L’uccellino contro il dinosauro

E’ strano come a volte, di notte, il cielo sia così azzurro da far pensare che “lassù” qualcuno abbia dimenticato qualche luce accesa.
Non era così quella sera…..Mai visto un cielo più nero!
Seduta sul sedile di guida della mia auto, con il mento leggermente volto verso l’alto, guardavo le sagome di quelle case che si stagliavano contro quel buio sfondo e pensavo che tutto era in sintonia con il mio umore.
Dopo l’ennesima lite con mia figlia, ero uscita sgommando fuori dal garage come se fossi stata in ritardo per chissà quale appuntamento. In realtà non avevo nessuna meta precisa.
Girovagai un po’ e mi fermai nei pressi dell’ospedale. Erano circa le 21.30 e non mi andava di far subito ritorno a casa. Lì c’era quel silenzio, quella quiete che da un po’ mi mancavano e che solo qualche macchina di passaggio rompeva di tanto in tanto.
Ad un tratto notai una figura di donna che veniva nella mia direzione. Si fermò a pochi metri dalla mia auto e poggiando la borsa sul muretto su cui si ergeva l’inferriata che cingeva l’ospedale, si mise a frugarvi dentro in maniera nervosa. Si accese una sigaretta.
Nonostante il mio carattere decisamente poco aperto ad amicizie occasionali, spinta forse dal sesto dei nostri sensi, quello che non troviamo sui libri di scienze, scesi dalla macchina e mi avvicinai a lei. Accesi anch’io una sigaretta per avere un alibi rispetto a quella strana curiosità di cui un po’ mi vergognavo. La guardai: il suo esile corpo ed il suo viso scarno già parlavano per lei insieme ai suoi occhi scuri e mesti dai quali, improvvisamente, cominciò a venir giù un fiume di lacrime. Iniziò a parlarmi con quella familiarità che si usa con un’amica di vecchia data come se fra noi in un istante si fosse istaurato una sorta di forte legame. In realtà era il cielo che mi mandava lì in quel momento così difficile in cui, il bisogno di sfogarsi e di percorrere a ritroso quegli ultimi anni della sua travagliata esistenza, era per lei inevitabile. Mi informò di come casualmente si fosse accorta della tossicodipendenza di sua figlia: un limone, un banalissimo giallo limone trovato nel suo zaino, il silenzio della ragazza mentre lei lo tirava fuori e quel sorriso esageratamente rassicurante: – Qualcuno dei miei compagni l’ha messo lì per farmi uno scherzo. Mamma non penserai che…..- Mi parlò della capacità di mentire spudoratamente che hanno tutti i “drogati” e delle sue notti insonni da quel momento in poi. Mi raccontò di quando ebbe la certezza riguardo alla dipendenza di sua figlia e la cacciò impulsivamente di casa.
Mi parlò delle sue uscite in macchina di ore e ore per cercarla e del suo primo incontro con lei dopo diverse settimane.- Non era più lei – disse – i venditori di morte insieme al denaro ed alla sua dignità, le avevano rubato anche il cuore.-
Lei era vedova da diversi anni e non poteva contare sull’aiuto di nessun altro parente. Inoltre i sensi di colpa per averla trascurata, anche se involontariamente, a causa della lunga malattia di suo marito, ogni tanto le si proponevano drasticamente. Mi raccontò, ancora, di un incubo ricorrente che faceva anche quando Morfeo, pietoso, la prendeva fra le sue ampie braccia: Viviana (questo era il nome di sua figlia) era rincorsa, nel sogno, da una folla di giovani dai vestiti strappati e lerci. Nei suoi occhi era impressa la disperazione di chi non ha scampo, in un mondo dove certi errori hanno come prezzo la vita e come contropartita il successo di qualcuno troppo in alto per pagare le sue colpe. L’incubo era divenuto realtà: quella sera i carabinieri si erano presentati a casa sua informandola che sua figlia si trovava in ospedale probabilmente a causa di certa “roba” tagliata male.
Era corsa subito da lei ed un giovane dottore l’aveva messa al corrente sulla gravità della situazione – E’ un uccellino, signora, che sta battendosi coraggiosamente contro un dinosauro. – A quel punto il cellulare che si trovava nella sua borsa poggiata ancora sul muretto iniziò a suonare. Lei rispose subito e mi voltò le spalle senza dire altro, catapultandosi verso l’entrata dell’ospedale.
Rimasi lì, impietrita, per qualche istante. Poi salii in macchina e mi diressi verso casa.
Erano passate poco più di due ore da quando ero uscita. Eppure la persona che rincasò non era la stessa che aveva sgommato fuori dal garage qualche ora prima. Si annullarono all’improvviso quelle stupide, piccole incomprensioni quotidiane, quei problemi superficiali che sembravano una montagna prima di aver sentito parlare di un uccellino che si batteva contro un dinosauro. Sperai con tutta me stessa che quest’ultimo avesse la peggio ed abbracciai mia figlia così forte quasi da toglierle il respiro. Lei non capì ma ne fu ugualmente molto felice.


