NON CHIEDERE

Non chiedere perché il sole
Sorgendo dalle acque del mare
O sorvolando le cime dei monti
Illumina il tuo cammino.
Non chiedere perché la pallida luna
Sorniona regala ai timidi amanti
Fremiti e dolci incanti,
né perché la volta stellata del cielo
ispira la fantasia degli innamorati.
Non allarmarti se un palpito del cuore
Turba la tua mente..perché questo è amore.


CAREZZA

Cosa è una carezza?
Un lieve sospiro d’amore
Che ti sfiora e rende lieto il cuore,
un soffio etereo che ti avvolge
e ti conduce su nuvole dorate.
Lenisce le tue pene e ti proietta
In un mondo di sogni infiniti.
Il leggero sfiorare del volto
Fa scoprire le gioie della vita.
Una carezza accende mille lucciole d’amore.


Storie di altri tempi

Li scecchi di me patri

Mio padre si chiamava Girolamo Barbara, tutti però lo conoscevano come” mastru Mommu Varvara”
Era un bravo muratore per questo anche nei momenti più drammatici del periodo bellico (la seconda guerra mondiale regalataci dal fascismo) il lavoro non gli mancò mai.
Per un breve periodo, quando le velleità imperiali di Mussolini invogliarono parecchi artigiani ad andare a lavorare nelle colonie, mio padre andò a lavorare in Libia, a Bengasi, a costruire strade e ponti.
Fu , però, un periodo breve, perché quando la guerra cominciò a mettersi male lui, prudentemente,aveva già fatto ritorno in Italia.Anche allora, malgrado il periodo non fosse propizio per Il lavoro lui, con la sua tenacia, riusciva sempre a trovarsi un lavoro, soprattutto nelle campagne a sistemare vecchi, macaseni(le nostre classiche case di campagna), a fare forni per il pane, dato che a quei tempi ogni famiglia borghese il pane se lo preparava a casa; a costruire magazzini o stalle per gli allevatori della nostra zona.
Mio padre nel costruire i forni era un vero artista, il pane cotto nei suo forni, tutti sostenevano, era una specialità
Allora non c’erano mezzi di trasporto motorizzati, gli unici mezzi erano i carri tirati dai muli o dai cavalli e
gli asini, gli animali da soma più pazienti e laboriosi.
Il primo asino, che io ricordo, utilizzato, appunto per il lavoro da mio padre era “un sceccu mirrinu” un asino dal manto chiaro, un latte macchiato. Tutti gli asini a manto chiaro erano infatti considerati i più laboriosi e i più pazienti.
C’era allora un vecchio detto siciliano che così recitava per classificare la bontà degli animali da soma:
“Scecchi mirrini e mula amareddi, accattativilli li cavaddi bai che nell’aia volano comu l’aceddi”
Che tradotto in italiano, appunto,voleva significare: che i migliori asini sono quelli di colore chiaro, i muli più ricercati,erano quelli scuri come le more, mentre i migliori cavalli venivano considerati quelli bai. Erano quelli col manto rosso e la criniera e la coda nera che , appunto, nell’aia dove le spighe venivano calpestate dai loro duri zoccoli , volavano come gli uccelli.
Io ho un ricordo molto bello, quasi affettivo, di questo primo mezzo di trasporto di mio padre. Lo caricava degli attrezzi da lavoro e lui pazientemente faceva il suo dovere, e noi sempre a cavallo a guidarlo; ma lui sembrava ammaestrato perché sapeva sempre dove andare e non aveva bisogno di essere stimolato e guidato.
Noi l’asino l’utilizzavamo anche per andare in campagna, io, mio fratello Carlo che era il più grande, e mio fratello Michelangelo, che in famigia chiamavamo, abbreviando il suo nome, solo Angelo o Angiluzzu.
Anche mia sorella Giovanna, che tutti chiamavamo Giuvannina ( un vezzeggiativo), conobbe la groppa di questo asino buono e mansueto.
Nel periodo pieno della guerra quando era piuttosto arduo trovare grano per panificare, mio padre che lavorava
nelle campagne non aveva di questi problemi , caricava l’asino con due sacche di frumento, metteva uno dei suoi figli in groppa a questo asino e lui, giudizioso, sapeva dove andare. Succedeva anche che uno di noi si addormentasse in groppa al nostro asinello, non c’era problema, lui sapeva che doveva portarci a casa e lo faceva con diligente pazienza.
