“ E’ PEGGIO UN MAL DETTO D’ UN MAL FATTO”

Lo diceva sempre mia nonna alle sue figliole e lo diceva la mia mamma a me e credo sia la verità.
Ricordavano un fatto che accadde in un paese vicino a quello dov’era cresciuta la mia mamma a sostegno di quanto il “detto” diceva. Viveva in quel paesino una bellissima ragazza che ebbe nella sua giovinezza diverse sfortune,la più grande fu perdere la madre quando ancora era adolescente e dover accudire il padre e i tre fratelli più piccoli. In paese era molto amata e finché non fu donna la gente del paese si prodigava per quella famiglia disgraziata. Il padre lavorava in campagna e rientrava alla sera stanco ma non c’era fatica per sfamare quei figli. La ragazza cresceva e i fratelli cominciarono ad andare a scuola e così aveva più tempo libero per fare lavoretti per guadagnare qualcosa da aggiungere a quel poco che guadagnava il padre. Lavava per le signore del paese ma quello in cui eccelleva era la stiratura delle camicie. Più cresceva , più lavorava e per sua sfortuna diveniva sempre più bella. Si, perché se oltre alla povertà si unisce la bellezza, allora può diventare un problema! Si accorsero del cambiamento gli uomini e anche le donne. Se per i primi vederla passare era una soddisfazione per gli occhi, per le donne tanta bellezza iniziava a disturbare. Tutto iniziò un giorno al mercato, la ragazza che chiamerò Anna, con i pochi soldi che aveva stava scegliendo una camicia tra tante esposte su una bancarella. Le guardava e se le appoggiava al seno per misurare la grandezza. Ne scelse una e mentre stava contando le monete per pagare, le si avvicinò una donna ancora giovane e con ironia le disse “ vediamo che ha scelto la CAMICIAIA” Guardò la camicia e cominciò a ridere richiamando l’attenzione delle altre donne presenti, criticando l’acquisto che riteneva non adatto a una ragazza come lei. Probabilmente il gesto, le parole, erano dettate da una dote che di frequente hanno le donne “l’invidia” . Anna non fece caso all’appellativo di camiciaia, era vero, quello era il suo lavoro ma rimase turbata dall’atteggiamento di quella signora e delle altre che stavano ad ascoltare ridendo. Da quel momento Anna fu ufficialmente la CAMICIAIA , un appellativo che le restò come tatuato sulla pelle. Venne il giorno della festa del paese. Quel giorno nessuno avrebbe mancato a partecipare alla Messa in onore del Santo, al pomeriggio l’esecuzione della banda musicale e alla sera, festa in piazza con orchestrina di fisarmoniche e organetti dove le ragazze ballavano e nascevano gli intrighi tra comari per maritarle. Così tutte le ragazze giovani e meno giovani si agghindavano a festa e facevano a gara a chi fosse più bella. Anna partecipò alla messa come del resto faceva tutte le domeniche, al pomeriggio ascoltò e vide la banda passare dalla finestra di casa senza scendere. Dopo cena da casa sentivano la musica che pareva entrare dentro le mura. Suo padre insistette affinché anche lei andasse al ballo per divertirsi un po’. Ormai era abbastanza grande e gli pareva che quella figliola fosse troppo sacrificata a lavorare tutto il giorno. Anna si fece convincere e portò con se il fratello più grande per compagnia. Quella era l’occasione giusta per indossare quella camicetta che era rimasta toppo tempo nel cassetto. Quando fu pronta salutò il padre che nel vederla capì che tanta bellezza avrebbe potuto danneggiarla. Arrivarono in piazza che già delle coppie si erano formate e stavano ballando. Cercò un posto per sedersi ma le parve strano che anche se c’erano posti liberi per lei fossero già occupati. Restò quindi in piedi, appoggiata ad un albero, guardava divertita dalla musica e ogni tanto muoveva un piede ma se ne accorgeva e si frenava subito per non essere notata. Suo fratello aveva approfittato dell’uscita per andarsene in giro con gli amici, era troppo piccolo per interessarsi alla musica! Anna non si accorse di essere diventata il centro della conversazione delle comari presenti. La bellezza di Anna era evidentissima, poi quella camicetta che tutte avevano criticata e irrisa, metteva le sue forme ancora più in risalto. Anche gli uomini la guardavano ma con altri occhi e pensieri. S’interruppe la musica e le si avvicinò un giovane per lei sconosciuto ma conosciutissimo dalle donne che sapevano della facilità di comunicazione de giovane e dell’effetto che faceva alle ragazze, sia per la bellezza che per il potere. La prima innata, l’altro perché apparteneva ad una delle famiglie più ricche del paese. Tutte avrebbero voluto che chiedesse un ballo alle proprie figlie anche se il rischio di vederle compromesse era altissimo ma……..tanto prima o poi quel rischio l’avrebbero corso e allora era meglio correrlo con uno come quello…..ne poteva valere la pena!! Con Anna ballò, ma non i tre balli di rito, ballarono quasi tutta la sera, quando era stanca e si riposavano trovavano sempre dei posti liberi, Anna si sentiva al centro dell’attenzione e la cosa la preoccupava un po’ e non sbagliava affatto. Parlarono molto, più che altro fu Anna a parlare, praticamente raccontò della sua vita e anche della sua povertà. Non si curò di sapere chi fosse quel ragazzo, tanto pensò non l’avrebbe più rivisto. Al ritorno Anna rientrò con il fratello che era ormai da tempo che insisteva per tornare a casa, non gli interessava la musica e si stava annoiando. Vide suo padre il giorno dopo. A tavola raccontò della serata, di quanto avesse ballato e anche della sensazione che aveva avuto di essere stata al centro dell’attenzione. Non passarono che pochi giorni che suo padre una sera a cena le chiese se sapesse chi fosse il giovanotto che aveva ballato con lei. Anna sinceramente rispose che non lo conosceva, non l’avrebbe più rivisto, forse era uno di fuori. Il padre di Anna restò per diversi giorni in silenzio finché una sera Anna chiese spiegazioni su quel suo strano modo di fare. Il padre, quasi con le lacrime agli occhi le spiegò chi fosse il ragazzo e a quale famiglia appartenesse e delle chiacchiere che giravano in paese nei suoi confronti. S’era pentito di averla spinta ad uscire, non immaginava quello che adesso avrebbe dovuto subire per la stupida invidia della gente. Passò del tempo, Anna aveva sempre meno lavoro e i soldi in casa scemavano. Non riusciva a capacitarsi del perché, eppure tutte erano state contente di lei e adesso? Capitò una domenica che in Chiesa Anna incontrò il famoso giovanotto. Fu per lei una messa agitata. Non provava niente per quel ragazzo ma sapere che per il solo fatto che ci avesse ballato una sera le avesse provocato tanto disagio la faceva star male. Una sera, verso l’ora di cena bussarono alla porta. Suo padre andò ad aprire e si trovò di fronte il giovanotto e un signore ben vestito che era il padre. In un attimo nella mente del pover’uomo passarono mille pensieri. Fu il signore a parlare per primo. Anche lui frequentava la gente del paese e aveva saputo quanto di brutto si vociferasse sul conto della figlia. Ne aveva parlato col figlio e avevano deciso di far terminare quelle dicerie. Anna che stava preparando la tavola, si era soffermata ad ascoltare. Si avvicinò e rivolta al signore assicurò che tra lei e il figlio non era successo niente di male, avevano solo ballato e parlato la sera della festa, niente di più. Il signore allora fece un passo avanti, le accarezzò i capelli con fare paterno e le disse che aveva saputo che tanto clamore aveva causato la perdita del suo lavoro, lui che era molto stimato, voleva rimediare e le offriva un posto a casa sua, avrebbe lavato e stirato per la sua famiglia. Il padre di Anna non era tanto soddisfatto del rimedio, avrebbe potuto essere peggio del guaio passato. Il signore capì e chiarì che il figlio, un po’ scapestrato e troppo bello sarebbe andato in città a studiare e quindi non avrebbe avuto alcun rapporto con Anna, per questo se ne faceva garante. Tutte le chiacchiere di paese sarebbero terminate e Anna avrebbe avuto un lavoro sicuro e ben pagato. Fu davvero così, Anna da allora lavorò per quella famiglia e naturalmente suscitò le invidie delle comari del paese ma questa volta a ragione, sapevano bene che tutto sommato se non fossero state tanto meschine lei non avrebbe mai avuto quell’opportunità. A detta della nonna Anna andò in sposa ad un giovane amico del giovanotto bello e dannato, e visse davvero felice e contenta alla faccia di chi l’avrebbe rovinata per la sua bellezza.

