Poesie
Stazioni
Seduta
alla stazione
di una gracile città
ancora spenta
Mi perdo
tra le linee infinite
di saldi binari.
Binari fioriti,
paesaggi autunnali.
Cadono
stanche,
curiose,
le foglie,
sospinte dal vento,
dal tempo.
Io attendo
pensosa
il mio treno,
guardando quel lento cadere
pensando a quel volo che è un po’
il mio salire sul treno;
e perdermi
in paesi lontani,
profumi remoti,
nel dolce calore
di luci di case di altri;
quel volo incerto
che è un po’ il mio incedere,
stanca,
nelle stazioni,
un po’ la fantasia che rincorre i binari,
come la foglia che insegue la terra
che l’ha partorita.
A terra le foglie,
io qui sul treno.
Ai miei piedi è ormai pieno di foglie,
io continuo a cercare stazioni.
Septembre en attendant
Guardami.
Ascolta
questi mesi passati a cercarci
nell’indirizzo di cartoline,
nel suono delle promesse,
nel rimbombare del vuoto
di passi di altri.
E’ lì
che ho trovato
la foto di una mare a settembre.
Era la barca di
un pescatore che aspetta,
paziente,
la sua alba lontana.
Mi chiedesti,
una volta,
cos’era settembre,
che ti faceva paura quel mese silente,
ti faceva paura
ricominciare.
Settembre è quel pescatore che dorme,
il sole che torna,
il mare che tace.
Leggende
Conobbi un signore
che parlava nel vento.
Sedeva per giorni sulle rive del mare.
Diceva di cose mai viste,
paesaggi lontani.
Credeva a un passato di glorie
e certezze.
Parole eleganti e inconsuete
con lui sussurravano forte
sul mare.
Gli chiesi perché lo facesse,
chi fosse.
Domande di rito.
Mi disse soltanto
che era uno
a cui piaceva raccontare.
C’è un lido nascosto dove
la terra profuma d’antico.
E’ la che il vento sussurra
le migliori leggende.
Canzoni
Varranno un giorno
tutti questi chilometri
e le file ad aspettare
che il tempo si spicci.
Varranno un giorno
le ore
scivolate inconsapevoli
nel carico di anonime stive,
nel vuoto di corridoi asettici,
nel mito di tornare.
Allora ci ritroveremo
e sarà semplicemente bello,
bello come è sempre stato.
Saremo gli eroi delle nostre storie,
compagni che credevamo passati per sempre
sulle corde della nostra chitarra,
allora nuova.
E a cantare saranno loro,
le nostre strane storie.
Note bizzarre.
Saremo increduli nell’ascoltarle.
Alba
Riflessi che si intrecciano
sullo specchio mellifluo
di un rigagnolo scuro.
Luci che rincorrono
mosaici colorati
di un cielo senza pace
che piano si immerge
nell’alba di un “buongiorno”.
Com’è bello dir “maravilloso”
Dicono che parlare
sia una cosa semplice.
Pensano che la lingua
sia solamente pratica.
Io credo che certe parole
siano piuttosto una questione di cielo;
che mare non lo puoi dire
se mai ti sei fermato
a sentire il silenzio
di un’alba di agosto,
se mai hai creduto
a quel reiterato tentativo del sole
di dare il buongiorno
al suo più vecchio amico;
e “les étoiles” sono solo un ammasso
ammassato di lettere,
se mai hai avuto pazienza
per guardarle cadere.
“Maravilloso”
è un concetto difficile da pronunciare;
tutta una questione di liquide,
il costante tentativo di stupire.
“Maravilloso”
è saper dire mare
ed étoiles insieme,
vederle sorridere,
saperle abbinare.
“Maravilloso”
Lo pronunci solo se ti appartiene,
se lo cerchi e poi lo trovi
in un momento,
nell’angolo remoto di un ricordo,
di una data,
di un sorriso.
“Maravilloso” è una parola che sanno dire in pochi.
“Maravilloso” è la parola più difficile da pronunciare.
Onde
Come specchiarsi nella spuma di mare;
per un attimo
essere
e poi
divenire.
L’America nel tuo sguardo
Insegnami ancora a chiamare il sole,
a invocarlo come tu solo fai.
Usi una lingua che è dolce
come il sapor della terra,
tua come i sassi della corrente.
Profuma di vento, di antico;
di spiagge lontane e canzoni passate.