Noi eravamo ,tutti, affezionati a questo asino però,purtroppo, era avanti negli anni e mio padre se ne è dovuto liberare perché non più adatto a percorrere impervi sentieri, che per lui, data l’età avanzata, diventavano sempre più pericolosi e anche per noi che dovevamo guidarlo.
Non sono riuscito a capire bene se lo ha venduto a qualcuno o se era finito al macello, allora ho preferito non farmi questa domanda.
Il secondo asino, quando l’ho visto per la prima volta, non mi fece molta simpatia.
Non doveva essere molto giovane, era tutto nero, e portava le orecchie abbassate, segno che non doveva amare molto il suo lavoro.
Io ho solo brutti ricordi di questo asino che non amai mai perché quando mi veniva affidato da mio padre mi procurò più di un problema
Spesso capitava che da campagna, che si trovava in contrada “Comuni”io a cavallo di quest’asino rientrassi in paese.
La mia famiglia, chiuse le scuole, a fine giugno si trasferiva in questa campagna, appunto in contrada Comuni, una zona oggi irriconoscibile, ma allora una campagna rigogliosa, ricca di vigneti e di alberi di frutta e rientrava in paese, ultimata la vendemmia e dopo la raccolta delle mandorle e delle noci.
Come non ricordare il maestoso albero di noci che copriva quasi per intero anche il macaseno,dove noi abitavamo, e produceva oltre due quintali di frutto?
La nostra campagna era lontana dalla strada statale la “187”(la strada statale che da Castellammare porta a Trapani),sita quasi alla sommità della collina da dove si dominava l’intera vallata che terminava in fondo in contrada Sarcuna. Lì accanto ad un piccolo ponte di legno, che univa le due sponde di contrada Comuni e di Baida, zampillava un insperato ruscello di acqua dove noi abitualmente ci approvvigionavamo .
Era una piccola oasi, perché l’intera contrada Comuni era sprovvista di sorgenti o pozzi di acqua, a differenza di Baida ricca di questo prezioso liquido.
Per noi era una festa andare con l’asino a riempire le” quartare”(recipienti di terracotta) collocate all’interno “di li zirmili” grandi sacche fatte con la palma nana che venivano collocati in groppa all’asino.
Noi abitavamo in un “Macaseno”tipica costruzione delle nostre campagne, poco più di 50 metri quadrati, ma aveva tutte le comodità(si fa per dire) di quel tempo.
Il macaseno disponeva di una stanza che usavamo come soggiorno, con la stalla per l’asino, il parmento, dove si pigiava l’uva, e un soppalco dove si conservava la paglia e che alla bisogna veniva usato anche per dormire; c’era poi una cucina in muratura e un piccolo forno.
In questo soppalco(la pagghialora) che , appunto, qualche volta utilizzavamo anche per dormire, la notte i topi di campagna ci passeggiavano di sopra.
Un’altra piccola stanza , munita anche questa di un soppalco un po’ più confortevole, perché fatto con il legno, veniva utilizzata come zona notte.
Il macaseno, purtroppo, non aveva cisterna di acqua e per i nostri bisogni giornalieri dovevamo andare con l’asino
a riempire le quartare , appunto recipienti di terracotta, in quella sorgente che si trovava a valle della collina
Non esistevano servizi igienici e pertanto i nostri bisogni corporali venivano risolti all’interno della vigna.
Certo, a pensarci oggi, non era confortevole vivere per oltre tre mesi in quelle condizioni ambientali, né piacevole vivere isolati per tutto quel tempo, l’abitazione più vicina era a quasi un Km di distanza.
Quando ci incontravamo con i vicini, infatti, era quasi sempre una festa.
Le giornate le trascorrevamo a raccogliere le fico che tagliavamo(ciaccavamo) dividendole in due per essiccarle al sole o a preparare la corda con la curina il cuore della palma nana.
La corda veniva usata per fare “le cone di fichi secchi” che erano delle corone di fichi che venivano preparate infilzando
i fichi essiccati al sole con uno spuntone, un ago di canna pulito e bene affilato .
Per me la lettura dei romanzi di avventura o accennare a qualche motivo con il friscaletto, un flauto di canna, o l’armonica a bocca, erano il migliore passatempo.