Sanfatucchio o7/06/2014


CIRO

Erano i primi anni ’50, il dopoguerra, periodo di fame e di rovine. Se al nord e al centro la situazione era grave, al sud era dir poco disastrosa! Questa storia mi è stata raccontata da zia Adriana che l’ha vissuta in prima persona. Tutto il sud d’Italia fu particolarmente colpito dal passaggio della guerra. Alla miseria già presente subentrò il problema degli alloggi specialmente per le famiglie numerose in cui gli uomini si trovavano senza lavoro e i tanti figli da sfamare. Non bastava il carattere ottimista tipico dei meridionali , la capacità di arrangiarsi , alla fame non c’è ottimismo che tenga! Si attivarono le parrocchie con un’iniziativa che poteva tamponare per periodi più o meno brevi il problema della sussistenza per i figli. Il parroco della parrocchia di Ponsacco, paese in provincia di Pisa decise di mettersi in contatto con un parroco della zona del salernitano. Una domenica, durante la Messa, il prete fece un bel discorso riguardo l’accoglienza. Chiedeva se ci fossero state famiglie disposte ad ospitare ragazzi di famiglie disagiate del sud per consentire loro di continuare a studiare e mantenerli fino che fosse possibile. Naturalmente il periodo poteva variare a seconda dell’età del bambino o del ragazzo e della disponibilità della famiglia ricevente. Fece una bella esposizione nella quale descriveva la situazione drammatica. Chi aveva allevamenti di bestiame o coltivava prodotti agricoli non aveva più niente e aveva bisogno di tempo per poter ricominciare le attività. Togliere loro il pensiero di qualche ragazzo per un po’ avrebbe facilitato la ripresa e il recupero di quanto perso. Zia Adriana era una donna davvero speciale, particolare. Gestiva con il marito un’attività si occupava dei due figli che aveva. Era una donna di gran carattere e gran cuore. Non ci pensò due volte, finta la Messa, andò in sacrestia e offrì la sua disponibilità all’ospitalità. A quell’epoca avevano una piccola fabbrica di sedie nella quale lei si occupava dell’amministrazione. L’attività era ricominciata dopo la sosta del periodo bellico e avevano passato periodi neri dove si erano accumulati debiti e problemi che comunque lei riusciva sempre a risolvere. Era stato un periodo difficili ma adesso pareva che tutto fosse più tranquillo. Ma Adriana non pensò alla sua disponibilità economica, pensò solo di poter aiutare un bambino che stava soffrendo anche la fame e che avrebbe fatto compagnia ai suoi bambini, in fondo una bocca in più o in meno da sfamare non era un problema! Passarono pochi giorni e un giorno a ora di pranzo si presentò il parroco. Il bambino sarebbe arrivato da li a poco. Lui sarebbe andato a prenderlo alla stazione di Roma dove delle suore glielo avrebbero consegnato. Sapeva che quel bambino avrebbe avuto bisogno anche di cure ma Adriana non si preoccupò più di tanto. Arrivò il giorno che Ciro, questo era il nome del bambino, arrivò in parrocchia. Era un sabato pomeriggio. Adriana andò a prenderlo con tutta la famiglia. Era un bambino di sette anni. Di carnagione scura dal sole, piccolo e magrissimo. Il bambino la guardava con quegli occhioni neri che sembrava volessero scrutarle l’anima. Ciro all’inizio era un po’ timoroso ma non certo timido. Era mal vestito, si vedeva che era stato ripulito un po’alla meglio. I figli di Adriana, Luciano e Lucia l’accolsero subito benissimo e tra loro iniziò un bel rapporto di amicizia. Zia Adriana raccontava che la prima cosa che fece, fu di entrare nel negozio di Marino (vendeva di tutto,si diceva …dai vestiti, alle pentole al carrarmato!) e comprare subito quello che nell’immediato occorreva. Il bambino non aveva portato con se neppure una piccola borsa e quindi necessitava di tutto. Quando arrivarono a casa era quasi ora di cena, ma Adriana infilò Ciro nella vasca da bagno affinché si lavasse per bene. Gli lavò i capelli che erano secchi dal sale e i piedini che erano induriti dall’andare scalzo. Poi gli mise un pigiamino, pronto per andare a letto. Andarono tutti a tavola pronta per la cena. Ciro si guardava intorno, Adriana non capiva bene se fosse imbarazzato o stupito. Aveva preparato la pasta, della carne con delle verdure, messo in tavola del formaggio e dell’affettato. Non sapeva i gusti del bambino e così aveva pensato di portare in tavola un po’ di tutto quello che aveva in frigo. Ciro guardava tutto quel ben di Dio a portata di mano, anzi di bocca! Non voleva servirsi da solo e allora Adriana gli servì prima la pasta, poi finita in un baleno, gli mise nel piatto la carne con le verdure . Divorò tutto velocemente e quando gli fu offerto il prosciutto disse: “Ma tutta questa roba solo per stasera?” Risero tutti e anche Ciro. Così iniziò la permanenza di Ciro. Adriana pensò che il bambino fosse magro solo per la mancanza di cibo, l’avrebbe fatto ingrassare lei, sarebbe tornato a casa bello e cicciotto! Aveva aggiunto un lettino in camera di Luciano e di Lucia, era una stanza grande e sarebbero stati comodi anche in tre e poi così avrebbero familiarizzato meglio! Familiarizzarono così bene che le sere seguenti, quando era l’ora di dormire non erano mai pronti, giocavano a tirarsi i cuscini, a saltare sui letti e spengerla luce era un problema. Naturalmente Adriana brontolava i suoi figli e non Ciro. A scuola Luciano e Ciro erano nella stessa classe, Lucia era più piccolina ancora andava all’asilo. In quel paese la scuola e l’asilo funzionavano molto bene. Erano tutti figli di operai, la scuola tratteneva i ragazzi fino alle 18 per dar modo alle madri di poter finire il turno di lavoro. Però dai primi giorni la maestra si accorse che Ciro aveva bisogno di un riguardo maggiore perché era completamente digiuno di qualsiasi apprendimento a differenza degli altri bambini che avevano frequentato l’asilo. Infatti Ciro non era mai stato all’asilo, era stato in campagna con i suoi fratelli ed il suo babbo. Così Adriana alla sera, si metteva al tavolo con Ciro e Luciano cercando di far recuperare qualcosina. Non aveva mai avuto tempo per i suoi bambini ma in quel momento Ciro doveva essere seguito. A volte era divertente perché Luciano che già qualcosa sapeva, tendeva a scherzare ma poi s’accorse che era importante che Ciro fosse all’altezza come gli altri bambini e fu lui a seguire Ciro, magari giocando e scherzando. Adriana alla sera era davvero stanca. La fabbrica, la casa, adesso tre ragazzini…..i pensieri erano davvero tanti ma l’impegno che si era assunta l’avrebbe portato a termine in qualsiasi modo. Infatti, già verso le feste di Natale Ciro aveva recuperato e la maestra era molto soddisfatta. La scuola che frequentavano era in un bellissimo palazzo quasi al centro del paese. Era stato donato da una signora al fine di usarlo come scuola per i bambini del posto. Aveva un bel giardino dove al suono della campanella per la ricreazione, si ritrovavano tutti i ragazze della scuola, Lucia compresa. Ciro era sempre uno dei più agitati, in quei momenti si scaricava , quel giardino forse gli ricordava gli spazi verdi di casa sua! Ma la maestra era sempre attenta e presente. Si accorse che Ciro non vedeva bene, cose da poco, ma in lontananza non riusciva a vedere quello che c’era scritto alla lavagna. Appena saputo Adriana lo portò dall’oculista che riscontrò una leggera miopia. Gli fece fare subito gli occhiali e quello fu un problema perché Ciro era un pericolo. Non si rendeva conto che con gli occhiali certe cose vanno fatte con più attenzione, era davvero un aggeggio, un gatto, una lepre. Adriana si sentiva responsabile ed aveva paura che qualche volta si potesse far male con le lenti di vetro. Decisero allora di portarlo al campo di calcetto, per farlo sfogare un po’, forse si sarebbe calmato. Luciano non amava il calcio ma per far contenta la mamma, anche lui andò al campetto senza troppa voglia e con la speranza che Ciro si stancasse presto di tirare calci al pallone! Per poter far parlare il bambino con la famiglia era un’impresa. I genitori di Ciro stavano in campagna e il paese non era vicinissimo, avevano trovato l’accordo con il parroco di quel paese che tutte le domeniche Adriana avrebbe chiamato in parrocchia alle 12,30 e qualcuno della famiglia sarebbe stato li a ricevere la telefonata . Così tutte le domeniche a quell’ora precisa, Adriana telefonava e faceva parlare il bambino con i suoi parenti. A volte poteva essere la mamma con i fratelli, a volte il babbo da solo. Parlavano tanto, ad alta voce ed in dialetto, Adriana riusciva poco a capire cosa si dicessero, ma capiva che il bambino era contento. Parlavano molto e velocemente ma le telefonate erano molto lunghe. Ciro raccontava della scuola di cosa faceva tutti i giorni e anche di cosa mangiava. Certo a volte specialmente quando dall’altra parte c’era la mamma qualche lacrimuccia scendeva ma poi tornava subito il sorriso. Certo gli avranno fatto tante raccomandazioni ma non ce ne sarebbe stato più bisogno, Ciro era diventato proprio un bravo bambino, obbediente, impegnato a scuola e…a calcio! Luciano non andava più ormai, Ciro aveva trovato degli amici e lui poteva fare altre cose con altri amici. Arrivarono le feste del Natale. Adriana pensava che forse avrebbe potuto andare a casa quei giorni ma i genitori preferirono che restasse, pensavano che il viaggio fosse lungo e forse per il bene del figlio credettero che sarebbe stato meglio così. Come tutti gli anni addobbarono l’albero di Natale. Vago, portò i ragazzi a sceglierlo e loro scelsero il più grande e bello che trovarono. Certo l’abete era grande e lo spazio in sala si restringeva non di poco! Ma fu un Natale bellissimo. Al mattino i ragazzi trovarono tantissimi doni e Ciro, allora si che pianse! Aveva davanti a se tantissimi pacchetti. In ognuno c’era una cosa utile e qualche gioco. Sicuramente quel Natale se lo sarà ricordato per sempre! Ciro sarebbe dovuto restare per poco, invece rimase fino alla fine della scuola elementare. Adriana e tutta la famiglia si erano talmente affezionati a quel ragazzino che pensavano già di iscriverlo alle scuole medie, invece alla fine della scuola il parroco un giorno a ora di pranzo si presentò a casa. Lui sorrideva e nessuno poteva immaginarsi che avrebbe portato una brutta notizia. Adriana si appartò in cucina per parlare liberamente, immaginava fosse accaduto qualcosa di grave alla famiglia, invece,il parroco la rassicurò e le disse che aveva sentito per telefono il padre di Ciro che gli aveva spiegato che aveva bisogno che Ciro tornasse a casa. Il figlio più grande era partito per fare il militare e a loro mancavano braccia per lavorare. Quando Adriana sentì quelle cose, rimase malissimo. Era un peccato, una mente sciupata pensò! Ciro era vivace nell’apprendere e sarebbe potuto diventare un bravo impiegato, magari avrebbe potuto lavorare li con loro. Si mise a piangere, lei una donna forte, piangeva per quel ragazzino che forse non avrebbe più rivisto. Eppure sapeva che prima o poi Ciro sarebbe ripartito, era stata una soluzione per dargli la possibilità di vivere più serenamente, di studiare. Sarebbe stato solo per il periodo critico che prima o poi sarebbe passato! Volle comunicare lei a Ciro la decisione del padre. Lo volle fare la sera durante la cena, quando tutti fossero presenti. Erano a fine pasto quando si rivolse a Luciano e gli disse che presto Ciro sarebbe tornato a casa dai suoi genitori. Luciano, non si rese conto li per li che era una partenza definitiva tanto che disse: “Mamma allora vado anch’io con lui, così vedo le bufale!” Vago abbassò la testa senza dire niente, Lucia invece forse capì perché disse “Ma va via per sempre?” Adriana, aveva il groppo in gola, ma si fece forza e raccontò quello che il prete aveva detto, comunque aveva chiesto di poter parlare col suo babbo. Non voleva crederci o forse sperava di convincerlo a far rimanere Ciro a casa loro. Ciro, li guardava senza dire niente. Chissà nella sua testolina cosa passava per la mente! Poi ad un tratto disse “ Si, devo andare, pa’ ha bisogno che vada, ora sono grande e devo lavorare” Il silenzio fu assoluto. Capirono che Ciro anche se si era adattato bene in quella famiglia, aveva il bisogno di tornare a casa sua. Lui solo sapeva la necessità che aveva di lui il suo babbo adesso che non c’era più il fratello grande . Certo avranno passato quei giorni tra il dispiacere di non vederlo più e il cruccio di sapere che un ragazzino così piccolo e bravo era destinato al lavoro della terra . Ma non era per il fatto che avesse lavorato la terra o accudito le mucche e le bufale, ma perché gli veniva tolta la possibilità di continuare a studiare! Quello era il suo destino, ma si consolavano nella speranza che per lui le cose fossero più facili di come erano state per i suoi genitori. A letto Adriana e Vago ripensarono e si convinsero che quella era la cosa giusta, forse per tutti. Si sentirono egoisti per aver solo pensato che quel ragazzino potesse restare con loro magari per sempre e pensarono anche a quanto dolore e sofferenza avessero provato i genitori di Ciro nel doverlo allontanare da casa per tanto tempo ! Arrivò il momento in cui Ciro dovette partire. Fu anche questa volta il prete del paese a riportarlo a Roma dalle solite suore che si preoccuparono poi di accompagnarlo a casa. Ciro che era arrivato senza niente, ripartì pieno di bagagli. Abiti, libri, giochi e fotografie , si tante fotografie. Delle feste, dei compleanni, Adriana le aveva fatte affinché Ciro non si scordasse di loro! Si scrissero per diverso tempo, poi la corrispondenza si fece più rara e si persero di vista. Erano passati diversi anni e un giorno mentre Adriana preparava il pranzo suonò il telefono e dall’atra parte una voce chiese se lei fosse Adriana. Lei non lo riconobbe , ma era Ciro. In casa non c’erano ne Vago ne i ragazzi. Le raccontò che adesso stava bene. Non lavorava più la terra il suo babbo, aveva delle bestie ma faceva da solo, lui faceva il barbiere ed era felice di aver trovato un buon lavoro. Qui finisce la storia di Ciro, il suo periodo trascorso in una famiglia che l’ha amato tanto, che nonostante gli anni lo ha sempre pensato e ricordato con affetto. Voglio immaginare che adesso Ciro sia un brav’uomo, che abbia ancora il suo lavoro, magari una bella famiglia e che ogni tanto ripensi a quella che l’ha ospitato con lo stesso amore che ha ricevuto!


GIULIANO

Quando lo incontrammo io e Roberto mi parve quasi una scherzo della natura. Ci venne incontro festoso e saltellante e disse: -“ O Roby, quando c’è in teatro una particina per me?” Roberto sorrise e gli disse che per quella stagione in teatro non c’erano spettacoli nuovi, solo due o tre opere ma tutte tradizionali,in caso ci fosse stato qualcosa in qualche balletto gliel’avrebbe fatto sapere. Rispose: -“Non m’importa, tanto c’ho tante cose da fare……” Giulianino era un nano, ma se un lato la natura non era stata generosa, dall’altro l’aveva ripagato donandogli tantissime doti, risorse a cui attingeva in continuazione. Era un ragazzo intelligentissimo, suonava la batteria in un complesso, aveva fatto la comparsa in diversi film. Ma quello che faceva più di frequente era dipingere. Non si sa che scuole abbia fatto ma era davvero un piccolo genio però….quello che faceva meglio, erano le pitture dei più svariati autori, praticamente faceva degli autentici falsi. Riusciva a riprodurre opere dei maggiori pittori, ma non si approfittava nel suo lavoro, chi le comprava sapeva di certo che erano dei bei falsi e se li avrà rivenduti e come non è dato sapere. Roberto si divertiva a raccontare una storia che accadde quando in occasione di una sua partecipazione ad un’opera moderna che prevedeva due o tre coppie di piccoli uomini e donne, Giulianino conobbe Bianca. La scena si svolgeva sotto un enorme lenzuolo bianco . Le piccole figure si muovevano facendo immaginare che sotto quel lenzuolo si svolgesse un rapporto amoroso. La piccola Bianca era una miniatura, molto carina e gentile. Lui s’invaghì di quella bambolina anche se era fidanzata con un altro giovane che aveva partecipato alla recita. In quel periodo Roberto andava e tornava dal teatro in vespa e Giulianino voleva che tutte le sere lo accompagnasse a casa ma voleva fare un giro più lungo per vedere la sua bella. Non sappiamo cose siano andate le cose ma è facile immaginare che Giulianino abbia fatto breccia sul cuore di Bianca. Non s’è mai capito come facesse Giulianino ad essere sempre circondato da ragazze, alte e belle. Abbiamo sempre pensato che la sua diversità la usasse al positivo. La sua allegria, la sua voglia di vivere, cancellavano lo scherzo che gli aveva fatto la natura. Tutte le volte che lo incontravamo, trovavamo un amico, un ragazzo con tanti progetti ed una vita piena di emozioni. In quei momenti mi sentivo io la diversa con tutti i miei problemi e i miei crucci. Io che mi guardavo allo specchio e non mi piacevo, l’angoscia di entrare in un negozio per scegliere un abito e sentirsi dire dalla signorina “ Signora, non possiamo accontentarla la sua taglia non è nella nostra produzione!” Eppure non mi sembravo tanto grassa (o lo ero e non me ne rendevo conto), avevo paura di non piacere più a mio marito e che non mi amasse più come un tempo. Il mio corpo si era trasformato, avevo avuto un’operazione all’utero e da quel momento la mia vita era cambiata. Non mi ritrovavo più e ciò condizionava anche i miei rapporti con gli altri. Non avevo più voglia di uscire, non volevo più andare a ballare. Avevo paura che mio marito mi confrontasse con le altre donne che incontrava per lavoro. Invece, fu proprio grazie al suo aiuto che affrontai il mio problema con serenità e fiducia. Con il suo grande amore mi faceva sentire più bella, al centro del nostro universo e come per incanto un giorno mi sono guardata allo specchio e non mi parevo più tanto orribile. Ricominciammo la nostra vita di prima, ricominciammo ad andare a ballare nelle balere, riuscii di nuovo a spogliarmi di fronte a lui e ironizzava sulle mie curve morbide e accarezzava ancora i miei seni con gioia e il nostro rapporto si rafforzò ancora di più. Col tempo le mie misure rientravano, potevo di nuovo permettermi un abbigliamento più moderno e più giovane. Mio marito continuò a toccarmi appassionatamente, chissà se si è accorto che anche i miei seni si erano ridimensionati. Ripensando a quei giorni penso di quanto siamo impreparati alla diversità anche se è momentanea. Nel caso di Giuliano, per noi era un ragazzo pieno di risorse, l’unica diversità che c’era tra noi era la necessità di curvarsi un po’ per poterci parlare. Sapesse Giulianino quanto gli devo! Quel piccolo uomo con la sua ironia, la serenità che trasmetteva mi ha insegnato ad affrontare i problemi che a volte ci paiono grandi, quasi insormontabili. Quando l’amore è tanto forte e grande, tutto perde di significato e rende facili anche gli ostacoli più difficili , la notte è meno buia e il mattino pare più chiaro.