“Canzoni non dette”,
mi dicesti così;
ed era solo un pretesto
perché le potessi cantare,
perché anche io, a mia volta,
quella notte,
avessi qualcosa da farti ascoltare.
Chiedimi ancora chi sono,
cosa faccio,
come penso.
Ti nutri di idee e opinioni
come di miele e sogni i bambini;
diversità è per te passione
indiscussa e salda certezza.
Parli veloce, veloce passi.
Di strada in strada, con piedi leggeri.
Non fai rumore.
Sai ascoltare con gli occhi,
amar con pazienza.
Ti piace aspettare.
Nuove storie, nuove labbra,
altre idee;
le cerchi a ogni angolo senza affrettarti,
lungi è da te il desiderio smanioso di trovare.
Conduci i tuoi anni come
il pastore il suo gregge;
hai fiducia nei fiumi e nei campi,
nell’alternarsi delle stagioni.
Il cammino ti è caro
ma non segui una strada.
La strada finisce, ha una meta precisa;
tua unica meta è sfuggirla,
viaggiare.
Vieni dall’oceano, dal nord.
Sei figlio di un vento che
ti è padre e compagno.
E’ a lui che appartieni.
Ne farai la tua vita,
di questa curiosità martellante.
Vedrai luci persone paesi.
Ogni porto sarà per te insieme
casa e partenza,
sei naufrago di un cielo
che non sa tramontare.
Rincontrarsi sarà una bella canzone scoperta per caso,
un raggio di sole nel mare di inverno,
la gioia negli occhi del bimbo
che vede il suo aquilone volare.
Ti guarderò pensando “com’è piccolo il mondo”,
giocando a trovare l’America nel tuo sguardo,
i suoi segreti nella tua voce.
Mi scoprirai cercando il sapore del mare,
il gusto di una terra che
non ti appartiene.
Sarai curioso anche nell’amarmi,
predatore di istanti e parole.
Sarò per te casa e incertezza,
la stranezza del restare.
Insegnami ancora a chiamare la pioggia;
è come sentirla,
finalmente,
cantare.
Riflessi
C’è un fiume, in città.
E’ il punto dove il sole
sorge e tramonta
tra i colori e profumi di aranci,
in fiore.
Ti ho portato in città,
ti ho portato sul fiume.
Ti piaceva specchiarti,
ti sentivi giovane, bello,
sicuro.
Mi dicevi felice
– senti c’è l’acqua che scorre.
Io chiudevo gli occhi e stavo lì ad ascoltare.
Ed era un po’ come sentirsi passare,
lì, su quei ciottoli.
Era come vedersi
quella volta al mare
quando la mamma ti teneva la mano
per proteggerti da quell’abisso
che tu ancora non conoscevi
che faceva così tanto rumore.
Era come quel giorno, ricordi quel giorno,
quando per la prima volta
ti eri sentito grande
con le tue scarpe nuove
che ti sembrava di poter scalare i monti,
che ti pareva di esser sempre pronto a partire.
Era come la prima volta
che un vecchio fiammifero
aveva illuminato il tuo viso,
aveva proprio lo stesso sapore,
lo stesso amaro profumo di quella
prima sigaretta
con cui volevi e credevi
bruciare gli anni,
uno a ogni tiro.
Ti ho portato al fiume e
continuavi a specchiarti.
Io aprivo gli occhi solo ogni tanto,
il tanto che basta
per non avere paura.
Continuavi a specchiarti
in quell’acqua che andava,
e andava,
con te.
In città ormai è arrivato l’inverno.
Nel prato ci sono ancora gli aranci,
ma solo il ricordo dei tempi dei fiori.
Mi capita, a volte, di tornare al fiume.
L’acqua continua a scorrere,
c’è ancora il suo dolce rumore di culla,
il profumo di cose passate.
Chiudo gli occhi, ancora
e ancora;
ed ecco che appari,
lì,
ti credi fermo,
saldo,
immobile.
Tu sei più forte dell’acqua che scorre;
lei è là,
che scivola,
tu stai in piedi sicuro.
Continui a guardarti ma ora è inverno,
il vento sfuria e l’acqua corre.
E pensi ancora di poterti specchiare,
ma insegui un turbine di alterne correnti,
cercando qualcosa che era,
i pezzi smussati di un viso scomposto,
quel che rimane del tuo piglio sicuro.
Apro gli occhi e sei ancora lì,
ancora, e ancora,
come sempre,
sul nostro fiume.
Continui a cercarti in uno specchio in frantumi.