La sera si andava a letto presto, non c’era ancora luce elettrica .
Qualche volta alla luce della candela ad olio ascoltavamo qualche storiella che nostra madre, la cara Mamma Rosa, pazientemente ci raccontava o recitavamo il santo rosario preparandoci ad andare a letto dopo avere ricevuto, come di consueto, la santa benedizione di nostra madre.
Spesso io tardavo ad andare a letto affascinato dalla lettura del libro di De Amicis “Dagli Appennini alle Ande” consumandomi la vista su quella fioca luce della candela ad olio che tremula annunciava la sua fine.
Non sempre nostro padre la sera rientrava a casa, capitava che lavorasse molto lontano dal nostro podere e, pertanto, a volte lo vedevamo rientrare solo il sabato al calare della sera.
Quando cominciava a imbrunire il nostro cuore cominciava a restringersi, sembravamo degli uccellini sperduti e spaventati; ci raccoglievamo attorno a nostra madre che con il suo carattere forte e sicuro ci dava coraggio e riusciva a trasmetterci serenità.
Il sabato per noi era festa perché sapevamo che la sera sarebbe rientrato nostro padre.
Al calare del sole cominciavamo a contare i minuti che ci separavano dal suo rientro.
Eravamo già felici alla sola idea che da un momento all’altro lo avremmo visto spuntare lungo la via tortuosa che iniziava dal fondo valle, accompagnandosi al suo stanco asino.
Io lo aspettavo seduto su una”caia di pietre lu castiddraru” un cumulo di pietre che i contadini affastellavano una sopra l’altra , con diligente precisione, dopo avere “ spietrato” bonificato il loro terreno. Queste caie di pietra diventavano spesso un sicuro rifugio per i conigli che erano presenti nella nostra zona in numero considerevole, facendo la felicità dei cacciatori.
I miei occhi scrutavano ansiosi il fondo valle in attesa di vedere spuntare l’asino e dietro mio padre arrancare stanco ma contento di rientrare a casa.
I miei occhi non si fermavano mai,scrutavano sempre il fondo valle e il viottolo che s’inerpicava lungo il fianco della collina alla fioca luce del crepuscolo.
Appena lo vedevo spuntare il cuore mi si riempiva di gioia e lanciavo l’avviso del suo avvistamento.
Tutta la famiglia correva verso la caia di pietre e da lì accompagnavamo con lo sguardo il lento arrancare di mio padre.
Mia madre preparava la cena, cucinava la pasta per tutti, la pasta fatta in casa con le fave, era una festa, eravamo tutti contenti perché quella sera avremmo avuto la presenza rassicurante di nostro padre.
Poi si mangiava il pane fresco preparato la stessa giornata, la carne che portava mio padre l’avremmo mangiata la domenica con lo stufato, anche se già l’indomani, in assenza di frigo la carne già puzzasse un poco, ma nessuno di noi ci faceva caso, lo stufato con la pasta di casa era delizioso.
Poi le polpette che preparava mia madre , quelle in bianco con la cipolla erano di una squisitezza unica, io non ne ho più mangiate di così buone.
Mio padre durante l’estate, quando lavorava nelle campagne, limitrofe alla nostra,si preparava la riserva del frumento che spesso gli stessi committenti dei lavori gli fornivano.
Allora entravamo in azione io e mio fratello Carlo, più grande di me di due anni.
Mio padre caricava l’asino con due sacchi di frumento e ci affidava l’animale che noi diligentemente guidavamo, a turno, fino in paese.
Non posso dimenticare i problemi che spesso mi creava l’asino con il manto nero; per un lungo tratto di strada tutto filava liscio, io in groppa, spesso a sonnecchiare.
Nei pressi del “Passo Satiro” zona fraginesi, improvvisamente l’asino accelerava il passo e poi si sdraiava per terra, insensibile ad ogni mia sollecitazione.
Io non riuscivo né con le buone né con le cattive a farlo rialzare, poi fortunatamente con l’aiuto di qualche isolato passante, si rialzava e così arrivavo in paese, dove scaricavo i sacchi di frumento.
Questa storia si è ripetuta diverse volte fino a quando io, aguzzando l’ingegno e riflettendoci sopra non scoprii un rimedio infallibile.