Sanfatucchio, 20 Maggio 2014


TATA GRAZIA

Era il 1978 quando la Tata Grazia entrò nella nostra vita. C’incontrammo una mattina al bar da “Mario e Marcello”, io ero incinta della mia seconda figlia. Lei entrò dopo che Mario ed io avevamo fatto delle considerazioni sul dopo la nascita della bambina. Non avrei potuto rimanere molto in maternità e avevo il problema di chi si potesse prendere cura di mia figlia. Quando Grazia entrò, Marcello mi disse: “Guarda, lei se ne intende di bambini, perché non glielo chiedi?” La guardai, Era una piccola donna, aveva capelli grigi corti, era chiaro che soffriva di nanismo. Aveva  una bambina per mano. La guardai e notai subito che aveva gli occhi come fari, brillavano di una luce che non è facile trovare. Mi ispirò subito fiducia. Fu Marcello a chiederle se avrebbe tenuto anche la mia piccina. Lei mi guardò e dopo un attimo con tono deciso disse :” Si, lo farei volentieri, ne ho cresciute tante di bambine, sa, di me si può fidare!”. Restai un attimo in silenzio, abitavo in quella zona da sempre e non l’avevo mai vista, eppure avrei dovuto notarla! La prima cosa che dissi fu:”Prende un caffè con me?”. Prendemmo quel caffè insieme e da quel momento entrò nella nostra vita, nella nostra famiglia come se ci fosse sempre stata.Era una piccola donna ma con un cuore tanto grande che mi domando ancora come il suo piccolo corpo potesse contenerlo tutto.                                                                                               Ci  rincontrammo il giorno dopo in piazza. Aveva con se la bambina. Notai con quanta cura  fosse vestita, ben pettinata nonostante i folti capelli ricci. Ci sedemmo su di una panchina e restammo a parlare per parecchio tempo. Quella bambina la trattava come se fosse la sua mamma. Ad un certo momento la piccola cominciava ad avere fame, era quasi l’ora di pranzo e ci lasciammo per ritrovarci di nuovo al pomeriggio. Da lì iniziò il nostro rapporto. Io non ero solita familiarizzare subito con le persone, invece con Grazia fu tutto molto semplice. Se non c’incontravamo fuori, lei veniva  a trovarmi a casa. Passò un mese che arrivò Marzia. Era una bella bambina, pesava 4chili e 450gr. Era un torellino! Quando venne a vederla mi disse che sarebbe diventata una bellissima ragazza ma ci avrebbe pensato lei a farla crescere bene! Purtroppo Marzia non stava bene, era intollerante al latte e questo fu un problema grande. Dovevamo far arrivare il latte dalla Svizzera, un latte d’erbe che aveva un odore incredibilmente cattivo. Ma era talmente affamata che ne ciucciava a volontà. In quel periodo Grazia era sempre presente. Veniva tutti i giorni e a volte la portava a casa sua, quando io avevo magari una visita da fare o la spesa per la settimana. Mi dava l’opportunità di riposarmi. Passarono in fretta i tre mesi di maternità e con Grazia decidemmo che l’avrebbe tenuta lei a casa sua, in modo che lei avrebbe potuto fare le sue cose, e occuparsi della bambina. Io le portavo Marzia al mattino prima delle 8 e l’andavo a riprendere alle 12 dopo l’uscita dall’ufficio. Un giorno in ufficio mi sentii male, mi portarono a casa. Ricordo solo di essere svenuta. Avevo avuto un salto di pressione molto forte e mi era rimasta la bocca storta. Grazia si preoccupò subito di trovarmi una ragazza per le faccende di casa. Per la bambina ci pensava sempre lei ma non solo al mattino, anche al pomeriggio e questo finché non mi fui rimessa. Mi rimisi dopo un mesetto e rientrai in ufficio, ma Grazia volle continuare a tenere la bambina tutto il giorno. Sapevo di darle molto lavoro e la cifra pattuita mi pareva sempre troppo bassa. Insistevo nel volerla aumentare ma lei assolutamente non voleva. Trovai un modo perché non potesse rifiutare. Cominciai a farle un po’ di  spesa nei negozi vicino dove lei era conosciuta in modo da compensare il suo sacrificio. Più avanti, quando fu certa che la mia salute fosse a posto ricominciai a  prendere la bambina alle 12 ma era lei che veniva a prendere la bambina alle 7,30 ed io andavo a riprenderla. Quando andavo lei stava cucinando il pranzo per la bambina che teneva con se e per sua figlia. Trovavo sempre Marzia che aveva già mangiato ed era già stata cambiata. Passava il tempo e la nostra amicizia si rafforzava. Arrivò il giorno del mio onomastico che era ovviamente anche il suo. Pensai di  invitarla a cena e farle un piccolo pensiero. All’inizio non voleva venire, io le davo del tu e la chiamavo Tata, lei continuava a chiamarmi signora Grazia. Comunque venne a cena e dopo cena le regalai una collanina con dei corallini rossi intramezzati da piccoli pezzetti di madreperla. Fu così felice che mi commosse. Il giorno dopo l’aveva raccontato anche al barista. Da allora cominciò a confidarmi tante cose….Mi parlava della sua vita. Era nata in Sicilia, a Catania da una buona famiglia. Aveva altri fratelli ma presto fu mandata a lavorare presso la famiglia di un Conte. Era piccolina ma aveva un bel viso e quegli occhi sempre sorridenti.  E di questo se ne accorse anche il Conte , il quale se ne approfittò. Era vedovo e i due figli lavoravano nel continente. Rimase incinta, la gravidanza fu nascosta e nacque un bel maschietto però era nato troppo presto e morì di li a poco.  Grazia rimase in quella casa dove oltre che lavorare veniva ancora sfruttata da quell’uomo, ma non poteva andare in nessun altro luogo e quindi continuò ad essere umiliata. Rimase incinta di nuovo. Questa volta la gravidanza andò a buon fine e nacque una bellissima bambina. I figli del Conte non gradirono affatto la sorpresa e Grazia fu invitata a trovarsi un altro posto. Grazia  aveva conosciuto una signora di Messina. Dopo nata la bambina si era confidata con l’amica che aveva deciso di trasferirsi a Firenze. Passò un po’ di tempo e l’amica le offrì la possibilità di partire anche lei con la sua bambina per Firenze dove l’avrebbe ospitata nella sua casa. La signora era sposata ed aveva un figlio. La convivenza durò qualche anno e poi Grazia decise di mettere su casa da sola con la figlia. Trovò un appartamento in affitto. Nel tempo aveva rimesso in Comune  tante domande per l’assegnazione di un alloggio ma non aveva mai avuto risposta. L’appartamento era grande, tanto da poter affittare delle camere. Tramite conoscenza affittò a degli operai che venivano da fuori per lavorare a Firenze. Le fu assegnata una misera pensione d’invalidità e tra un lavoro e gli introiti delle camere riuscì anche a far studiare la figlia. Più cresceva e più la ragazza diventava bella. Alta, mora, capelli lunghi neri come il carbone, dal fisico da modella. Anche lei riusciva con dei lavoretti d’impiegata ad aiutare la mamma nel bilancio di casa. Capitò un giorno che le dissero che una ragazza era rimasta incinta e non sapeva come fare con la bambina. Grazia si offrì per farle da balia, ma Grazia non faceva la balia, faceva la mamma e questa bambina fu tirata su da Grazia con tantissimo amore. Certo riceveva sempre promesse di un pagamento per le spese che poi non arrivava mai, ma alla bambina non mancava mai niente! La bambina rimase per circa sei anni tanto che la chiamava mamma. Grazia aveva un gran cuore e se anche a volte si lamentava che questa mamma si facesse vedere poco, quando veniva a trovare la figlia era ospite sua. Praticamente quando nacque Marzia la nostra Tata accudiva tutte e due le bambine. Accompagnava la più grande a scuola e l’andava a riprendere. Un brutto giorno come sempre andò a scuola a  prendere la bambina ma….la madre l’aveva presa e l’aveva portata con se. Fu per la Tata un grandissimo dispiacere. La considerava davvero la sua bambina, l’aveva curata se stava male, l’aveva coccolata, addormentata e adesso all’improvviso non aveva neppure potuta salutarla come avrebbe voluto!  Ricordo di un giorno verso mezzogiorno andai a prendere Marzia, era successo che la Tata pur di farla mangiare la teneva nel passeggino e la faceva passeggiare avanti e indietro per una rampa che portava ai garage dello stabile. Marzia si girò di scatto,fece smuovere il passeggino che si ribaltò e continuò a scivolare lungo la rampa. la bambina s’era fatta male al visino. Era tutta sbucciata e il sangue la sporcava tutta. La Tata era nella disperazione totale, la figlia era avvilita, quasi piangevano. Non era successo niente ma per loro fu un dramma. Presi Marzia e la portai all’Ospedalino Meir per una visita. Come avevo immaginato, non era niente di particolare, solo sbucciature  che guarirono presto. Ma  la vita da sempre altre sorprese! Erano passati dei mesi, quando un giorno il 4 luglio 1979 , Grazia arrivò la sera a casa tutta eccitata. Noi eravamo rientrate da una settimana trascorsa al mare a Castiglione della Pescaia presso una pensione del Dopolavoro Ferroviario, dove alla fine della primavera e a volte anche a settembre portavo le bambine al mare. Quando la vidi, pensai che fosse venuta per Marzia. Invece, si sedette, chiese com’eravamo state ma si vedeva che c’era qualcosa che non andava. Ad un tratto, la vidi taciturna e seria. Non era da lei e le chiesi se fosse successo qualcosa a casa. Allora mi guardò e come a chiedermi il permesso mi disse:” Signora m’hanno chiamata da Udine. Una ragazza ha partorito una bambina l’altro ieri, non sa che fare, mi ha chiesto se la posso tenere io, sennò la deve lasciare. Lei fa l’entreneuse, balla nei night club. Quello è il suo lavoro e la bambina non la può tenere, io tengo Marzia ! “Aspettava da me una risposta. Figuriamoci, cosa avrei potuto dire io? Ho sempre desiderato adottare un altro bambino e quale occasione migliore che far arrivare questa piccina, vederla crescere insieme a Marzia? Infondo c’era un anno quasi preciso di differenza. Marzia nata il 15 luglio, lei nata il 2 luglio dell’anno dopo!  Non ci sarebbero stati problemi di nessun tipo. Le dissi:”Grazia la faccia venire subito giù, appena esce dalla maternità”.Grazia sorrise come mai! Era di una felicità  straboccante. Mi disse che era di razza nera, era nata piccolina pesava appena 2kg e mezzo. Perché la mamma pur di lavorare si era sempre contenuta nel mangiare e stretta nel vestire per nascondere quella gravidanza. Passammo il giorno dopo a cercare per tutto il ripostiglio tutte le cose che avevo per quella nuova arrivata. La culla di vimini era a posto, i due ricambi della fodera erano puliti, di tutine, ce n’erano a volontà, certo quelle piccine taglia 1 dovevamo prenderle e sinceramente fu un piacere andare con la Tata a comprarle all’Upim vicino casa. Comprammo i pannolini taglia piccola e poi organizzammo subito per farla vedere da un pediatra. Era il 6 luglio. Quando gliela portarono, mi chiamò subito al telefono e corsi immediatamente a vederla. Se ci ripenso mi commuovo ancora! Era uno scricciolo nero, lucido, stava poco più su due mani! Grazia procurò il latte che avevano ordinato all’ospedale. Tutto era pronto. Quella sera, in casa della Tata Grazia ci fu festa. La bambina si chiamava Samara, era il nome scelto dalla madre. Mi ricordo il primo bagnetto. In bagno Grazia aveva sistemato la vaschetta sulla lavatrice. Sentii  la temperatura dell’acqua con il gomito, come  facevo per Marzia.  Le presi la testa su palmo della mano e intesi lavarla passandole il sapone sul corpicino. Mi scivolava. Grazia mi aiutava a reggerla ma lei tendeva a scivolare. Se da un lato ci veniva da ridere dall’altro avevamo paura di farle del male. Come Dio volle la lavammo, la profumammo con il borotalco. Le passai l’olio nei capelli per togliere  le crosticine sulla cute. Aveva capelli neri ricci che non potevamo neppure passarci il pettine! Aveva l’ombelico attaccato e fasciato con una garzettina. Lo sfasciai, lo medicai e rimisi la garza. Il tutto con un’attenzione incredibile. Mi pareva di aver tra le mani una bambola. Samara era buonissima, piangeva poco e solo quando era ora di mangiare. Cominciò a crescere, notai che la razza nera a differenza della nostra cresce e si sviluppa molto prima, Samara era molto precoce in tutto. Praticamente per svezzare Marzia ci volle la pazienza di Grazia. Per esempio, nella minestrina inseriva di volta in volta ,prima la patata, poi le altre verdure e il pomodoro. Quando arrivava il giorno che era stato messo il pomodoro Marzia stava male di nuovo e allora Grazia con la sua pazienza ricominciava di nuovo a mettere e  levare ciò che la bambina non digeriva. Praticamente Marzia e Samara sono state svezzate insieme!! La mamma di Samara veniva abbastanza spesso a trovare la bambina e si vedeva che le era affezionata. Io cercavo di non esserci quando c’era lei. Volevo che stessero loro sole, mi sentivo di non dover partecipare anche se la Tata voleva sempre che restassi con lei. Eravamo diventate amiche io e la Tata, a me raccontava tutti i suoi problemi e tante volte li abbiamo risolti insieme. Bastava poco per vederla sorridere, a volte mi parlava in siciliano ed io non capivo o facevo finta e lei rideva, si divertiva e trascorrevamo insieme diverse serate. Ricordo che una volta vennero a trovarla suo fratello con la sua mamma. Era estate forse, io avevo preparato una bella insalata di riso freddo. Li invitai a cena, a forza di insistere vennero. La sua mamma non faceva che farmi i complimenti per quel riso per lei tanto speciale! Passavano gli anni.  La Tata portava sempre al giardino Samara nel passeggino e Marzia per mano, ho una foto dove le ha tutte e due seduta sulla panchina. Quando c’erano le Feste, lei aveva sempre ospiti, si preoccupava sempre che non mancasse niente. Era di una generosità incredibile sebbene le possibilità fossero limitate! Samara cresceva bene e con Marzia andavano molto d’accordo, sembravano davvero due sorelline e questo mi faceva infinitamente felice! Ma gli anni passavano. La mamma di Grazia si ammalò e non potendola tenere in casa sua, il fratello la portò a Firenze. Era una donna massiccia, pesante. La Tata si stancava tanto nel curare le bambine e la madre. Praticamente adesso la mamma era completamente allettata e doveva essere girata, curata. Lei così piccolina non ce la faceva. Finché in casa rimase la figlia,aveva un aiuto grande, poi la figlia si sposò ed andò ad abitare lontano e poi aveva un negozio di cui doversi occupare e la Tata era spesso sola. Quando tornavo, spesso mi fermavo da lei per darle una mano nel custodire la sua mamma. Era pesante anche per me, ma la volontà supera ogni ostacolo e anche quel problema fu risolto anche con l’aiuto di quei ragazzi che alloggiavano da lei. Non mi ricordo quando morì la sua mamma, forse non c’ero, sarò stata in campagna ma quando tornai seppi che la nonna non c’era più. Grazia era avvilita era stata in Sicilia ed era tornata molto depressa. Non so come sistemò le cose anche per Samara. Ci volle un po’ di tempo ma la nostra Tata ritornò ad essere quella solita. Sempre pronta allo scherzo, alla battuta. Ormai Marzia era grandicella, andava alle elementari,ma se avevo bisogno di un aiuto lei c’era sempre. Era sempre pronta ad aiutarmi anche nei miei momenti più bui! La mia vita in quel periodo stava cambiando e lei però era sempre accanto a me, mi parlava, mi consigliava. Adesso era più una madre che un’amica!! La figlia dopo tanto patire ebbe la felicità di avere due figli, due  gemelli! Quando lo seppe, sembrava impazzita dalla felicità, ma adesso che la figlia viveva più lontano si creava il problema della lontananza. Avrebbe voluto essere sempre presente e credo che lo sia stata. Con il tempo ci siamo allontanate. Io ho cambiato casa e lei è venuta due volte a cena da me. Chicca, la mia figlia più grande che aveva già la patente l’andava a prendere a casa e quello che sarebbe poi stato mio marito la riportava alla sera dopo cena. Era felice per me che avessi trovato un appartamento più piccolo ma più economico, peccato che ci eravamo allontanate. Poi la vita è corsa via senza neppure rendercene conto. Tutti gli anni prima di partire per le ferie usavamo andarla a trovare portandole il gelato. Accadde anche l’ultima volta che la vidi. Dovevamo partire per la campagna, avrei di nuovo cambiato casa per andare a vivere con mio marito in S.Frediano . Quando ci vide ci fece le solite feste. Restammo a parlare parecchio, ma non stava bene, aveva avuto un intervento all’intestino. Diceva che tutto era andato bene ma la vidi sbiancata e stanca. Le lasciai il nuovo numero di telefono. Volevo scriverlo nell’agenda ma non volle, mise il biglietto da una parte sul mobiletto del telefono .Non sapeva il cognome del mio futuro marito e sicuramente il biglietto sarà stato perso. Altro tempo è passato, ma nei miei pensieri c’era sempre. Pensavo che si fosse rimessa, invece……un giorno ho saputo che se n’era andata, senza neppure poterla salutare, senza neppure che Marzia la rivedesse per l’ultima volta. So che ha rivisto tutte le sue bambine ma mancava  Marzia, la sua piccina!! Tutto per un telefono non trascritto!! Marzia è stata tanto male ma poi la vita va avanti,ma le persone care non se ne vanno mai!!! Puoi non pensarci sempre, ma arriva il giorno che ripensi alla tua vita e a chi ti ha voluto bene davvero, ti ritorna alla mente e vorresti poterle dire tante cose che ti è mancato di dire e questo ti fa soffrire. Ma la Tata Grazia resterà sempre tra noi, è stata un mio punto fermo, una mia certezza. Un grazie ancora a quella Piccola Grande donna con un coraggio da leoni e con la forza di un toro. Adesso vorrei proprio dire “ Tata Grazia ti abbiamo voluto bene come una sorella, una madre, se sei nei giardini del Paradiso, guardaci e se puoi indicaci la strada giusta. Sai io non sono più giovane ma il bisogno di una tua parola c’è sempre, che ti arrivi un nostro bacio e un  abbraccio infinito”


UN INCONTRO SUL NETWORK

Questa è una storia dei nostri tempi, dove le persone si estraniano dal mondo e riempiono la loro vita c amicizie virtuali come  quelle che si fanno sui vari social network.

