Sono la somma di tutte le separazioni meno la volta in cui mi sono mandata via da sola.
Chiusa come una scatola di ossa e carne, dai capelli agli alluci.
Sono una piccola stanza.
Le mie solitudini, come donne nude dalle espressioni disabitate, abbandonate su freddi pavimenti
con le orecchie protese a udire accenni immaginati di passi,
come l’animale che avverte il tuono della tempesta
e l’inquietudine di vulcani ancora assopiti.
Ho mille notti dentro dai denti aguzzi e pelle cosparsa di inesistenti carezze parole fantasma attutite dai silenzi incombenti di mancanze presenti.
Ho un regno di personaggi immaginari che tengono compagnia a deliri e psicosi e io, sovrana di un Tibet d’anima.
Parole atone dai versi distorti e fili d’emozioni in vena che fanno coagulo dentro a celle gelide che ibernano sensazioni.
Aspetterò domani per mancarmi, come ieri ho atteso l’oggi.
Oscillerò tra il sempre ed il mai e sentirò in petto tutti i cuori del mondo meno che il mio.

S vanite figure
O ltre
L e troppe
A ssenze.


Aspetto le cose che scappano e son diventata regina degli spiragli, a dialogare con i silenzi che fan posto a parole, sempre troppo poche e lasciate a metà, tra il “vorrei sentirmi dire” e il “vorrei che mi dicessi”.
Sorseggio gli attimi e saltello sul ricordo della tua voce e nulla è dimenticato e tutto è nostalgico quando lambisce le ciglia, lasciando l’umido delle emozioni forti che ristagnano in tutti gli angoli delle leggerezze.
Ti cercherò in un altro tempo, così futuro da fare impallidire qualsiasi presente e sarà sfida per i passati e questi stessi, insieme, non vorrei avessero epoca o memoria, ma lascerebbero sulle nostre mani il creato dello sconosciuto, l’impalpabile cielo che sconfina, le piogge mute che si inchinano con i loro aghi che esigono pelle e il bagnato sui crinali dove sorgono i polmoni, quando i tuoi palmi in pretesa d’aria, trovandola sui seni, masticherebbero fiati.
Averne sempre fame.
Non diminuire la stretta.
Sfuggiamoci per renderci indimenticabili.
Io ti dimentico come chi non dimentica.
Solfeggio tra le labbra nei toni cadenzati, tra il blu e il porpora e l’effettivo pervinca.
Ci sei quando t’invoco così?
Tu, che spiri come il Vento.


Ho le dita tremanti, adesso, come tremante è il cuore, come la voce in questo contenuta, come le emozioni dentro ai miei occhi che t’immaginano leggere le mie parole.
Per te.
Trovami tra gli spazi, facciamo questo gioco, è il mio modo per prendere tempo e tenerti fissato a un foglio di carta che porta un po’ del mio profumo.
Annusami di china che scorre.
Così, ora, traccia con l’indice una figura di donna a partire dal secondo rigo, abbi cura nel disegnare i capelli e fa’ come ad accarezzarli, soffermandoti su un nodo e cercando di districarlo, come la mia grafia illeggibile. Sii leggero nell’accennare le ciglia, ché è da lì in poi che ti toccherò l’anima, da che a immaginare i miei occhi, ti sembrerà di caderci dentro ed entrare nella mia.
Emozionati a leggere le rotondità delle vocali, percorrile e costruiscici sopra i seni, poi, scendi su consonanti verticali, tracciando il ventre e penetra nell’incavo di uno iato che al solo pronunciarlo generi spasmo e che, per un sol attimo, impedisca il respiro, rendendo gutturale un suono, come fosse un gemito.
Leggimi aperta, al centro di questo foglio stropicciato, come fosse un lenzuolo.
Trema la tua mano?
Fermati davanti a questa domanda che giunge nel momento stesso in cui un sussulto involontario ha provocato un fremito e costretto il palmo a chiudersi a pugno, come nell’atto di stringere per possedere.
A volte, credo che tra noi non siano necessarie le parole, ché il mio pensiero è il tuo, allora, ho preferito farti l’amore.
Leggimi dov’è bianco.