Per tutta la vita

In quel piccolo paese, a ridosso delle montagne, la vita era sana, regolare, calma. Troppo calma per lei così diversa dagli altri. Se agli occhi di qualsiasi persona che avesse soggiornato lì con l’intenzione di riposarsi e cancellare, per un po’, la frenesia di un mondo che corre sulla stessa pista della “Rossa di Maranello”, quel posto sarebbe apparso uno scorcio di paradiso, per lei era poco più che una triste prigione. Se ne era resa conto fin da bambina. Oggi però, con i suoi trent’anni suonati, sentiva scemare sempre più la speranza di poter cambiare, di poter spaziare non soltanto con la fantasia, di venir fuori da quella monotonia, celestiale per i suoi compaesani, opprimente e soffocante, come un vestito troppo stretto, per lei.
Lo aveva ben compreso sua nonna Flora, piccola grande donna, la cui amorevole vicinanza aveva reso per tanti anni quella gabbia meno angusta. Con quanta struggente nostalgia la ricordava.. Rammentava tutte le volte che si era schierata dalla sua parte quando veniva ripresa da sua madre, incapace di capirla e pronta regolarmente ad ammonirla:- Gisella, di nuovo a scrivere! Quando smetterai di sprecare il tuo tempo con cose così inutili e ti deciderai a comprendere la vita?-
La verità è che lei non capiva quella vita!
Era come un rarissimo uccello cui qualcuno aveva tarpato le ali. Chissà cosa avrebbe dato per continuare gli studi, dopo la licenza media. Suo padre, purtroppo, non la pensava allo stesso modo e lei capì bene che sarebbe stato inutile il tentativo di fargli cambiare idea. Dopo aver aiutato sua madre in casa, oppure suo padre ed i suoi fratelli nei campi, passava il resto della giornata a leggere libri o come dicevano i suoi, “a imbrattare carta”. Scrivere era la sua passione e lei con carta e penna tra le mani diveniva la padrona del mondo. Da quando era morta sua nonna, però, si sentiva molto sola, incompresa e s’era chiusa sempre più in se stessa, parlando soltanto quando era strettamente necessario. Aveva così acquisito la fama di essere “strana” che, in quel posto, equivaleva a dire “matta”.
La notizia dell’imminente arrivo di una troupe televisiva era sulla bocca di tutti i paesani. Gisella, a modo suo, né fu contenta.
Quando quel giorno arrivò, il tempo, contrariamente alle aspettative, lasciava a desiderare: un sole avaro faceva saltuariamente capolino tra le nuvole e l’aria si era fatta molto più fredda. La troupe si sistemò in un piccolo albergo, appena degno di tale nome. Stette lì qualche giorno, tra interviste e riprese, nel clima di festa creatosi per l’occasione. Gisella osservava da lontano. Non le andava di essere ripresa ed anche in questo mostrava la sua diversità da quella gente che smaniava per porsi al centro dell’attenzione ed apparire in tv. Quella mattina, diretta al piccolo emporio della signora Ida, Gisella non potette fare a meno d’ascoltare le parole di due anziane donne. Parlavano della partenza di “quei signori di città”, prevista per la mattina seguente. Anche in casa sua, durante il pranzo, quello fu l’argomento principale di conversazione e suo padre