Fu tra un mi piace su un link, tra un commento e l’atro che due persone sconosciute si incontrarono. Era un gioco, lui postava, lei rispondeva e susseguivano i commenti. Erano battute, solo battute che non avrebbero avuto nessuna conseguenza se un giorno le loro idee non si fossero scontrate tanto da divenire una vera disputa di vedute, lei sferrò un attacco forte, lui non potendo replicare pensò di chiamarla in chat per chiarire la posizione e chiudere il discorso. Fu così che le chiese amicizia e lei accettò volentieri pensando di ampliare le sue amicizie visto che era da poco nel sito e ne aveva davvero poche. Infatti così andò, le richieste iniziarono ad arrivare e anche loro due continuarono a mandare link e a commentare. Si trovavano tutti i giorni e stavano alla tastiera per parecchio tempo. Un giorno, lui la chiamò in chat e le chiese il numero di telefono per poterle parlare un po’ meglio. Si scambiarono i numeri telefonici e da quel giorno lui cominciò a chiamarla tutti i giorni. Le telefonate erano sempre garbate e sempre più lunghe. Non si rendevano conto del tempo che trascorreva, a volte anche due ore. Avevano sempre argomenti nuovi, si scambiavano opinioni su tutto. Poi col tempo cominciarono a parlare anche delle loro vite, il lavoro di lui, gli impegni di lei. S’instaurò un’amicizia virtuale ma non più poi tanto. Lei cominciava ad aspettare la telefonata, se ritardava cominciava ad avere l’ansia come una ragazzina. Lui si faceva sentire sempre più presente e lei si rendeva conto che lui cominciava ad entrare nella sua vita. Accadde dopo oltre un mese di telefonate che lui le chiese un incontro per un caffè. Diceva “tanto per conoscerci meglio”. Lei accettò anche pur avendo mille dubbi per quell’incontro al buio! Decisero per una mattina. Fissarono d’incontrarsi in un luogo dove lei non fosse conosciuta. Era sola, non aveva da rendere conto a nessuno se non a se stessa, ma era una cosa nuova per lei che era abituata ormai da anni a vivere sola. Lui le aveva detto che sarebbe arrivato con un’auto blu. Lei strada facendo si poneva mille problemi, era quasi tentata di tornare indietro ma lui la chiamò al cellulare dicendo che era in arrivo. Ormai era fatta, l’incontro ci sarebbe stato. Lei arrivò al posto stabilito e vide poco distante la macchina blu parcheggiata. Scesero dalle auto e si andarono incontro. Sicuramente saranno stati imbarazzati tutti e due. A lei tremavano le gambe, quando si avvicinarono, si presentarono, si dettero la mano. Lei notò che lui non era come appariva nella foto postata, infatti la fotografia era di diversi anni prima, mentre lui trovava la  stessa donna che aveva visto in foto. Comunque l’imbarazzo era reciproco. Decisero di andare in un bar per un caffè e soffermarsi un po’ a parlare. Scelsero un posto un po’ fuori mano. Ognuno con la propria auto, lui avanti e lei dietro che lo seguiva. Arrivarono al parcheggio del bar, lasciarono le auto e s’incamminarono verso il locale. Lui discretamente le appoggiò la mano sul braccio come a indicarle la strada. Presero il caffè, poi si sedettero fuori ad un tavolo e timidamente le accese la sigaretta. Lei in quel momento pensò di essergli piaciuta perché prima di risalire in macchina le aveva fatto un gesto con il pollice, come a dire che era ok. Certo in macchina lei pensava a cosa potesse succedere, se le parole gentili dette al telefono rispecchiassero davvero la persona. Ormai era in ballo e doveva ballare. Cominciarono a parlare, ora erano davvero come due ragazzini. L’emozione trapelava più in lui che in lei. Lei voleva dare di se l’impressione di essere una donna forte, indipendente, ma non troppo per non spaventarlo. Lui le guardava le mani e spesso la guardava negli occhi. Lei ebbe la strana sensazione che lui non fosse libero e all’improvviso gli chiese se fosse sposato, però le pareva strano visto tutto il tempo che le dedicava al telefono o al computer a tutte le ore. Prima parlò lei della sua vita, delle sue figlie, della sua vedovanza, poi si rivolse a lui e gli chiese “sei sposato, vero?” Lui rimase un attimo in silenzio e poi rispose che si, era sposato ed aveva due figlie. Però essendosi sposato molto presto non sapeva cos’era l’amore, quello vero. Lei rispose che conosceva bene cos’era e com’era l’amore vero. Aveva amato suo marito alla follia e quando se n’era andato dopo una lunga malattia, si era rinchiusa in se stessa e quella era la prima volta dopo sei anni che s’intratteneva a parlare con un uomo. Lui continuava a sostenere che forse l’amore non esisteva,  mentre lei lo rassicurava che l’amore vero esisteva eccome, solo che era fatto come un mosaico, di mille cose che rendevano il sentimento forte e bello. Comunque lui specificò che non aveva voluto incontrarla per alcun motivo se non quello di conoscerla meglio. Questo rendeva lei più sicura. Continuarono a parlare ancora e poi decisero di fare una girata in cima al colle. Lei adesso si fidava un po’ di più e lasciò la sua auto parcheggiata e salì su quella di lui. Per la strada parlarono ma non molto. Arrivati scesero. Lo spettacolo da lì era davvero bello. Si appoggiarono all’auto e si accesero la sigaretta, il fumo faceva strani girigogoli che poi il vento disperdeva. Rimasero in silenzio, vicini ma non troppo. Non parlarono, si limitarono a guardare quella meraviglia che si apriva sotto di loro. Restarono poco perche il vento freddo cominciava a infastidire, ma il tempo che lui si era concesso non era molto e sarebbe dovuto rientrare a casa. Quando arrivarono al parcheggio, si salutarono con una stretta di mano come a suggellare  un’amicizia e un bacio leggero di lui le sfiorò appena la guancia. Si ripromisero di risentirsi in serata. Ma lei non fece in tempo ad arrivare in casa che lui le inviò un messaggio confermandole che l’avrebbe richiamata più tardi. E così fu. Da quel giorno lui messaggiava spessissimo, perfino nelle ore tarde della notte. L’attività al computer aumentava giorno dopo giorno. Oltre a commentare i link, si scrivevano in chat con battute scherzose e ironiche. I loro discorsi non erano mai vuoti, avevano sempre argomenti di cui discutere a volte anche vivacemente, ma prima di terminare c’era sempre una parola che li rasserenava. A poco a poco accadde quello che mai  lei avrebbe voluto. Cominciò a provare un sentimento nuovo che andava oltre l’amicizia. Si sentiva come una ragazzina alla prima cotta. Quei sentimenti che danno il batticuore per un’attesa, eppure lei ragazzina non lo era più da tanto. Da parte sua, lui era sempre più premuroso, più gentile, più affettuoso, ma parole sui sentimenti non venivano mai dette. Passarono altre settimane e lui le chiese di nuovo se potevano incontrarsi per il solito caffè. Lei accettò, sapendo però di non fare la cosa giusta sapendo che lui era impegnato e che a nulla avrebbe potuto portare quel sentimento che stava crescendo in lei. Si ritrovarono sempre al mattino. Questa volta scelsero una stradina di campagna dove c’era una casa disabitata in rovina.  Si trovarono tutti e due in piedi appoggiati all’auto. Per un po’ parlarono, poi lui cominciò ad accarezzarle le spalle, poi il collo e lei provava brividi in tutto il corpo che la facevano vacillare. Forse lui avvertì la sensazione che lei stava provando e la baciò. Fu ricambiato e quel bacio durò un’eternità! Le mani di lui la sfioravano attraverso la camicetta. Poi il gioco continuò, quelle mani adesso la toccavano con più forza. Lui l’abbracciava e la baciava in continuazione con impeto. Lei sapeva bene cosa potesse succedere ma la mente la frenava. No, non voleva che andassero oltre. Non voleva essere un passatempo e non voleva essere “l’altra “. Non lo era mai stata anche se di occasioni ne aveva avute e non voleva esserlo adesso. Emergeva quella parte di se che non le avrebbe consentito di cedere anche se il corpo avrebbe detto “Si” .Continuarono ancora baci e carezze ma lei cominciava a respingerlo per invogliarlo a tornare a casa che il tempo era sempre poco e lui sarebbe arrivato a casa troppo tardi. Nonostante lui fremesse come un ragazzino, si arrese e ripartì verso casa. Lei riprese la strada per il rientro. Mentre guidava si rivedeva le scene vissute e si confortava nel vedere che lui non  si era spinto oltre il concesso, era stato garbato e questo la faceva rasserenare, non si era approfittato della sua debolezza. Forse fu proprio questa riflessione che glielo fece apprezzare di più! Continuarono ancora come e più di prima a messaggiarsi, a telefonarsi e iniziarono i “ti voglio bene” i “mi manchi” i “ti penso”. Lei vedeva sul social che lui scambiava battute scherzose anche con altre donne, certo anche molto più giovani e questo la disturbava, cominciava ad insinuarsi il tarlo della gelosia che a lei non avrebbe dovuto appartenere. Si rendeva conto che da un’amicizia stava diventando altro. Passò altro tempo e si rividero ancora. Fu allora che lei cedette lasciandosi completamente andare tra le braccia di lui che la faceva sentire ancora donna! Ne era felice, ma si rendeva conto che stava diventando l’altra e la cosa le faceva paura. Stava rubando qualcosa a quella donna che gli stava vicino tutti i giorni. Le stava rubando l’amore! Però era felice perché lui l’aveva fatta uscire da quel guscio dove s’era rinchiusa dopo la morte del marito. Aveva avuto occasioni per avvicinarsi ad un altro uomo ma non aveva mai voluto cedere perché avrebbe voluto rimanere fedele alla memoria di un amore che le aveva dato tutto e al quale lei aveva contraccambiato dandogli tutta se stessa fino all’ultimo suo respiro. Ebbero occasione di rivedersi ancora, lui le dedicò una giornata intera. Vissero quel giorno come una coppia normale, prepararono il pranzo, fecero all’amore e rimasero vicini a guardare il soffitto, vicini stretti come se tutto il resto non esistesse. Come lui partì, lei si sentì vuota, si rese conto che quell’uomo non l’avrebbe mai avuto solo per se. Lui non le apparteneva e prolungare quell’amore che aveva visto nascere anche in lui, sarebbe stato doloroso e sempre più doloroso sarebbe stato il distacco che comunque prima o poi sarebbe dovuto avvenire. Passarono altri giorni e lui la volle rivedere solo per una mattinata, aveva impegni e non avrebbe potuto soffermarsi oltre. Al telefono adesso lui parlava di loro di un futuro che forse poteva esserci o no, avrebbero dovuto vivere la vita giorno per giorno senza preoccuparsi di cosa il futuro avrebbe potuto dargli. Si, se lei fosse stata diversa, forse, ma lei non era così… Lei il suo uomo l’avrebbe voluto solo per se e pensare di continuare a dividerlo con un’altra che lui forse non avrebbe mai lasciato, no….non poteva! Quando si incontrarono lei era decisa a chiudere quella storia pur sapendo che ne avrebbe sofferto ma sapeva che più tempo sarebbe trascorso e più sarebbe stato doloroso per tutti e due. Fecero ancora all’amore, lei sapeva bene che sarebbe stata l’ultima volta. Lui era preso dalla passione ed era felice e lei dopo, cominciò a parlare. Lui ascoltava e conveniva che erano vere e giuste le sue ragioni. La stringeva forte come per non farla scappare, continuava a baciarla. Le baciava le mani e si promettevano amicizia eterna. Si dicevano cose bellissime che avrebbero chiuso la porta dell’amore ma aperta quella dell’amicizia vera. Lui partì e lei si sentì soffocare dalla rabbia e dal dolore, aveva visto scendere le lacrime dai suoi occhi e questo le faceva ancora più male. Ora lui sapeva cos’era l’amore, è anche sofferenza. Da quel giorno le telefonate non arrivarono più. Neppure i messaggini. Lei sperava che la promessa di amicizia fosse mantenuta ma non fu così. Si trovavano nel social, lui era sempre più distante. Non faceva più battute sui link. Lei all’inizio non voleva capire, lo cercava in chat e lui o evitava di risponderle o rispondeva in modo seccato. Lei si rese conto che lui si era offeso, forse aveva toccato il tasto del suo orgoglio e questo lui non glielo perdonava. A poco a poco vedeva che si era allontanato così tanto che all’improvviso sparì anche dal social. Lei provò a mandarle un messaggio per un chiarimento per mantenere quella promessa di amicizia. Ma non rispose. Sicuramente lei avrà sofferto più di lui perché si sentiva in colpa per essere stata lei a chiudere una storia impossibile. Ma le mancavano le sue lunghe telefonate, le discussioni, le risate. Si le mancava tutto questo, Non sapeva più niente di lui, sperava in cuor suo che si fosse riavvicinato alla moglie o avesse trovato un altro amore….ora sapeva cos’era e forse poteva gestirlo. Lei sicuramente pensò a lui per molto tempo aspettando magari una telefonata improvvisa. Chissà se lui avrà avuto un pensiero per lei………..

Questa è una delle tante storie che nascono sui network, come un gioco che poi possono far soffrire. In una società che si sta inesorabilmente chiudendo in se stessa, dove s’intrecciano rapporti umani virtuali, quando si evitano quelli reali per troppa paura.


CATERINA E LA SUA DETERMINAZIONE…..

Questa storia inizia alla fine dell’8OO. Forse  può sembrare una storia come tante, ma per me è una storia speciale. Mi è stata raccontata da mia madre che l’ha sentita raccontare dalla sua.

