IL VENTO FUGGE SULLE ROTAIE

Cammino a passo sostenuto, veloce, vado a ritmo. Ho le cuffie nelle orecchie, voglia di sentire le tue mani. Ma che dico è solo uno stupido pensiero passeggero. Le tue mani sono lontane, sono aggrappate al tram che ti sta portando via. Voglio andare, non importa dove, non importa come, devo andare. Il passo aumenta, sento i muscoli sempre più in tensione, sono sotto l’effetto di una strana emozione. Caffeina, amore, rabbia, questa cosa non ha nome. E penso sempre alle tue mani, non alla forma né al colore, penso al tatto, al brivido che mi percorrerebbe se potessi sfiorare il mio pallore. Ma non importa, devo andare. Il ritmo aumenta e alzo il volume per non sentire il desiderio che mi sale dentro. Un brivido. Ma no, è solo il freddo che s’insinua tra il collo e la giacca, forse il vento. Vado veloce e non sento più il rumore dei miei passi. Sono in volo. Aria gelida sulla mia pelle. La terra non la tocco più. Le tue mani, ormai lontane, scappano via, stringono l’acciaio gelido del tram, sopra le impronte di altre mille mani, sfuggono alle mie. Sto correndo a perdi fiato, non sento più alcuna musica, rimbomba nelle membra, nella testa, nelle vene, il battito violento del mio cuore. Rallento, tolgo le cuffie, premo le dita sulle cosce, recupero il fiato. Ho la sensazione di averti alle spalle ma il tram è andato. Ecco la scalinata di marmo bianco, l’edicola, la panchina di legno consumato. Lo vedo da lontano, puntuale come sempre, mi aspetta. Ha mani rudi e scaltre, sempre impegnate a cercare qualcos’altro. Lui non sa, non deve sapere. Fuggi lontano, dunque, non ti fermare. Lascia che le rotaie ti portino via.


AMARCORD SOTTO L’OMBRELLONE

Il sole, già alto nel cielo, brucia l’asfalto e bagna di luce la pelle rinata dal chiarore invernale. Dalla spiaggia lontana, un sussurro di cicale impazienti richiama alla mente il ricordo delle estati passate, quando il tempo non bastava ed ogni scusa era buona per restare fino al tramonto in riva al mare.
“Qual è il posto in cui ti senti di più a casa?”- mi chiese Giorgia. Ripensai ad ogni mio primo giorno di vacanza, alla sensazione di vedere con occhi curiosi la casa, sempre diversa, affittata dai miei genitori per l’estate. Pensai al ritorno tra le mura della mia stanza a Roma, ai gabinetti degli autogrill, ai banchi di scuola, alla soffitta di nonna. “Non so”- risposi. Affaticato percorro i solchi della sabbia bollente e fingo un sorriso. Giorgia continua a parlare, non l’ascolto. Dov’è la mia casa? Sono forse un albero senza radici? Ecco che all’orizzonte spunta il mare. Sento il rumore della risacca e l’odore pungente della salsedine. Mi lascio cullare, affannosamente mi faccio strada. Cado nella risacca, è un tuffo che mi trascina indietro, tra la sabbia che si rimescola sulla riva. Finalmente mi sento a casa, tra la corrente di polvere argentea sollevata dal mare. “Proprio qui”- dico- “è il posto in cui per sempre vorrei tornare.”


LA PRIMA VOLTA

Ricordo l’arancione della carta da parati e l’odore di muffa nella stanza. Dalla finestra entrava prepotentemente un blu intenso, oscuro, spietato. Sembrava dire: sono il vuoto, sono il nulla, sono qui per te. Oltre la porta pesante, leggermente socchiusa, un brusio di voci sommesse e un eco di risate sguaiate gridava l’estraneità e il senso di inadeguatezza di un mondo nuovo. Sentivo aleggiare nell’aria l’odore della paura e l’ebrezza di cose sconosciute. Il mio corpo tremava, la via voce era muta, gli occhi rigonfi di promesse deluse. Nelle orecchie ancora la voce di mia madre, ormai lontana. Nel cuore il baratro dell’assenza. Quella fu la prima notte in cui mi sentii veramente sola. Abbandonata al mondo e al suo labirintico andare, quella notte caddi nella trappola dell’esistenza.