IL MARE

Il mare, al mattino metallico sotto un cielo di piombo, arrivava alla spiaggia adirato e violento.
Poi, calmato, affranto, quasi intimidito, si ritraeva, lasciando dietro di sé, ultima retroguardia,
schiuma bianca, perlacea, effervescente ed immota ad un tempo.

La sua ira e la sua calma a lungo si sono alternate in rapida successione.

Poi, sotto un vento divenuto più forte, le onde, più alte e impetuose, hanno via via mostrato
la loro forza, scintillanti e accese nella loro veste verde-azzurro, mentre il sole, fattosi largo con prepotenza tra le spesse nubi, tornava ad imporsi, re incontrastato di un cielo all’improvviso
accecante nel suo nitore.

(1997)


MORTE DI MIO PADRE

Il corpo troppo magro, asciutto, disidratato da lunghi giorni di malattia. Le braccia e le mani martoriate, rese livide dagli aghi.
Le gambe rigide: il piede destro poggiato con forza contro la balaustra del letto. Le mani, la sinistra avvinghiata alla mia, stretta fino a farmi male, nonostante la flebo; la destra, alla ricerca spasmodica di un appiglio per salvarsi: la mano di mio fratello, il letto, la sua gamba.
Il respiro, incapace di allungarsi, troppo breve, doloroso, affannoso, fino a diventare rantolo, spezzato e compresso.
Tutto il corpo squassato da questa fatica immane alla ricerca di aria. Il viso stravolto dalla sofferenza e dalla fatica; il sopracciglio mosso, sistematicamente, ad ogni respiro tronco; l’immagine irreale, assurda, dietro la mascherina dell’ossigeno. Una lotta impari contro la morte. Lui non sa, forse, che perderà; Lei sa che vincerà, sicuramente, comunque, prima o poi. Almeno sul corpo. Lunghe ore di agonia, di fatica, dapprima vissute con coscienza, presente nello sguardo che mi chiede perché, che succederà poi, come finirà.
Poi, pian piano, gli occhi si fissano sul soffitto, su qualcosa che non c’è, ma presente per lui; tutto il corpo ancora teso a cercare qualcosa che possa salvarlo, tirarlo fuori da questo buio che sempre più lo avvolge, che vuole soffocarlo, annientarlo.
La mano non stringe più con forza la mia, l’altra si è fermata, rassegnata. Solo il sopracciglio si muove ancora regolarmente, ad ogni respiro. E a sera, ormai prostrato completamente, si arrende.
La sua mente ha capito. Il suo cuore ancora no. E’ forte, troppo, e continua imperterrito a battere, come in una dimostrazione di bravura, o come una macchina che procede ormai solo per forza di inerzia.
Dal suo sguardo non traspare più coscienza e, d’un tratto, un movimento appena percettibile nell’immobilità delle sue pupille, e non sento più la sofferenza nel suo respiro, che continua ancora, regolare, sempre più debole, lieve, come un volo di farfalla, fino a fermarsi.

(2003)


PARCO DELLE ROSE

Un parco di pini e querce secolari, di noci ed aranci, di rose e oleandri.
L’erba fresca, sempre verde anche con il caldo estivo, costellato di innumerevoli piccoli fiori colorati.
Sotto una quercia scolpita dal tempo, un lungo tavolo e panche di legno. Intorno, seduti, uomini e donne, ognuno immerso nel proprio mondo, popolato di fantasmi o completamente vuoto, deserto, privo di qualunque cosa.
Carlo, sessantenne taciturno, non ricorda il suo nome, sa solo chiedere una sigaretta e, ringraziando, si allontana a piccoli passi, i pantaloni lerci . La sua mente sembra tornare, a volte, in un lampo di lucidità, in una sfumatura di coscienza emozionale, in un ombra di tristezza o rimpianto, appena percettibili nei suoi occhi vacui, nel suo sguardo perso, nella solitudine che pesa come un macigno sulle sue spalle curve.
Giuliana, capelli lunghi, unti, porta, sul viso imbellettato in modo maldestro, una bellezza ormai sfiorita, che si intravvede nelle labbra carnose, ancora capaci di sorrisi accattivanti, nel seno sfatto e ingombrante sotto gli abiti sempre sporchi; il corpo sfrontato, il portamento ancora sensuale e provocante nonostante l’età. Chiede un caffè e qualche sigaretta con una espressione infantile e maliziosa, civettuola, e ringrazia dolcemente, augurando ogni bene.
Giovanna, dall’età indefinibile, il passo incerto e sbilenco, come il taglio della bocca e le spalle, ricordi lasciati da un male improvviso quanto beffardo e , tuttavia, forse, generoso. Non sa dirti il suo nome né alcuna altra cosa. Aspira una sigaretta dietro l’altra, chiedendone a chiunque, come se volesse, nel fumo, ritrovare e riprendersi la sua vita, che non sa di aver perso. Le invettive e gli spintoni di altri pazienti, che vogliono anch’essi caffè e sigarette, non arrivano nemmeno alla sua mente, come i tentativi di aggressione nei suoi confronti, sempre fermati sul nascere da infermieri e visitatori.
Marcello, macellaio, ti viene incontro sorridendo e ti chiede di portare i suoi saluti al fratello, famosissimo macellaio della zona, che tutti conoscono, anche tu, naturalmente. Gesticola orgoglioso , il volto luminoso ed eccitato, come lo sguardo, che segue le immagini del fratello e del lavoro con lui, persi in un tempo e uno spazio fuori dal tempo. E ti segue ad ogni passo, e si raccomanda ad ogni passo, prendendoti il braccio perché tu possa, con il tocco, ricordare meglio, finchè non scompari alla vista.
Umanità abbrutita, dolce e assurda e inverosimilmente vera e reale.
Le cicale assordanti, i merli tra i cespugli, i campanacci delle mucche al pascolo in lontananza e, ancor più in là, nella vallata, le grida vivaci di ragazzi su un campo di calcio.
L’universo è qui, nel loro sguardo, nei loro gesti, nella loro vita al di fuori della vita, nella natura impassibile e indifferente, nel cuore gonfio di amarezza e gratitudine, di dolore, di pietà……… .
Il cielo, azzurro e terribilmente sereno, la cornice stonata di un quadro a tinte fosche.

(2006)