Esisteva , al confine tra l’Umbria e la Toscana  una Marca che tanto tempo addietro fu affidata dal papato ad una famiglia che si era adoperata per la conservazione delle terre , quando  il Granducato di Toscana pigiava alle porte per acquisire  territori.  Oggi questa Marca non esiste più, ci sono quattro case cadenti e anche la vegetazione intorno è cambiata. Con l’andare dei tempi anche i territori sono stati modificati, non c’è più il fiumiciattolo che attraversava il bosco, non c’è più neppure il bosco. Con il trascorrere degli anni e delle generazioni si arriva , come racconto, alla fine dell’8OO quando, come la tradizione ci ricorda, la Nobiltà Contadina aveva una sua struttura, il primogenito ereditava le proprietà terriere mentre il secondogenito era destinato ad intraprende o la carriera militare o quella clericale. Se i figli maschi erano due ognuno ne seguiva una. Per quanto riguardava le figlie femmine, ad esse spettava unicamente la dote che consisteva in un bel corredo, in gioielli e, se la famiglia del futuro consorte lo esigeva, anche in denaro, precedentemente concordato. Questa era la situazione della famiglia di cui racconterò la storia. Questa famiglia la chiameremo Checcucci. Era  una famiglia molto stimata, aveva proprietà e, come naturale per l’epoca,  aveva molti figli: quattro maschi e quattro femmine. Come tradizione il terzogenito all’età di sei  anni entrò in seminario e divenne Prete, il secondogenito partì da casa ed intraprese la carriera militare, il primogenito acquisì i beni della famiglia e il quarto rimase in famiglia per aiutarlo. A tutti e due comunque fu data un’istruzione elementare, sapevano leggere, scrivere e far di conto, badavano ai fattori e con loro i conti tornavano sempre. Il primogenito si sposò e restò nella casa paterna, il quarto non si sposò mai e restò anche lui nella stessa casa. Le femmine furono sistemate una alla volta a partire dalla più grande che fu data in sposa ad un piccolo proprietario terriero. Non era un uomo di cultura e lei che era stata istruita come le altre da un tutore in casa si sentiva un po’ sacrificata. Nella nuova abitazione non aveva libri da leggere e doveva per questo ricorrere spesso alla madre che non mancava mai di acconsentire l’uso della sua libreria. La seconda fu data in sposa ad un medico che fu trasferito a Roma e se la portò via dopo pochi mesi dal matrimonio. La terza  era molto timida e timorosa, sentiva molto l’influenza del fratello Prete e spesso aveva accennato alla possibilità di farsi monaca. Però crescendo  e partecipando alle feste che spesso venivano  fatte in occasione delle ricorrenze come Pasqua, Carnevale, Ferragosto o le occasioni delle cerimonie, aveva preso fiducia in se stessa e si era accorta di quanto fosse carina e quanto i giovanotti la circondassero di attenzioni. Sua madre  ebbe modo di scegliere tra molti pretendenti e la scelta cadde,  non a caso, su un giovane  figlio di una nota famiglia che faceva il praticante presso lo studio di un avvocato.  Il giovanotto aveva studiato a Firenze ed era tornato al paese con l’intento di  poter aprire uno studio ed esercitare la professione. Per questo matrimonio si impegnarono molte risorse  per non sfigurare nei confronti della famiglia  che avrebbe accolto la bella giovane.  C’era rimasta solo l’ultima figlia da sistemare. Nell’arco di pochi anni  la famiglia Checcucci aveva speso un patrimonio per cerimonie e matrimoni.  Adesso  le cose andavano male i soldi erano rimasti pochi e quest’ultima figlia andava sistemata! Non era una gran bellezza ma aveva un gran bel portamento, era spigliata, sempre allegra, pronta alla battuta, riusciva ad adattarsi bene in tutte le occasioni. Alla ragazza piaceva il nuovo medico del paese ma non le fu concesso, sarebbe costato troppo. Le fu presentato un allevatore che veniva dalla maremma. Possedeva cavalli, mucche e pecore. Aveva fatto la transumanza per qualche  anno e ora aveva deciso di restare in questo paese e qui intendeva mettere su famiglia. Il terreno era buono e avrebbe continuato ad allevare bestiame. I ragazzi si incontrarono ad una cena di amici comuni. Alla prima occhiata si erano subito piaciuti. Si incontrarono ancora in occasione della Messa alla domenica. Non ebbero modo di parlare molto ma  nelle poche occasioni insieme si divertivano e le battute di lui la facevano ridere. Quando le madri si riunirono per trattare, le richieste non  furono molte. La suocera si accontentò della dote e non pretese soldi. Lui si era veramente innamorato e l’avrebbe presa così anche senza dote, ma la madre pretese almeno un po’ d’oro e il corredo. Il ragazzo  aveva  24 anni era bello, alto, moro e con gli occhi chiari, lei ne aveva 17. Il fidanzamento  durò poco. Erano innamorati persi uno dell’altra e dopo sei mesi si sposarono. Penso che questo tra tutti sia stato il primo matrimonio combinato con amore! Iniziò la convivenza con la suocera che era veramente suocera nel senso più crudo della parola. A quell’epoca nella società contadina vigeva il matriarcato anche se l’uomo  veniva considerato il capo di famiglia, chi in effetti comandava e gestiva i figli e la casa era la donna. Questa suocera già anziana usava tenere le chiavi delle madie e di tutti gli armadi anche della biancheria legate con una catena d’oro al collo. Era lei che decideva come e quando aprirli, era lei che decideva quando era l’ora di fare colazione, era lei che decideva se staccare un prosciutto o un salame per affettarlo e servirlo in tavola. Veniva lesinata anche una fetta di pane. Caterina  rimase subito incinta e anziché avere più attenzioni nei suoi confronti, veniva trattata come le  donne che erano al servizio della suocera, senza alcun riguardo alla sua nuova situazione. Ma in gravidanza  Caterina aveva più appetito era costretta ad andare dalla madre  per poter soddisfare le sue voglie. Giulio non poteva contraddire la madre anche se  non sopportava  tanta avarizia. Non era facile vivere in quella casa ma i ragazzi speravano di poter vivere prima o poi  in una casa tutta loro. Nacque la prima figlia e Caterina trascorse qualche giorno dalla madre per rimettersi un po’. Passava intanto il tempo e le cose cominciavano ad andare un po’ peggio. Più la bambina cresceva, più l’economia  peggiorava. Giulio leggeva il giornale e si preoccupava per le notizie sempre meno buone, si avvicinava il rischio di una guerra.  Fino a che una mattina fu chiamato all’ufficio postale per una cartolina. Era  l’invito del Re a presentarsi per essere arruolato in previsione di un’imminente conflitto con l’Austria. La notizia sconvolse un po’ tutti, sia i familiari che i paesani. Da li a poco in molti ricevettero uguale invito e tanti uomini partirono prima per Torino, poi verso le varie destinazioni. La lontananza del marito rese ancora  più insopportabile la convivenza in quella casa, ma la pazienza di Caterina era data dalla soggezione che aveva nei confronti di quella famiglia e dal rispetto che doveva  in primo luogo alla suocera in quanto madre di suo marito. Per i primi mesi le lettere di Giulio arrivavano  regolarmente una a settimana. Naturalmente venivano lette a tavola ad alta voce in modo che tutti ascoltassero e commentassero  quanto Giulio raccontava. Non avevano neppure  la delicatezza di lasciare a Caterina la possibilità di leggere i passi rivolti a lei. Giulio sapendolo non esprimeva i suoi sentimenti più profondi, si limitava a scrivere “ Vi sono vicino, Vi penso sempre, baciatemi la piccina” Ancora a  quell’epoca il Voi era d’uso anche tra marito e moglie e tra figli, piccoli e adulti. Dopo tre o quattro mesi le lettere cominciarono a diradarsi, Giulio era al fronte e non sempre poteva inviare lettere. Poi  ad un tratto ci fu il silenzio assoluto. Caterina aveva Rossella che stava per compiere due  anni e tanto era in apprensione che ogni notte sognava scene di guerra, si svegliava in preda ad incubi. Arrivò la primavera e decise che sarebbe andata in cerca del marito. In cuor suo sapeva che l’avrebbe trovato vivo, ma la paura era tanta. Aveva , tramite amicizie, avuto delle informazioni sul luogo dove Giulio fosse, ma chissà dove l’avrebbe trovato! I militari si spostavano in continuazione e Caterina sapeva di rischiare molto. Avrebbe lasciato la bambina da sua madre,  anche se ancora non l’aveva messa al corrente delle sue intenzioni. Avrebbe preso il calesse con il cavallo, avrebbe fatto il  carico con il minimo indispensabile per il vestiario e la maggior quantità di provviste  così, avrebbe attraversato mezza Italia. Quando accennò una sera a cena alla famiglia tutta riunita intorno al tavolo le sue intenzioni, vide intorno a se visi stravolti. Pensarono  dopo il primo momento forse di smarrimento, che  non fosse vero, che fosse solo uno scherzo, un modo di dire. Ma quando Caterina spiegò come si era organizzata, non ebbe risposta dai suoi cognati, perché si alzarono  da tavola e se ne andarono.  Solo la suocera rimase impietrita seduta sulla sua sedia, la guardava ed il suo viso era diventato livido dalla rabbia. Immagino che dentro di se la suocera pensasse alla vergogna, una donna sola, partire per luoghi lontani in cerca del marito. Una mamma che abbandonava la figlia piccola per andare chissà dove… ..Cosa avrebbe pensato la gente del paese, sicuramente l’avrebbe considerata una svergognata! Quello che pensò la suocera non è dato sapere, certo è che  dopo aver pensato un po’, guardò Caterina e le disse che se decideva davvero di partire, al suo ritorno non avrebbe più potuto vivere  in quella famiglia, sarebbe dovuta tornare alla casa paterna. Caterina si era già immaginata la reazione  di Maria ( così si chiamava  sua suocera) ma con tutto il suo entusiasmo aveva dimenticato che  Maria era una donna molto forte e decisa, quando diceva una cosa andava comunque rispettata, perfino i cognati rispettavano ogni suo parere. Dopo la morte del marito per malattia aveva gestito tutto lei. Caterina  parlò allora con sua madre che non fu più tenera della suocera. Dopo che sua madre ebbe espresso tutti i suoi dubbi e le preoccupazioni per le situazioni che si sarebbero create con la decisione di partire, accettò di accudire la piccola Rossella, si  raccomandò di tenerla informata di ogni qualsiasi evento o complicazione che avrebbe potuto trovare nel tragitto. La rassicurò che lo zio Prete avrebbe immediatamente attivato le sue conoscenze e  in qualsiasi Convento o Pieve si fosse fermata avrebbe trovato accoglienza. Non avrebbe dovuto  soffermarsi mai in luoghi non sicuri, avrebbe dovuto evitare taverne e ricoveri diversi. Ormai la decisione Caterina l’aveva presa e l’importante per lei era andare , il pensiero di  quello che sarebbe successo al suo ritorno venne momentaneamente accantonato. La sua mente vagava oltre. Lei, che non era mai uscita da quelle quattro case, era pronta ad affrontare un viaggio pieno di incognite. Non sapeva neppure la strada che l’avrebbe portata a Lui. Aveva guardato le cartine che la mamma aveva nella sua libreria e si era preparata il tragitto. Non sapeva quanti giorni avrebbe impiegato, si era data dei punti di riferimento. Aveva annotato tutti i luoghi dove poteva trovare rifugio e far riposare il cavallo. Avrebbe dovuto attraversare l’Appennino, la pianura  Padana, le Prealpi e poi arrivare  al campo dove Giulio era stato individuato.  Ma non era il viaggio che la preoccupava, era il poi, era il dubbio e la paura di non  trovarlo, o di trovarlo ferito, malato. Era pronta a tutto, la sua mente vagava e fantasticava creandosi mille situazioni, mille problemi! Da quando aveva parlato a cena alla famiglia dei suoi progetti, nessuno le aveva chiesto più niente. Sembrava che tutti ignorassero la sua decisione. Maria  non le aveva più rivolto la parola la ignorava completamente. Eppure lei partiva per trovare suo figlio, ma quello a cui teneva di più sua suocera erano i commenti e i giudizi dei paesani. E a Caterina tra le tante parole sentite, quelle che le pesavano di più e che le procuravano una stretta al cuore erano quelle che non avrebbe mai voluto sentire: “ Sei una madre, se ti accade qualcosa, che ne sarà di tua figlia? E la gente…..? “Sempre la gente, il paese che non accetta comportamenti fuori le righe che ha codici non scritti ma che sono macigni! Ma si trattava di Lui, del suo amore, della sua vita e per questo per nulla al mondo  poteva rinunciare.  Trascorse ancora una settimana, poi decise che era arrivato il momento. La sera prima di partire portò la bambina da sua madre che non disse una parola. Portò la piccola nella grande cucina, la fece sedere sulla panca appoggiata alla parete di fronte al tavolo, prese dal camino sotto la cenere due patate, le pulì con il grembiule, le sbucciò e gliele spezzettò dentro una ciotola, le unse con l’olio, tagliò una fetta di pane e gliela mise tra le manine. Così Caterina lasciò la sua piccina, sicura che sua madre l’avrebbe curata  con l’amore  che aveva  riservato a lei. Sua madre era una grande mamma, lo era stata per tutti i suoi figli, ma per lei lo era stata di più. Tra loro c’era un rapporto diverso, si erano  sempre sentite vicine, erano uguali; lo stesso carattere forte, libero, la stessa voglia di vivere. Con sua madre  aveva condiviso tutte le sue gioie, le sue delusioni, le sue speranze. Per un periodo era sta l’unica sua amica, confidente. E adesso, non c’erano più parole, solo fatti. Uscì di casa mentre cominciava ad abbuiare. Si soffermò nel vialetto alberato e guardò verso il cielo. C’era già la luna che saliva pallida e ripensò a quante passeggiate avevano fatto lei e Giulio lungo quel viale accompagnati dai fratelli o dai genitori da fidanzati, mai soli. Poi dopo sposati lo percorrevano alla domenica per andare in Chiesa con i nipotini. E le sere d’estate per non allontanarsi troppo, lì portavano i bambini a prendere le lucciole, allora tutte le sere era una festa. Caterina voleva riviverli quei momenti con i suoi figli e con suo marito, non le bastavano i ricordi. Piano piano si avviò verso casa, salì le scale ed entrò nella loro camera senza preoccuparsi di chi fosse ancora giù nel salottino. In casa c’era silenzio, come fosse disabitata. Preparò la valigia mettendo il minimo indispensabile, poi stanca si lavò al lavabo che aveva  di fronte al letto e si distese. Si svegliò di soprassalto, le parve di aver dormito chissà quanto, invece erano sono le quattro . Si vestì, scese in cucina, si scaldò un po’ di caffè d’orzo e ci inzuppò due fette di pane raffermo. Quella anche se anticipata era sempre stata la sua colazione. Preparò un fazzoletto con del pane, un coltello, dei pomodori,  un pezzetto di formaggio e un pezzo  di pancetta,  delle salsicce, (c’erano  sempre in cucina), prese dal cestino delle mele e annodò i quattro lati del fazzoletto. Riempì una sacca d’acqua e caricò il calesse. Aveva il cuore pieno di lacrime che traboccavano dagli occhi, ma lei non voleva piangere, voleva essere forte e andare, andare, andare.  