riferì di un’eventuale visita, che la troupe avrebbe fatto loro, nel primo pomeriggio, per assaggiare il buon vino che egli, in quantità modesta, produceva, insieme a quei biscotti tipici che sua madre sfornava, lasciando quella scia di delizia, tentatrice nella stessa misura del canto delle sirene dell’Odissea. Gisella stava lavando i piatti quando l’auto parcheggiò nell’aia. I quattro “signori di città” salirono per la scala esterna e dopo aver bussato, entrarono in cucina dove, entro breve tempo, si catapultarono tutti i componenti della famiglia. Gisella si asciugò le mani con lo strofinaccio bordato di uncinetto che sua madre aveva tirato fuori per l’occasione e si voltò verso quella gente che aveva sempre tenuto a debita distanza. Fu un attimo. Il suo sguardo si perse subito in quello di Livio, assistente nonché fratello del regista. Fu “assente” per qualche istante. Quando “tornò” Livio ed il resto della compagnia stavano facendo gli auguri a sua cognata, che avrebbe avuto un bambino entro qualche mese.
Gisella non era una bellezza prorompente. Il suo corpo era esile ma i suoi occhi verdi, erano così intensi e profondi da far pensare ai fondali marini, laddove ancora la civiltà non ha preteso prezzi troppo alti, a discapito della natura. Livio ne rimase piacevolmente colpito. Erano così diversi da quelli che, per quattro giorni, si era sentito incollati addosso, come francobolli su cartoline!
Scambiarono solo poche parole, poi nel momento dei saluti, si guardarono con un tale trasporto, che una lunga conversazione fra loro sarebbe stata, in quell’istante, superflua. Livio le strinse la mano e contemporaneamente le fece scivolare un biglietto dentro la tasca dei jeans.
Erano passati vent’anni. Quante volte in tutto quel tempo aveva pensato a Livio. Quel biglietto era divenuto logoro per le tante manipolazioni e si leggeva omai a malapena la frase:”Partiamo domani alle nove, vieni via con me.” Lei non era andata. Aveva continuato a fare quella vita calma e tranquilla, scontata e monotona, fatta eccezione per le poche volte in cui ancora “imbrattava carta”. La sua salute si era fatta cagionevole. L’unica sua gioia, in tanti anni, era stata quella di veder crescere sua nipote Dora e capire quanto le somigliasse caratterialmente. L’affetto e la considerazione di Gisella per lei erano sicuramente a doppio senso e fu proprio Dora la più triste quella domenica mattina in cui quegli oblò aperti sui fondali marini si chiusero per sempre. Tra i suoi effetti personali Dora trovò una lettera indirizzata a lei. Il mattino successivo era in attesa di una corriera che la portava lontano.
Aveva nella piccola valigia pochi indumenti ed una lettera che conservò per tutta la vita.


Rimpianto

Che lasci nel partire
a chi rimane?
Lo stesso caldo sole
che indiscreto, laddove
ad un mortal ardua è l’impresa,
entra col fare suo sicuro e lesto.

Che lasci nel partire
a chi non parte?
La brezza del mattino
che ti punge
e sprona corpo e mente
a un far vivace.

Che lasci nel partire
a chi permane?
Le stesse cose
che trovasti all’alba
del tempo tuo,
senza apprezzarne il dono.