TEO

Teo, è seduto nella fredda stanza,
è l’ora dei compiti,
ma ha lo sguardo fisso nel vuoto;
vorrebbe uscire,
è inquieto, tormentato e vorrebbe correre lontano,
fuggire da quell’amore mielato ed esclusivo
tra il padre e la sua compagna
che hanno concepito un figlio per suggellare la loro unione;
lui li scruta e intuisce che sono felici, assenti, egoisti, distratti e impazienti.

Si sente totalmente estraneo a quell’evento,
detesta l’idea che un altro essere possa rimpiazzarlo rapidamente;
rabbioso, spazza via libri e quaderni dalla scrivania,
facendo trasalire sua nonna,
una minuta, scarnita ed emaciata vecchietta
che riposa raggomitolata sul sofà;
è cieca la poverina, ma lucida e sagace,
percepisce il disagio del ragazzo e vorrebbe parlargli.

Resta in silenzio:
non sa come confortarlo,
vorrebbe dirgli di essere indulgente
che le sue paure sono immotivate
che in fondo un figlio è sempre frutto di un atto d’amore
che deve attendere fiducioso
e che la sua intemperanza è naturale quando si è così giovani.

Resta in silenzio,
sa che Teo le è profondamente affezionato
e che la sua condizione di non vedente lo rende asservito
impedendogli di tornare dalla madre.
Resta in silenzio,
ma vorrebbe esortarlo ad essere paziente,
a considerare che ha davanti a sé tutta una vita per crescere,
maturare e meditare sulle infinite sfaccettature dell’amore
………………………………………………………………………………………………..
e che a lei manca così poco per terminare il suo viaggio!

Vorrebbe dirgli “ti amo intensamente”
e dimostrargli che non sono solo vaghe parole,
che hanno un senso autentico, tangibile, concreto
e che questo sentimento è talmente meraviglioso
da riuscire a contenere tutto e tutti.

Resta in silenzio,
un soffio, un filo, uno sbuffo.

Arrivederci Teo!………………………….


L’ALBERO

Un piccolo seme cadde in terra,
disse: “Ho freddo!”
La terra lo ricoprì col suo manto vellutato;
disse: “ Ho sete!”
La pioggia scese a dissetarlo;
dormì per qualche tempo e risvegliatosi
disse: “Qui è buio, voglio uscire!
Una piccola gemma spuntò
e un germoglio fece capolino,
un venticello leggero l’accarezzò
e un sole splendente l’accudì.

Quel virgulto crebbe forte e rigoglioso,
divenne un albero maestoso agghindato con foglie argentee,
i suoi lunghi rami intrecciati,
sembravano ordire un prezioso ricamo;
gli uccelli, trovandolo un confortevole rifugio,
vi costruirono il nido.
In breve tempo, una fiumana di passerini gli fece compagnia,
mentre il caotico cinguettio andava trasformandosi, pian piano,
in una soave ed inebriante melodia.

Un pomeriggio, gli si avvicinò un giovane dal volto cupo,
reggeva tra le dita un laccio di corda grezza
che cercava di agganciare ad uno dei rami più robusti;
piangeva a dirotto, gemeva infelice,
convulsi singhiozzi scuotevano il suo petto.
Sedette un momento per recuperare il coraggio,
determinato a mettere in atto il suo folle gesto:
“nascondersi al mondo!”,
ma spossato dal lungo pianto si assopì.

Le radici dell’albero assaporarono l’amarezza di quelle lacrime struggenti
riscattandole con fresca rugiada
mentre le fronde, mosse da una leggera brezza,
accarezzavano lievemente il viso corrugato distendendone i tratti.
Il ragazzo, risvegliatosi dal torpore che lo aveva assalito,
avvertì un’avvolgente sensazione di pace infinita,
la quiete aveva scacciato la tristezza dal suo cuore
e cicatrizzato le laceranti piaghe dell’afflizione.

Egli si allontanò rasserenato, deciso ad aggredire l’esistenza,
consapevole di doversi nutrire inevitabilmente di ogni esperienza.
Il coraggio e la tenacia lo avrebbero guidato nella quotidianità!

La natura si era opposta a quell’insano progetto,
adoperandosi con ogni mezzo per farlo fallire;
non poteva rinunciare a quella creatura sconsiderata,
non ancora, …………non in quel modo………….
e c’era riuscita!

L’albero, felice di aver fatto la sua parte,
ritornò a perdersi beato nel gorgheggìo degli uccelli
e, dondolando le fulgide chiome, delicatamente sussurrava:
“Domata è la morte, ha vinto la vita!”


IL VICINO

Esce di buon mattino per la consueta passeggiata,
cammina cadenzando i passi lentamente,
imponente ed austero, cela lo sguardo smarrito.
Unica sua meta, è la vicina edicola,
quindi torna a rintanarsi nell’oblio.

Ogni giorno, sempre alla stessa ora,
come per un deliberato appuntamento, ci incrociamo,
io saluto e lui ricambia con un malinconico sorriso.
Talvolta una parola o un gesto lo inducono a fermarsi,
ma solo per un momento,
ha premura di rientrare.

Lui vedovo con quattro figli tutti accasati,
io orfana del secondogenito,
con l’altro figlio celibe e un marito svagato;
lui “Luminare” della Scienza Medica,
io insegnante in pensione;
felici e straordinariamente fortunati, “un tempo”,
appagati negli affetti e nelle aspirazioni;
ci rifugiamo entrambi nei ricordi.

Vicini da oltre un trentennio,
conosciamo le nostre vicissitudini,
intuiamo le nostre emozioni,
ci accomuna la stessa solitudine,
eppure non ci siamo mai veramente parlati.
Lo invito a prendere un caffè,
lui, sorpreso dall’inaspettata proposta, accetta di buon grado.

La litania delle solite domande è inevitabile,
ci chiediamo, alternandoci:
“Come sta?”; “La saluta com’è?”; “ I figli cosa fanno?”; “Come passa il tempo?”; ecc.
Via, via, terminato il repertorio ed anche il caffè,
posiamo le tazzine vuote, tradendo un po’ di imbarazzo.

Segue un breve silenzio rotto, quasi all’istante, da uno sconosciuto ronzio,
mentre un’immagine compare sul display del suo “I-PAD”:
è suo nipote, anch’egli “medico specialista”,
in videochiamata da Boston, in America;
conversano allegramente, usando termini scientifici incomprensibili
e intuisco che stanno discutendo di un nuovo farmaco sperimentale.
Terminato il dibattito l’uomo si scusa, ringrazia e s’alza per andarsene,
ma io, incuriosita, lo prego di restare a dialogare.

Scopro così che l’ottantenne confinante,
non vive in solitudine, come supponevo,
che, connesso in rete e usando le più sofisticate tecnologie,
è tuttora attivissimo nel suo campo professionale:
si aggiorna continuamente,
scrive per una illustre rivista medica,
incontra pazienti per visite e consulti clinici nella sua abitazione
ed elargisce preziosi consigli, confrontandosi con altri specialisti.

Provo un’indicibile vergogna,
con la mia saccenza avevo trasfigurato la sua esistenza,
ritenuto quell’uomo un “alienato”,
perfino alle prese con pasti frugali
e pigre giornate, sbattuto in poltrona, solo e depresso,
al solo scopo di consolare me stessa
e convalidare la mia indolenza.
Lo congedo infine, augurandogli una salute ferrea.
Adesso nutro per lui una profonda ammirazione,
è riuscito a scovare dentro di sé
le risorse necessarie per reagire alle sventure
e gli sono grata per avermi esortata, col suo esempio,
ad intraprendere un nuovo cammino.