Sapeva che il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso, ma non immaginava che il trotterellare del cavallo e il dondolio del calesse le facessero quell’effetto soporifero che le faceva sentire la testa vuota. Ogni tanto reclinava il capo e ad ogni scossone sobbalzava. Si era portata il vecchio orologio a cipolla di suo padre e lo teneva nella tasca della sottana. Quella sottana aveva due tasconi dove dentro aveva  riposto diverse cose, le più importanti. L’orologio glielo aveva dato sua madre, dentro c’era un’incisione, una data e due iniziali. Lo avrebbe guardato tante di quelle volte che non avrebbe potuto contare. Aveva pensato di potersi fermare per la notte a Siena. Lì lo zio Prete aveva contattato il convento  delle Oblate e avrebbero ospitato per la notte lei e ristorato il cavallo. Non avrebbe mai pensato che la strada fosse tanto lunga. Si fermò  varie volte, non voleva che il cavallo si affaticasse e nelle soste scendeva e si sgranchiva un po’ le gambe, si soffermava sempre  nei pressi dei paesini per non sentirsi troppo isolata. La prima volta si soffermò  presso un’aia. Sembrava che il casolare fosse disabitato, non vide nessuno e si sedette su una panca e fece colazione. C’era un pozzo , calò il secchio e bevve; quell’acqua fresca la ristorò,la polvere le seccava le labbra e poi il pezzo di pane con la pancetta avevano  aumentato la sete. Bevve in abbondanza e si lavò il viso e le mani per rinfrescarsi. Scosse il fazzoletto che le cingeva il capo  e se lo rimise dopo aver riavviato i capelli. Abbeverò il cavallo e  nel mentre si accingeva a risalire sul calesse vide rientrare un carro pieno di contadini, donne e uomini. Dovevano essere stati nei campi a lavorare, erano sudati , cantavano e ridevano. Aspettò che fossero vicini e in poche parole spiegò il perché del suo viaggio e ringraziò per quanto aveva usato. Questi l’invitarono a mangiare con loro, ma lei salì sul calesse e ripartì  in direzione di Siena. Ma Siena le parve tanto lontana! Eppure c’era stata da ragazzina con suo padre, quella volta dovevano acquistare alla fiera del bestiame dei maiali, lì avevano una razza speciale che dalle sue parti non c’era, suo padre ne andava fiero, era stato un buon acquisto. Eppure quel viaggio non le era parso tanto lungo. Si fermò ancora una volta prima di arrivare a destinazione. Questa volta però si fermò lungo un torrente che scorreva vicino alla strada. Mangiò solo due mele e si soffermò solo per far bere il cavallo. Era buio quando cominciò a intravedere le prime case alla periferia di Siena. Domandò ad un passante dove fosse il Convento e in breve si trovò di fronte ad una grande cancellata. Tirò la corda della campanella e dopo poco arrivò una suora. Spalancò il cancello e Caterina entrò con il calesse. Altre due suore le vennero incontro, l’aiutarono a scaricare il calesse, chiamarono un guardiano per il cavallo e la fecero entrare. Si trovò di fronte un lungo corridoio con diverse porte ai lati. L’accompagnarono prima al piano di sopra dove le fecero vedere la sua camera. Era buia, non molto grande, c’era un piccolo letto, non c’era l’armadio ma un inginocchiatoio con sopra un crocefisso. Appesa sopra il letto una grande corona di legno, a fianco al letto un lavamano con un asciugamano di lino bianco, e nel lato opposto una panca dove posò la valigia. La suora che l’aveva accompagnata  aspettò che si fosse lavata le mani e ravviati i capelli e di nuovo raccolti nel fazzoletto l’accompagnò al refettorio dove le suore stavano già pregando. In silenzio si accostò alla porta e aspettò che avessero finito di pregare. Una suora che le sembrò la più anziana le si avvicinò e la invitò a sedersi accanto a lei. Fu portato in tavola del pane, della minestra e del formaggio. Caterina si segnò e aspettò che le altre iniziassero a mangiare, quindi lentamente prese il cucchiaio  e si accinse a immergerlo nel piatto quando la suora accanto Le chiese notizie dello zio Prete. Caterina rispose a voce bassa alle domande, era stanca ma aveva una gran voglia di mangiare quella minestra calda e non vedeva l’ora che quell’interrogatorio finisse. Dopo poco la suora si rese conto, dal suo sguardo che avrebbe potuto continuare più tardi la conversazione. Caterina così poté mangiare tranquillamente anche se con un po’ di imbarazzo. Dopo la cena, fu la Superiora ad accompagnarla in camera dove si trattenne per continuare la conversazione lasciata in sospeso e chiedere del suo viaggio. Caterina era stanca ma rimase volentieri a discorrere con la suora e ciò le fu utile perché ebbe delle rassicurazioni e delle indicazioni su dove poter andare in caso di necessità durante il lungo viaggio che aveva appena iniziato. Era ancora buio quando una suora bussò alla sua porta per invitarla a scendere per la preghiera del mattino. Caterina si alzò  immediatamente, si lavò il viso, si vestì e si  apprestò a scendere. la suorina la stava aspettando davanti alla porta. Era giovanissima,l’accompagnò in refettorio dove già le altre novizie stavano pregando. Fu invitata a sedersi e le fu data una tazza di latte con del pane. Caterina non vide la Superiora, ma la incontrò più tardi  nel suo studio. Aveva preparato per lei una lettera di presentazioni per le suore  Carmelitane che l’avrebbero ospitata a Firenze. Dopo pochi  convenevoli  fu accompagnata nel cortile dove trovò il suo calesse e il cavallo già pronti per partire. Stava albeggiando e Caterina pensò che avrebbe dovuto  avviarsi prima possibile per poter arrivare a Firenze per la sera. Non aveva idea di quanto tempo avrebbe impiegato. Il cavallo sembrava riposato e pulito. Sistemò i suoi pochi bagagli ma vi aggiunse un fagotto  che la Madre Superiora volle portasse con se. Conteneva varie cose,delle salsicce secche, dei fichi, dei biscotti e del pane. A Caterina parve anche troppo per il viaggio che avrebbe dovuto intraprendere. S’incamminò, aveva piovuto nella notte e la strada era più pesante, il cavallo si affaticava di più. Il trotterellare era più lento e Caterina non forzò l’andatura. Era bello lasciarsi trasportare, non faticava affatto per tenere le redini. Pareva che il cavallo sapesse il percorso,pensò” menomale che lui sa dove andare, perché in questo momento gli occhi mi si chiudono e avrei voglia di dormire!” Pisolò un po’ tra uno strattone e l’altro. Pareva che avessero camminato chissà quanto,invece alle dieci erano ancora  nelle vicinanze  di  Castellina. Fino ad ora la strada era stata buona, ma piano piano cominciava a salire. Sapeva che avrebbe dovuto attraversare il San Donato e il cavallo avrebbe dovuto fermarsi per riposare. Si fermò in una posta lungo la strada. Il paese si stendeva lungo la via, intorno le colline erano distese di viti disegnate sui pendii. Le venne spontaneo pensare ad una coperta a quadri che aveva in casa. I colori variavano dal marrone al verde. Quei quadrati di terra somigliavano a quella coperta. Decise di fermarsi alla Posta anche se la fermata non era prevista. Entrò e trovò una donna che puliva i pavimenti, le sedie erano tutte alzate sui tavoli. Forse stava preparando per il pranzo delle 12. Ma erano solo le dieci. Caterina chiese se poteva abbeverare il cavallo e magari avere un caffè nero. La donna fu gentile, le sistemò una sedia accanto ad un tavolino, le portò il caffè con una fetta di crostata. Caterina apprezzò la gentilezza e dopo aver scambiato poche parole, ripartì convinta di arrivare alla meta (Firenze)almeno prima di notte. Mentre viaggiava faceva mille congetture. A tutto pensava ma non a sua figlia. Sapeva di averla lasciata in buone mani e non se ne preoccupava. Era eccitata per quel viaggio, chissà cosa le avrebbe riservato! Pensava che era anche un’occasione per conoscere gente nuova, vedere paesi sconosciuti e poi, avrebbe finalmente rivisto suo marito. Cercava di immaginarsi l’incontro ma se lo immaginava ogni volta diverso. Quando lo vedeva correrle incontro felice, quando lo vedeva steso su di un letto di un’infermeria. Allora diventava triste e si angosciava al pensiero. Ma lei era una donna positiva, non voleva  soffrire per ciò che ancora non vedeva. Voleva immaginarsi solo un bell’incontro. Era così che trovava la forza di procedere in quell’impresa. Era mezzogiorno ed era arrivata finalmente ai piedi del monte San Donato. Si fermò ancora sempre per far riposare il cavallo. Si fermò  per poco, mangiò due mele e bevve ad un torrente che correva vicino, lì bevve anche il cavallo. Ripartì sperando che il tempo non cambiasse. Cominciava ad alzarsi il vento e sapeva che quel vento era portatore di pioggia. La strada bianca era asciutta e il vento spolverava e lei si riempiva di polvere. Piano piano salirono e discesero tra tornanti leggeri tra alberi di castagno e querce. Cominciata la discesa il vento si calmò e il cielo si fece più chiaro. Il pericolo della pioggia per il momento era scongiurato. Comunque la strada era tutta un sali-scendi, erano pochi i tratti piani. Caterina continuava ogni tanto ad appisolarsi , adesso la schiena cominciava a farle male. Pensò fosse la posizione. Non aveva immaginato questo inconveniente. D’altronde era la prima volta che intraprendeva un viaggio così lungo;  non era ancora neppure all’inizio! Si fermò di nuovo nei pressi di S. Casciano. Poi s’impose di fare tutta una tirata fino a Firenze. Infatti quando arrivò a Firenze era ormai buio,il cavallo stremato e lei sfinita: Rilesse ancora una volta il biglietto che le aveva dato la Superiora e chiese indicazioni per trovare il Convento delle suore Carmelitane. Finalmente quando lo trovò era notte, lei era avvilita, stanca, ma non poteva far altro che bussare per avere un ricovero. Era stata una lunghissima giornata e sperava le offrissero un letto. Era distrutta. Appena aperto il portone la suora la accompagnò dalla Badessa che già sapeva del suo arrivo. Questa volta era arrivata la presentazione delle zio Prete. In quel momento era tanta la felicità che se lo avesse avuto davanti l’avrebbe baciato. Le fu assegnata una camerina piccola ma accogliente. Li avrebbe avuto anche modo di lavarsi per bene, accanto alla camera c’era un bel bagno. Quello era un convento importante. Quando il Papa passava da Firenze, lì riposava. Si sentì fortunata. Dopo una breve cena, si lavò velocemente e si coricò. Ora aveva solo sonno e tanto mal di schiena. Lasciò al domani tutti i pensieri  e si addormentò.                                                                                                                              Si svegliò al mattino che era giorno fatto. Si meravigli che non l’avessero svegliata le suore. Comunque approfittò per lavarsi per bene, si sentiva sporca, la polvere le era entrata dappertutto, pensò che avrebbe voluto lavarsi i capelli ma non avrebbe potuto. Scosse fuori dalla finestra il fazzoletto che formò una nuvola grigia di polvere. Non potè far altro che rimetterlo in testa dopo aver spazzolato  vigorosamente i capelli e raccolti in una treccia. Scese la scala piano, sperando d’incontrare una suora, avrebbe fatto volentieri colazione, ma forse a quell’ora sarebbero state in cappella a pregare. Invece le si fece incontro una suora giovane. Le disse che la Badessa era impegnata per poco, avrebbe dovuto aspettare un po’ per salutarla, però nel frattempo avrebbe potuto far colazione in cucina. Il refettorio ormai era già chiuso. Volentieri Caterina accettò. Le fu offerto il latte, ma con marmellata, pane e della frutta. Pensò come fosse diversa quella colazione da quella che aveva fatto a Siena. Mangiò abbondantemente. Poi si sedette ad aspettare nel corridoio seduta su una bella panca antica posta sul lato della parete accanto allo studio della Badessa. Trascorse una mezzora circa e la porta si aprì. Ne uscì una ragazza che pareva quasi una bambina , dopo di lei la Badessa. La ragazza pareva aver pianto. La Badessa aveva un’espressione pensierosa e triste. La Badessa fece sedere la ragazza che aveva un aspetto piuttosto trasandato e quell’espressione strana, come se avesse il cuore a pezzi. La Badessa la fece entrare nello studio. Caterina si guardò intorno. Era molto ben arredata con mobili antichi. Un’enorme scrivania con tanti libri accatastati e tanti fascicoli appoggiati dall’altro lato. La Badessa la fece sedere, Caterina, incuriosita dalla situazione, la guardava però non aveva il coraggio di chiedere cosa fosse accaduto. Sentiva nell’aria la tristezza, l’odore del dolore. Non ci fu bisogno che chiedesse. La Badessa sembrava aver letto i  suoi pensieri e cominciò a parlare. Quella ragazza tanto giovane aveva lasciato la sua bambina all’orfanatrofio all’Istituto degli Innocenti in piazza dell’Annunziata. Le spiegò che quella ragazza era venuta a lavorare presso una famiglia a Firenze da un paesino vicino a Venezia. Aveva incontrato un  militare si erano innamorati e da quell’amore era nata una bambina. Poi il ragazzo era stato richiamato alle armi ed era partito come tanti altri per il  fronte con la promessa di sposarla al ritorno dalla guerra. Poi la vita  e la sfortuna ci mettono sempre del suo e la ragazza aveva avuto notizie da un suo commilitone che il ragazzo era morto durante un attacco proprio sul Piave. La ragazza che aveva già la bambina non poteva più lavorare nella famiglia dove già era. Aveva preso la decisone di portare la bambina all’orfanatrofio e lei cercava adesso un lavoro per poter restare a Firenze per poter vedere la figlia almeno una volta ogni tanto. A parte il dolore, la poveretta non aveva proprio niente. Non avrebbe potuto tornare al suo paese perché si sarebbe allontanata dalla piccina. Ma i suoi padroni non la volevano più e si era andata a raccomandare  da lei affinché le potesse dare un aiuto raccomandandola presso qualche famiglia. Caterina ascoltava e si commuoveva al racconto e si metteva nei panni della ragazza. Che grande disperazione doveva avere nel cuore! Cominciarono a parlare lei e la Badessa. La ragazza aveva detto che il fidanzato era anche lui veneto e che aveva detto alla famiglia che al ritorno avrebbe sposato quella ragazza. Dunque un possibilità ci poteva essere se solo la ragazza avesse potuto conoscere quelli che sarebbero stati i suoi suoceri. Le due donne, non ci misero molto a fare due più due. Caterina sarebbe dovuta andare da quelle parti, non proprio ma avrebbe potuto fare una deviazione e accompagnare la ragazza al paese del fidanzato e vedere se le cose si potessero sistemare in qualche modo, per non lasciare la bambina all’Istituto e lei trovare un’altra famiglia. La decisione fu presa immediatamente. Caterina sarebbe partita in treno, avrebbe lasciato il calesse ed il cavallo a Firenze ed avrebbe accompagnato in treno la ragazza. Caterina era così istintiva, che non aveva in quel momento pensato affatto a suo marito e al desiderio che l’aveva spinta a partire per cercarlo. Aveva deciso che in quel momento era più importante che quella ragazza trovasse una famiglia e con la sua bambina si potessero sistemare. Fu così che Caterina, rivestita, pulita, capelli compresi, due giorni dopo con Lucia (era  il nome della ragazza) anch’essa ben vestita e curata, partì destinazione Venezia con il treno in terza classe. Non portarono la bambina con loro, volevano prima vedere com’era la situazione, alla bambina avrebbero pensato dopo. Partirono al mattino presto, il treno sarebbe arrivato a Venezia nel pomeriggio, poi avrebbero preso la corriera per raggiungere il paese del fidanzato. Così fecero. Durante il viaggio la ragazza pianse, era molto preoccupata, non sapeva a cosa andasse incontro, Caterina la rassicurava e fra se pensava “speriamo che non sia come mia suocera!” , Caterina era una ragazza di spirito, cercò di farla sorridere raccontando ogni tanto qualche episodio della sua vita, qualche cosa di carino per non farla pensare troppo. Le raccontò anche lei la sua vita e il perché fosse arrivata a Firenze e del desiderio di ritrovare suo marito. Avendo un carattere positivo, lei era certa che l’avrebbe trovato sano e salvo. Arrivarono a Venezia, presero la corriera e presto arrivarono al paese del fidanzato. Non sapendo a chi rivolgersi, andarono subito dal Parroco del paese. Lui ascoltò e individuò il ragazzo. Lui sapeva dai parenti  che il figlio era morto e che aveva una bambina ma non sapevano dove fosse. A quel punto, fu il Parroco a proporsi di accompagnarle presso la famiglia. Praticamente le aveva rassicurate, poi la sua presenza avrebbe facilitato le cose!!! L’incontro fu commovente e bello. La famiglia del fidanzato fu felicissima di accogliere la ragazza, così giovane e sola e si ripromisero di partire il prima possibile per Firenze per portare a casa la piccola. Erano felici, non avevano più il figlio ma un’altra filglia e una nipotina!! Caterina ne fu felice e la sua missione era andata a buon fine! Dettero ospitalità per la cena e la notte anche a lei che al mattino riprese il suo tragitto alla ricerca del suo uomo. Fu fortunata, tramite l’interessamento di un Colonnello presentatole dal Parroco, il giorno dopo seppe dove fosse suo marito. Era vivo, ma ricoverato per una scheggia che gli aveva perforato una gamba.  Fu il Colonnello stesso che volle accompagnarla con la camionetta all’ospedale da campo dov’era il marito. Quando Caterina lo vide steso sulla branda, non stette in se dalla felicità. Giulio non credeva ai suoi occhi. Conosceva il carattere della moglie ma mai si sarebbe immaginato che se la sarebbe trovata davanti così all’improvviso. Poi così lontano da casa!!! Le infermiere portarono un paravento per dar loro un po’ più di riservatezza. Si raccontarono tutte le esperienze passate, lui sul fronte e lei a casa e durante il viaggio. Caterina rimase qualche giorno, poi il Colonnello fece in modo che Giulio tornasse a casa per rimettersi. Ovviamente sarebbe poi dovuto ripartire per il fronte ma intanto dava loro un po’ di tempo per stare insieme. Tornarono a casa in treno, lui riabbracciò la sua piccina, i suoi parenti riaccettarono di nuovo in casa Caterina perdonandole  quella partenza. La mamma Maria dovette ingoiare il rospo e Caterina ebbe partita vinta. Finché poi Giulio dovette tornare al fronte ma per poco tempo che poi dopo pochi mesi la Guerra fu dichiarata finita e Caterina al suo rientro gli presentò il nuovo bambino che era nato nel frattempo.

