi. Gli scafisti in preda al panico. Quelle maledette onde troppo avide di inghiottire i nostri desideri e aspettative. I soccorsi arrivati troppo tardi. Il terrore di non riuscire a vincere quell’inaspettata e infausta catastrofe. Le mie mani stringevano nel modo più forte possibile Nantuma, dopo aver perso di vista la madre.

Confusione. Urla disperate. Tentativi quasi mai riusciti di potersi sottrarre alla furia di quelle onde, divenute all’improvviso ostacoli insormontabili per raggiungere il nostro porto sicuro e tanto cercato.

D’un tratto le mani di Nantuma si staccarono dalle mie, le onde ci divisero e la luna non fu più il nostro faro. Da poco tempo il riflesso argenteo della luna aveva iniziato ad abbracciare la nostra nave, di lì a poco tragicamente capovolta. Urlavo il suo nome invano, agitando velocemente le braccia per cercarlo tra il dolore generale.

Piansi. Non ho mai pianto così tanto come quella volta. Avrei potuto salvarlo, o forse no. Lo avevo perduto, era stato irrimediabilmente sottratto alle mie braccia che avrebbero protetto i nostri progetti. Forse aveva disperatamente cercato di ricondursi alla madre, che non riuscivamo più a riconoscere.

Il suo sorriso, il suo profondo desiderio di poter guidare una Mercedes azzurra, di spiegare le braccia dalla sommità di Parigi, andarono in fiamme. Sott’acqua.

Avrei voluto baciare la terra faticosamente raggiunta con Nantuma.

Avrei voluto raggiungere questo “Paradiso terreno” con Nantuma, il migliore compagno di viaggio che avessi mai potuto desiderare.

L’architetto migliore dei nostri sogni, che seguiva ligio e attento le mie indicazioni, considerandomi l’ingegnere che aveva lavorato al progetto con grande passione.

Nantuma sognava di viaggiare nell’azzurro.

Lo sta facendo.”

 

Il silenzio calato ormai da qualche minuto in questa piccola sala è bruscamente interrotto dal segnale della telecamera che lampeggia, ammonendoci che al suo imminente spegnimento potremo perdere l’intera preziosa intervista.

Con cura Cecilia la spegne e la posiziona nella borsa.

Purtroppo non potremo continuare a registrare le voci commosse e determinate degli altri tre ragazzi, ma torneremo domani.

Io, dopo aver appuntato al computer i punti di svolta del viaggio di Nantuma e Samir, ammirando lo straordinario coraggio che ruggisce negli occhi dei nostri quattro nuovi amici davanti a noi, scrivo quest’ultima frase:

“Mai più sofferenza, lacrime, discriminazione!

Mi impegnerò affinché le nostre braccia non siano più conserte e indifferenti a questa immane strage, ma si aprano in un abbraccio di accoglienza, per garantire il diritto alla sicurezza e alla felicità che tutti questi eroi ed eroine meritano”.