Un pomeriggio di un sabato di agosto, eravamo quasi alla vigilia della festa della madonna, che si celebra, in paese, dal 19 al 21 di quel mese, io a cavallo dell’asino già fantasticavo su che cosa avrei potuto fare durante la festa, c’erano le bancarelle da visitare, cera “la calia e simenza con i ceci e le noccioline americane” da sgranocchiare, c’erano le corse dei cavalli e già pensavo alla sfida tra un cavallo locale di nome “Mistero” un morello di linea slanciata ed elegante, e il suo leggendario antagonista, “l’Orvu di Paceco”, un bellissimo baio purtroppo cieco di un occhio, ma forte nella corsa in salita, come era quella del nostro “ cassaro”, il corso Garibaldi.
Mentre ero lì a fantasticare l’asino accelerava improvvisamente la sua andatura e poi di botto si coricava in mezzo alla strada.
Questa volta io ero preparato a risolvere il problema, mi ero munito di una scatola di fiammiferi e pensavo di avere trovato l’antidoto alla malattia di questo asino. Sceso dalla sua groppa, presi un mucchietto di paglia che collocai sotto la sua coda, quindi accesi un fiammifero. Non appena si è sentita la coda prendere fuoco, l’asino si alzò di scatto e si è messo a correre speditamente, da quel giorno non si coricò più ne in contrada passo del satiro né altrove.
L’asino più bello, anche se il più malizioso, è stato l’ultimo, mio padre lo comprò che era ancora un puledrino, tutto grigio con sfumature nere, orecchie sempre tese, portamento elegante, scattante e vanitoso, quasi si gloriava della sua bellezza.
Mio padre, capriccioso, gli accorciò le orecchie per farlo assomigliare più ad un cavallino.
Andare in campagna in groppa a questo asino era un piacere, sempre andatura accelerata, camminava speditamente anche quando doveva affrontare la salita di contrada Comuni.
Percorreva la distanza dal paese in campagna impiegando quasi la metà del tempo che abitualmente impiegavano gli altri asini.
Aveva però un difetto, non appena intravedeva o semplicemente annusava a distanza la presenza di un asina diventava quasi ingovernabile.
Questa sua irrefrenabile predisposizione un giorno l’ho dovuta sperimentare a mie spese.
Mentre percorrevo assieme a mio fratello Angelo, più piccolo di me di tre anni, la strada che portava in campagna, arrivati nei pressi di contrada “ Dagala Secca” quasi in prossimità della nostra campagna, improvvisamente il nostro puledrino si è messo a correre come un forsennato.
A distanza di un centinaio di metri aveva intravisto una stanca povera asinella, dal manto tutto nero , con in groppa una anziana signora, vestita tutta di nero con un fazzoletto, sempre nero, legato alla testa, che procedeva lentamente verso contrada Balata di Baida dove, appresi dopo, era diretta.
Spaventati, non sapendo cosa fare sia io che mio fratello Angelo siamo saltati a terra dalla groppa dell’asino, mentre impazzito correva verso la povera asina che placidamente proseguiva il suo cammino.
Il puledrino, come impazzito, acchiappava con un morso la coda dell’asina che vistasi aggredita scalciava buttando a terra la povera signora che restava ferita alla testa che aveva battuto sul selciato.
Fortunatamente, grazie all’arrivo di alcuni passanti,abbiamo prestato aiuto alla povera signora e recuperato l’asino che continuava a correre all’inseguimento della sua spaventata preda
Le velleità amatorie del giovane asinello hanno avuto però breve durata. Mio padre infatti per evitare che si potessero ripetere simili situazioni che avrebbero potuto creare seri problemi a noi ragazzi ma anche agli altri,un bel giorno portò l’aitante asinello dal veterinario che lo mise in condizione di non cercare più divagazioni sessuali.
Questo fu l’ultimo asino posseduto da mio padre.
I tempi erano cambiati, mio padre non lavorò più nelle campagne, cominciò il periodo vero della ricostruzione e i lavori nei paesi e nelle città non mancarono per lungo tempo e i mezzi di trasporto erano tutti motorizzati e l’era degli animali

da soma cominciò a tramontare per scomparire del tutto sul finire degli anni cinquanta.