Questa è una bella storia, una delle tante finite bene, purtroppo non sempre tutte le storie terminano con un bel finale così!


IL VIAGGIO

Salita sul treno , si sentì particolarmente tesa, tirò fuori dalla valigetta un libro e cominciò a leggere. All’improvviso le passò per la mente che il Console sarebbe stato certamente nero. Non si dichiarava mai razzista , ma in certe circostanze non aveva potuto far a meno di rilevare certe sue incertezze. Odiava i lavavetri, se li trovava sempre ai semafori e non sopportava la loro continua insistenza, non sopportava i marocchini che a tutti gli angoli si trovava difronte a offrirle chincaglierie varie senza desistere al primo no. L’irritava quella loro determinazione , a volte rasentava l’insolenza. Eppure lei era sempre pronta a dare, ai vari centri tumori, per gli orfani, ai vecchini per la strada. Si ricordò di quella volta sull’autobus quando appoggiò la mano al ferro di sostegno e sotto la sua sentì qualcosa di viscido , freddo e s’accorse che sotto la sua c’era una mano nera. Si ricordò che istintivamente ritirò la mano e quella sensazione le restò in mente per molto tempo.
A Livorno salirono cinque persone che finirono di occupare tutto lo scompartimento, erano tutti di colore, due coppie e un giovane con gli occhiali che si sedette difronte a lei . Il treno riprese la sua corsa ma di li a poco si fermò fuori da una qualsiasi fermata. Alessandra pensò ad un piccolo inconveniente.La comitiva che era salita parlava animatamente un po’ in lingua e un po’ in un italiano un po’ storpiato. Parevano non accorgersi neppure della sosta forzata. Trascorse molto tempo ,Alessandra si alzò, cercò un conduttore, un capotreno, ma pareva che tutti si fossero dileguati nel nulla. I suoi compagni di viaggio tirarono fuori dei panini e dell’acqua minerale da degli zaini e cominciarono a mangiare senza dimostrare preoccupazione per la sosta. Era una giornata particolarmente calda ed Alessandra cominciava ad avere una gran sete. Cercò un vagone ristorante ma il treno non ne era provvisto non c’era neppure il servizio bar ed Alessandra moriva di sete. Pensò che per natura loro il caldo e la sete non la soffrivano così tanto come lei erano abituati a ben altro! Però veder mangiare e bere quella comitiva l’irritava ancora di più. Questo viaggio cominciava a pesarle , Nessuno si preoccupava di quella sosta , non avrebbe inciso sul suo appuntamento perché era stato fissato per le ore 21 e per quell’ora certamente sarebbe arrivata a Torino. Affacciata al finestrino nel corridoio , alternava una sigaretta ad una mentina cercando di sfruttare quel poco di vento che arieggiava dal finestrino. Ad un tratto si sentì toccare la spalla,era uno di quei ragazzi del suo scompartimento, quello con gli occhiali che le porgeva un bicchiere di carta con dell’acqua e un panino . Avrebbe voluto rifiutare, ma la sete e la fame erano tali che non potè far a meno di allungare la mano. Prese il bicchiere e sfiorò le dita dell’uomo, poi allungò l’altra mano e se la trovò tra le dita lunghe e nere di chi le porgeva quel panino. Fu un attimo e notò che non erano viscide e fredde come quelle che lei ricordava. Si rese conto di non aver guardato in viso l’uomo e per questo si sentì in colpa. Rientrò nello scompartimento e cominciò a mangiare . Gli altri la guardavano e ridevano parlando nella propria lingua. Ora era lei che si sentiva diversa, per questo provò imbarazzo ma sorrise e ringraziò di nuovo. Il treno non accennava a muoversi ma Alessandra non si sentì più così arrabbiata. Quel ragazzo con gli occhiali le si sedette difronte e guardandolo notò che non era poi tanto nero,aveva dei lineamenti forti, una fronte spaziosa, il naso non particolarmente largo e labbra carnose che racchiudevano denti bianchissimi e perfetti. L’uomo la guardava ed accennava un sorriso,lei si trovò a ricambiare. Tutti e due ricominciarono a leggere . lui aveva un gran libro di pelle marrone, lei non riusciva a leggerne il titolo. Finalmente dopo un po il treno riprese la sua corsa lentamente. Cominciarono le gallerie , ad una di queste il dirimpettaio di Alessandra si alzò, sobbalzò e le sfiorò il braccio, ritornò la luce e lui che si era soffermato un attimo, si scusò. Aveva riposto il suo libro sulla retina e si era sbilanciato. Erano stati aperti i tavolini retrattili sotto il finestrino e alla galleria successiva Alessandra appoggiò il suo libro e si trovò a sfiorare le mani dell’uomo difronte. Lui le prese tra le sue, le strinse piano e lei sentì una sensazione di calore che durò poco, fu solo la sollecitazione delle dita lunghe di lui sul palmo di lei . Quella sensazione la invase tutta e sentì un tremore strano percorrerla. Tornò di nuovo la luce e quell’uomo si era tolto gli occhiali. Lo guardò negli occhi , erano bellissimi, neri e profondi, parevano sorridere . Le gallerie si susseguivano sul litorale ligure e ad un tratto Alessandra non vide più difronte l’uomo ma lo sentì vicino, si era seduto accanto a lei. Nell’intercalarsi del buio e della luce sentì la sua mano sfiorarle il viso, scendere sul collo e risalire piano, era una sensazione eccitante e al tempo stesso sensuale.in quel momento, lì c’erano solo lui e lei. Alessandra aveva avuto diversi amori, anche molte passioni , ma una sensazione come quella che stava vivendo non l’aveva mai provata. Quelle carezze calde, così leggere…..La luce del giorno andava e veniva e lei si sentiva attratta da quella persona che non conosceva e desiderava ancora quelle carezze quasi rubate tra una galleria e l’altra. Poi fu ancora buio e sentì di desiderare quelle labbra morbide su di se che le sfioravano il collo la fronte e le sue mani tremavano. Alla luce Alessandra si distaccò e si avvicinò al finestrino senza parlare. Si sentiva confusa, indifesa. Le era piaciuto molto quel contatto. Rimase a guardare fuori dal vetro senza voltarsi, vedeva quel viso riflesso sul vetro e non le pareva più uno sconosciuto. Alessandra continuò a guardare fuori e l’uomo pisolava al suo fianco. Arrivarono a Torino e Alessandra si precipitò in albergo, aveva giusto il tempo di riordinarsi un po’ e prepararsi all’incontro con il Console. Nella sala delle riunioni dell’albergo cercò il suo interlocutore e notò molte persone di colore tra tante bianche. Conobbe altri giornalisti, molti invitati; riuscì a fare la sua intervista che non fu molto lunga visto la lista degli appuntamenti del Console le furono concessi 30 minuti. Si trovò a cercare tra quei visi il volto dell’uomo del treno, ma di lui le restò solo il ricordo. Al rientro si accorse che di tutte le persone che aveva conosciuto si ricordava la carica, la provenienza ma non valutava più il colore. Il colore della pelle adesso le era indifferente. Ripensava spesso a quell’uomo in treno , purtroppo quel treno per lei non aveva più fermate……..


L’INQUILINO

Era li distesa su quel prato asciutto, alla fine di un’estate ingenerosa dove i giorni caldi e appiccicosi si erano alternati ad altri ombrosi, afosi, quando anche il respiro era fatica nonostante la solita brezza che si svegliava puntuale tra le cinque e le sei del pomeriggio. Allora, le acque a poco a poco si increspavano, i natanti tornavano alla riva e il lago si svuotava dagli estranei. Era l’ora che le folaghe , i gabbiani riprendevano i loro giochi e i pescatori arrivavano sulle barche a stendere le reti per la pesca della notte e l’ultimo battello terminava la sua corsa. Con gli occhi socchiusi guardava quello specchio d’acqua che bizzarro cambiava colore al mutare del cielo, al mutare del vento, al trascorrere delle ore. In quel momento a riva l’acqua era torbida, fangosa, mentre vicino all’isola il colore verdastro diventava più scuro tanto da confondersi con le coste, con i monti intorno che lo cingevano come in un abbraccio. Quanti ricordi le venivano alla mente! Da bambina suo padre la portava li qualche pomeriggio a trovare un po’ di refrigerio dalla calura estiva. Facevano il bagno e un giorno si accorse che gli occhi di suo padre rispecchiavano il colore del lago. Erano di un celeste chiaro quasi trasparente. Da quel momento il colore celeste l’abbinò alla felicità perché in quel momento si era sentita felice. Fu un attimo e il pensiero corse ad un’altra estate, le riportò alla mente il celeste del mare di Sicilia. Non era più bambina, era una donna. Ne erano passati di anni ed ora le tornavano in mente cose che aveva dimenticato o forse inconsciamente aveva voluto dimenticare. Aveva trascorso un anno disastroso in cui tutta la sua vita era andata a rotoli. Il suo compagno sul quale aveva riposto i suoi sogni, le sue speranze, al quale aveva dato una figlia l’aveva fatta vivere in un incubo. L’aveva tradita, ma non era stato solo il tradimento, la delusione, l’orgoglio ferito, il crollo della sua autostima. Erano state le discussioni, le amarezze per le angherie subite. Le minacce, le violenze fisiche, le umiliazioni pur di salvare un rapporto che era ormai naufragato era stata disposta a tutto. Aveva in un primo tempo fatto finta di non vedere. Quello era il suo secondo rapporto, era già stata sposata dieci anni prima e dal matrimonio era nata una figlia. Quella figlia che in quel momento le dava la forza di troncare un rapporto sbagliato che le faceva solo soffrire. Aveva avuto di coraggio per non far degenerare oltre la situazione. Fu forse anche l’impegno di suo fratello che un giorno finalmente lui se ne andò di casa portandosi via tutto. La lasciò nella disperazione più assoluta. Le rimase una casa in affitto, le bollette da pagare e due figlie. Si portò via oltre ad i libri, i quadri ed altre cose, anche il televisore e gli armadi. La sua mente era talmente sconvolta che la sera per dormire si coccolava con un bicchiere di vino. Però sera dopo sera i bicchieri diventavano sempre di più. Una mattina si accorse che le restava difficile andare in ufficio, non aveva dormito nonostante il vino e i problemi non sparivano, anzi. Si sentì inadeguata. Era comunque una madre e quella era la cosa più importante. Aveva un buon lavoro, due figlie meravigliose e poi anche i suoi genitori avrebbero capito prima o poi. Era il mese di Maggio, aveva fatto fronte alle bollette da pagare e in casa non era rimasto niente per mangiare. Ricorse alla Banca per un prestito, ma le fu concesso poco, aveva già impegnato lo stipendio per comprare l’armadio e il televisore. Si confidava con l’unica amica che aveva, una sua collega. Una mattina proprio questa collega le prospettò la possibilità di affittare una stanza ad un trasfertista. Era un collega che veniva da Palermo e cercava una camera per trascorrere ancora tre o quattro mesi a Firenze. Alloggiava al Dopolavoro, ma era già un mese e oltre non sarebbe potuto trattenersi. Quando le fu proposta la cosa, non la considerò più di tanto in quanto innanzitutto lei non poteva subaffittare e poi ad un uomo, figuriamoci, dopo quello che aveva vissuto non era il caso di alimentare altre chiacchiere nel palazzo. Avrebbe rischiato lo sfratto e poi con due figlie, una di 12 anni e una di 4 era impensabile. Trascorse una settimana e la situazione economica peggiorò. Arrivò il conguaglio condominiale e in casa non era rimasto niente da vendere quel poco che era rimasto se lo erano portato via i ladri una mattina. Si sfogò di nuovo con la collega che le ripropose la soluzione, in fondo era per poco tempo, forse gli altri inquilini non se ne sarebbero neppure accorti.. Quella mattina stessa, mentre erano al bar a fare colazione entrò un collega in compagnia di un tipo. alto, moro, piuttosto bello. Fecero le presentazioni e tornarono nella propria stanza. Quando arrivò a casa parlò con la figlia più grande di quell’opportunità. La ragazzina era giovane, ma avendo vissuto tutti i problemi era più matura della sua età. L’idea di affittare una camera non le dispiacque affatto, vide in questo la soluzione momentanea dei loro problemi economici. Arrivata al mattino in ufficio, la collega la mise in contatto con il ragazzo e fissarono per incontrarsi nel pomeriggio ai giardini davanti all’ufficio. Il ragazzo fu gentilissimo, l’invitò a prendere un caffè al bar d’angolo, si accordarono sulla cifra e concordarono due mesi anticipati. Quei soldi erano la salvezza. Quel ragazzo si chiamava Giuseppe. La sera stessa il giovane vide la casa e la sua stanza. Vi si trasferì il giorno seguente. Era stato avvisato che le bambine avevano sempre tanti compagni di scuola che entravano e uscivano da casa, a volte restavano a cena, certo in casa c’era sempre un po’ di confusione. Avrebbe dovuto cenare in tempi diversi dai loro, invece dopo poche sere, volle cucinare una pasta alla siciliana , non solo, cominciò a fare la spesa per tutti, tutti i giorni. Visto che il giorno mangiava alla mensa, chiese se poteva cenare la sera con loro perché si sentiva solo e non aveva amici. Fu tanto convincente che non poterono che accettare. Ma poco a poco cominciarono col guardare la televisione quando le bambine erano a letto, iniziarono a confidarsi, lei aveva ancora dei problemi con l’ex compagno, spesso le telefonava e la minacciava, probabilmente aveva saputo dell’ospite e non digeriva la cosa. Una sera a ora di cena suonò il campanello e con la scusa di riprendersi dei dischi, colse l’occasione ancora una volta per alzare le mani, ma dalla cucina usci Giuseppe che con fare deciso lo mise alla porta e da buon siciliano fissò un incontro ai giardini per il giorno dopo. L’incontro chiarificatore ci fu, Ernesto, l’ex, chiese scusa per il suo comportamento scorretto giustificando un probabile tumore al cervello che ogni tanto lo faceva sragionare. Scuse accettate e da allora il comportamento dell’ex,che continuò a chiamare per l’impegno di occuparsi della piccina al sabato o la domenica, fu completamente diverso, certamente più adeguato. Poi col tempo, fu accertato che non esisteva nessun tumore tantomeno al cervello, ancora è vivo e vegeto e felicemente (si spera) sposato. Eh, Giuseppe Giuseppe, la signora depressa, disperata, sola, si sentì sempre più attratta da lui, le pareva sempre più carino e poi per dirla tutta era proprio bello. Aveva il tono della voce che dava sicurezza, parlava con poco accento siculo. Vestiva con eleganza, aveva già qualche capello bianco sulle tempie aveva la stessa età della signora 33 anni. Ogni tanto Giuseppe partiva per Palermo per pochi giorni, quando era lontano telefonava spessissimo, sia in ufficio che a casa. Le bambine erano affascinate dai suoi discorsi, raccontava tante storie,restavano ad ore ad ascoltarlo la sera in salotto, anche la madre ascoltava volentieri e piano piano si rendeva conto che quel tipo la faceva sentire viva. In ufficio si salutavano appena, non volevano far nascere delle inutili chiacchiere. Una domenica la figlia più grande era dal padre e con la piccola presero la macchina ed andarono a trascorrere una giornata in un parco a pochi chilometri da casa. Fu una giornata bellissima, alla sera tutti riuniti a tavola ebbero la sensazione di essere come una famiglia. Anche la signora, si accorse che quello che aveva inteso essere affetto, protezione, stima e simpatia cominciava invece ad essere qualcosa di più importante. Fu quella sera, dopo che le figlie andarono a dormire, restarono in salotto a parlare e finirono in camera nel lettone. iuseppe dovette di nuovo ripartire per Palermo e questa volta rimase un po’ di più. Continuò comunque a telefonare tutti i giorni e al ritorno portò regali per tutti. Gli fu preparata una bella cena, fu messa in tavola anche una tovaglia nuova. Il rapporto continuò, era bello per tutti vivere quei momenti di tranquillità, però sia la signora che Giuseppe più che altro Giuseppe, sapevano che non sarebbe durata. Si confidò dicendo che i suoi genitori non avrebbero mai accettato una situazione del genere,ma la signora se lo immaginava, voleva solo vivere quei momenti felici, senza porsi troppe domande. Arrivò da Palermo un amico di Giuseppe che la settimana seguente fece arrivare moglie e due figli. Furono tutti ospitati a casa dalla signora, avendo tre camere e un divanoletto, non c’era problema di posto. Quando ripartirono dopo una settimana, vollero la promessa di una visita in Agosto. Giuseppe partì i primi del mese di Agosto e la signora si preparò a partire il 14 con la figlia più grande. In cuor suo, forse pensava che quel viaggio avrebbe potuto cambiare la sua vita. Partirono il 14 ed arrivarono il 15 di Agosto, alla stazione non c’era Giuseppe, ma Mario, l’amico che le portò direttamente in campagna dove avevano una casa. La strada fu lunga, viaggiarono per tre ore, arrivarono nel centro della Sicilia, non videro mai un albero, solo terra bruciata dal sole. Incontrarono muli con la soma carica di paglia. All’arrivo furono accolte da tanti parenti che per l’occasione si erano riuniti. Purtroppo mentre cuocevano le bistecche sulla griglia in giardino, una scintilla di fuoco innescò un incendio che velocemente bruciò tutte le sterpaglie intorno, delle baracche di legno e attaccò i pochi alberi che c’erano. Arrivarono i pompieri, ma troppo tardi. Dalla cannella non usciva acqua, i forestali usarono frasche per contrastare le fiamme. Fu il giorno di Ferragosto che non scordarono mai. Quel giorno non pranzarono, la casa si era salvata grazie al marciapiede di cemento che la circondava per diversi metri. Alla sera furono invitati dai vicini e fecero festa. Trascorsero tre giorni sereni. La figlia si divertiva con i tanti giovani del posto e la signora con Mario e Santa andavano in paese alla sera a prendere un gelato. Il quarto giorno decisero di tornare a Palermo e lì riapparve Giuseppe. Giustificò la sua assenza con impegni di lavoro imprevisti. Restò a cena, ma rimase poco e lasciò la comitiva dopo aver cenato. Mario in cucina parlava con Santa, il dialetto siciliano non era di facile comprensione e poi parole dette sottovoce quasi incomprensibili, la signora capì che c’era qualcosa che non andava. In quel momento pensò che lei e sua figlia erano di troppo, avrebbe voluto partire il prima possibile. Trascorse la notte e al mattino Mario le svegliò con la briosce con il gelato. Era andato in gelateria per portarlo fresco. Quella era una vera gentilezza. Decisero di fare una gita all’Isola delle femmine , Giuseppe era della comitiva. Partirono verso le 10 e trascorsero la giornata in barca, fu meraviglioso, le signore del continente videro paesaggi meravigliosi, archi naturali, grotte, e il mare di un celeste incredibile. Acquistarono da pescatori del pesce, tanto pesce per la cena. Al ritorno però Giuseppe dovette assentarsi per motivi di lavoro. Mario non prese bene la cosa e quando furono dopo cena in terrazzo accennò una frase che la signora non capì bene. Recepì però l’insofferenza di Mario e di Santa verso il comportamento di Giuseppe. Aveva comprato tanto pesce, ma non era rimasto a cena. La signora pensò che forse sarebbe stato meglio ripartire prima possibile, restò sola la sera tardi e appoggiata al balcone cominciò a piangere, non riusciva a capire in quale situazione si fosse cacciata. Giuseppe era stato quasi inesistente, le aveva ospitate Mario e chissà se Santa era veramente d’accordo! I ragazzi erano usciti tutti insieme, era già tardi, Santa si avvicinò e le accarezzò i capelli, le disse che nulla è come appare, a volte le circostanze impongono comportamenti che paiono strani ma che sono inevitabili. A queste parole la signora non seppe come reagire, restò ancora in terrazzo finché i ragazzi non rientrarono e poi si coricò. Al mattino Giuseppe chiamò per invitarli la sera a cena in un posto speciale. Andarono solo loro quattro adulti. La cena era a base di pesce, in un castello bellissimo. C’era anche la musica. Un pianista suonava in continuazione . La cena fu speciale e speciale fu il dopo cena. Salirono sopra nella torre. Le luci soffuse facevano risaltare il riflesso del mare. C’era la luna, il faro illuminava fino all’orizzonte. Era tanto speciale quella serata che la signora capì che era l’ultima. Non ci sarebbero state altre serate, Giuseppe non sarebbe più tornato a Firenze, per la signora era davvero l’ora di partire. Così fu, la parentesi di Palermo si era chiusa. Ma la signora ne ebbe certezza quando verso Ottobre Mario tornò a Firenze per una trasferta di pochi giorni. Giuseppe all’inizio chiamava tutti i giorni, poi le telefonate si diradavano e aveva sempre una scusa pronta per giustificarsi. Alla richiesta di come stava Giuseppe, Mario non dette risposta, restò vago, non erano più amici tanto stretti, il lavoro li aveva allontanati. Verso Natale, arrivò da Agrigento un anziano signore, la signora se lo trovò alla scrivania di fronte alla sua una mattina. Era un tipo strano, portava la coppola, ma era gentile e rispettoso. Pareva conoscesse tutta la Sicilia. Una mattina, dopo il caffè le disse: Si ricorda di Giuseppe, quel ragazzo di Palermo? ho visto sul vetro della biglietteria un annuncio ai colleghi, si sposa tra poco, d’altronde era fidanzato da tanto tempo! Pareva che quel vecchio sapesse molto di più, ma non disse altro, la invitò a prendere un caffè, parlarono di qualcosa e il vecchio dopo pochi giorni sparì. Giuseppe lasciò un vuoto nel cuore della signora, ma stranamente non provò ne rancore ne rimpianto. Quell’inquilino si era servito di lei per vivere in una città che non conosceva e a lei era capitato,l’aveva aiutata ad uscire da una situazione disastrosa e da una tremenda depressione, aveva ricominciato a volersi bene per essere più bella. Aveva ritrovato la sua sicurezza. Forse , ad un certo momento aveva pensato di potersi innamorare, ma la paura l’aveva frenata. Quella sera, l’ultima a Palermo aveva capito quello che già sapeva. La sua vita sarebbe stata a Firenze con le sue figlie e quella parentesi doveva usarla per crescere e di quell’estate avrebbe ricordato il colore del mare, il profumo delle zagare e la schiuma della scia della nave che riporta al continente, alla terra ferma; come ferma sarebbe stata la sua volontà di riprendersi in mano la vita e da sola ricominciare con la certezza di potercela ancora fare.


UNA DONNA , UN MOMENTO

Sono passati tanti anni e nell’invecchiare si ripercorre i momenti che forse avevamo voluto dimenticare, forse per la troppa sofferenza che ci avevano procurato.
Avevo da poco passato i trent’ anni. Erano giorni bui,è vero, avevo un lavoro sicuro ma anche due esperienze sbagliate alle spalle. Una forse cercata e non subita, l’altra subita ed affrontata con tanta forza. Tutta quella forza poi se n’è andata. E’ l’effetto di una grande emozione che lì per lì affronti e poi passato il momento, cedi e ti crolla tutto il mondo addosso. Allora i giorni sono grigi, al lavoro sei stanca non trovi motivazioni eppure devi fare il tuo dovere senza pensare ai colleghi. Quanto torni a casa ti ritrovi da sola. Però ci sono due ragazzine che aspettano da te tutto. Loro hanno bisogno di te, delle tue attenzioni, di confidarti i loro problemi anche se piccoli e tu le devi ascoltare. E’ a questo punto che ti pare di non essere abbastanza brava per nascondere a loro le tue emozioni. Ma lo devi fare, loro senza di te, dei tuoi consigli rischiano di perdersi e tu, quando parlano a volte non le senti. Rispondi e chiedi, ti accorgi che la tua mente non c’è, eppure devi essere presente. Questa è già una sofferenza. La notte non riposi più. Se ti addormenti dopo aver letto qualcosa o scritto qualcosa per scaricarti un po’, ti svegli all’improvviso con incubi tremendi che non ti fanno più dormire e i giorni passano. Il tuo sonno non è più regolare e tu al mattino sei più stanca della sera prima quando sei andata a dormire. In ufficio ti pare di esser osservata, giudicata. Hai paura di parlare dei tuoi problemi per non essere considerata una persona un po’ strana. Ne andrebbe della tua serietà. Ma più tempo passa e più ti senti persa.
Successe una sera,mentre scrivevo, mi versai un bicchiere di vino, era il terzo. Due ai pasti me li concedevo sempre. Quel bicchiere mi dette la spinta che volevo. Scrissi un po’, poi lessi poche righe e mi addormentai. Pensai al mattino che avevo trovato il rimedio alla mia insonnia, ai miei incubi. Seguirono sere che restavo alzata fino alle una passate e poi solite due pagine di libro e le mie notti erano più tranquille. Mi alzavo al mattino piena di energie e recuperavo la vitalità per affrontare una giornata di lavoro. Ed è questo l’errore. Pensavo che un bicchiere in più mi potesse servire per conciliare i miei problemi. Sono passati i giorni, le settimane e da tre bicchieri sono passata a qualcuno di più. Finché una sera per andare a letto barcollai, trovai il letto a tastoni e mi addormentai vestita. Al mattino la testa mi faceva male e non riuscivo a concentrare i miei pensieri. Io che al mattino organizzavo la giornata, quella mattina non riuscì a organizzare proprio niente. Non mi ricordo cosa dissi alle ragazze prima di uscire di casa, non mi ricordo come sono andata alla fermata dell’autobus. Non mi ricordo niente di quella giornata. La sera dopo lo feci di nuovo, però riuscii a spogliarmi. Seguirono diversi giorni, cercavo di dosare il vino tanto per non esagerare. Mi ricordo però di una collega. Era l’ora di colazione e come sempre venne a chiamarmi. Generalmente eravamo in diversi colleghi. Quella mattina venne un po’ in anticipo, eravamo sole io e lei. Prendemmo il caffè, non mangiavo al mattino, spesso avevo la nausea, un caffè era sufficiente, lei invece prese una pasta ed un caffè. Ci mettemmo in disparte al bancone del bar. Lei era delicatissima, io l’avevo già inquadrata nella mia mente come una persona speciale, diversa da tutte quelle che erano in quell’ufficio. Prima parlammo del più e del meno, poi quasi in punta di piedi entrò nella mia vita. Con lei mi era facile parlare, dirle i miei problemi. Lei mi raccontava i suoi. Avevamo capito che forse la nostra reciproca simpatia sarebbe potuta durare nel tempo perché era solo piena di sincerità e di riconoscenza da parte mia per aver trovato una persona tanto sensibile e da parte sua un’amica leale e non solo una collega . Lei si era accorta del mio cambiamento e me lo fece capire senza drammatizzare. Capii che lei aveva avuto problemi più importanti dei miei e lei riusciva a sorridere tutte le mattine come se il resto dei suoi pensieri fossero restati a casa dietro il portone mentre io me li portavo addosso come macigni. Mi resi conto che quei bicchieri di troppo mi toglievano la lucidità per affrontare la mia vita. E la vita non accetta compromessi, o ti dai a lei interamente o ti frega. Non mi potevo permettere di giocarmi le ragazze, il lavoro e poi…un’amicizia come quella! Una volta avevo tanti amici, almeno credevo, perche poi al momento in cui il mio compagno se ne andò, come per incanto persi anche le amicizie. Ho realizzato allora che quegli amici erano soltanto suoi e come lui si erano dileguati. Quando avevo dubbi su come risolvere qualche problema la consultavo e lei mi rassicurava e quando mi parlava ritrovavo nelle sue parole quelle di mio padre. Mi fece tornare in mente quello che lui usava dirmi da ragazzina nel caso avessi dovuto prendere decisioni e non avessi saputo quale strada scegliere “Prendi un foglio dividilo a metà. Nella prima scrivi i pro , nella seconda i contro, ragiona sempre come se il problema fosse di un’altra persona affrontalo con sincerità e poi troverai la giusta risposta ai tuoi dubbi e deciderai per il meglio” . Una sera lo feci veramente. Mi resi conto che stavo sbagliando tutto, innanzitutto dovevo lasciarmi alle spalle tutto il passato le cose brutte e le belle. Ricominciare a vivere come se ogni giorno fosse il primo. Dovevo essere la donna forte quale mio padre mi considerava. Dovevo essere per le mie figlie la mamma, l’amica e il padre che era restato sempre nell’ombra. Con che occhi mi stavano guardando adesso quando mi vedevano distratta,stanca avvilita! Come potevo essere il loro punto di riferimento se io per prima non credevo in me stessa? Fu un duro esame di coscienza ma presi la forza da loro e ricominciai. Innanzitutto volli chiarire la situazione. Una sera a cena affrontai il discorso e quella sera furono particolarmente attente. A voce alta ammettevo tutti i miei errori anche se sapevo di rischiare di non essere capita vista la loro giovane età. Invece quando ebbi detto tutto, mi abbracciarono e piangemmo, io dalla felicità della certezza del loro amore e loro, mentre mi abbracciavano mi facevano promesse di amore. Non fu tanto facile, ma il loro amore era tanto forte che mi ci sono aggrappata come fosse la mia ancora di salvezza. E’ stata la cosa giusta. In poco tempo mi dimostrarono la loro vicinanza e la loro fiducia tanto che spesso invitavano a pranzo qualche amica che aveva piccoli problemi con i genitori e volevano che le aiutassi a risolverli. Chi l’avrebbe mai detto che adesso la loro madre potesse prendersi cura anche dei problemi delle altre ragazze? Era un segno di grande stima nei miei confronti. S’era instaurato un rapporto speciale tra di noi. Adesso eravamo veramente una FAMIGLIA. Noi tre insieme contro tutti i problemi da affrontare giorno dopo giorno. Alla domenica prendevamo la macchina ed andavamo in giro senza una meta precisa per le campagne di Firenze, a volte per la schiacciata a volte per un gelato. Mi ero persa e poi ritrovata. Ho cercato di non pensare al passato ma nei momenti più neri riaffiorava come un’ombra nera nella mia vita. Ho avuto diversi momenti di depressione ma avevo vicino loro e con il loro amore riuscivo a superare e a riprendermi. A volte avevo il senso di colpa perché mi pareva che mi curassero come una bambina , con tanta dolcezza e delicatezza. Ricordo una volta una frase di mia madre: “come hai fatto, le tue figlie ti amano,si amano e ti stimano tantissimo!”. Avrei dovuto rispondere “Con tanto tanto amore e dedizione”.E poi come spiegare dell’amica del babbo, di tutto…..?