IL GATTO NERO

Eppure li amava, Piero, i gatti. Viveva solo con la sua nonnetta ottuagenaria in un paesino caratteristico accovacciato sul fianco della montagna.
Intorno la natura era stata avida nel concedere frondeggiamenti arborei e le gobbe di roccia, salda e dura, affioravano da terreno incrostato: Soli pochi arbusti cespugliosi rubavano il nutrimento alla terra argillosa.
Il paese raccoglieva poche migliaia di anime ma aveva un che di ameno e un suo fascino aspro.
Nei lunghi inverni freddi quando tutti si rintanavano e il silenzio regnava incontrastato, si udiva solo il sibilo della tramontana insieme al fragore cupo del torrente che giù a valle scorreva impetuoso.
Il giovane Piero, come suo solito nelle giornate di sole, era uscito per la passeggiata mattutina, durante
la quale divorava un gigantesco quarto di pagnotta traboccante di prosciutto che loro stessi (lui e la nonna) stagionavano a puntino.
Amava camminare lungo il viottolo che si inerpicava verso la montagna fin sulla carbonaia. Una mulattiera scavata nella roccia senza alcuna protezione nel lato scoperto e che precipitava nelle sottostanti gole, profonde e rocciose, fino al fiume che scivolava nel suo letto come un gigantesco serpente.
Addentava avidamente avidamente la colazione e mentre ne gustava il prelibato prosciutto di montagna, scalciava i ciottoli che, caduti dall’alto, riempivano il viottoli.
Era intento ad osservare la parabola degli stessi quando un gatto nero gli ostacolò il passaggio.
Il gatto dapprima lo fissò col suo sguardo giallo e misterioso, poi, miagolando dolcemente con voce tremula, incominciò a rotolarsi per fargli le feste.
Piero, che di gatti se ne intendeva, aveva capito che il birbante mirava al suo grosso pane imbottito e borbottando tra sé: -è talmente buono. Non posso privarmene. Nemmeno di un piccolo pezzo. Ti piacerebbe eh? Non posso proprio.- Attese che desistesse dall’idea.
Il gatto affatto dissuaso incominciò a ronfare. D’altronde è notoria l’insistenza di queste creature.
Piero per nulla impietosito dalle fusa, conoscendone l’astuzia e l’abilità ruffiana, decise di spaventarlo battendo più volte il piede sul terreno. Lo stesso intuito il bluff di Piero –che tradiva le sue intenzioni non certo ostili, dato l’amore che nutriva per gli animali in genere- continuò a strofinarsi il collo ora su un fianco ora sull’altro, mostrando il ventre dal mantello lucido.
Convinto di dover passare all’azione, sebbene non violenta, raccolse una pietra con gli angoli smussati e, tenendo il panino ben saldo con la mancina, la buttò sul gatto. Questi, pur ancora dubitante delle sue reali intenzioni, balzò sulle zampe e saltò di fianco come una molla, facendo luogo a Piero che addentando l’angolo di pagnotta riprese compiaciuto il cammino.
Non aveva ancora avuto il tempo di ingoiare il boccone quando si accorse, sbirciando con la coda dell’occhio, che il gatto lo seguiva ancora, sebbene a debita distanza.
Si fermò di scatto e stette immobile col cipiglio duro per intendere che era ora di finirla. Il gatto ben sosteneva lo sguardo corrugato e quasi pareva ricambiarlo, stavolta anch’esso con gli occhi più torbidi e la fronte aggrottata come se esprimesse rancore.
Piero allora si finse distratto e guardava in alto fischiettando un motivo improvvisato.
Il sornione, invece, seduto nella posizione tipica, con le zampe anteriori dritte e la coda di lato, socchiudendo pigramente gli occhi, guardò ora da un lato ora dall’altro ignorandolo.
Il giovane decise di spingere l’andatura e staccare la bestiola che non avrebbe retto allo sforzo
Camminava rapido quasi correndo ed il sangue gli pulsava nelle tempie. Intanto avvertiva la presenza dietro di se. Stavolta non aveva dubbi che lo seguisse. Ne sentiva l’alito caldo dietro il collo, ne sentiva il peso sul groppone la tal cosa lo inquietava.
Non gli era mai capitato di incontrare un gatto così insolente e testardo. In genere fuggono spaventati al solo gesto della mano. Sono timidi e ritrosi. Pensava mentre risaliva ansimando il viottolo. Nel frattempo aveva dimenticato il pane e prosciutto che, comunque, teneva ben saldo nella mano.
Provò nuovamente a fermarsi, all’improvviso e senza preavviso, ma l’animale si bloccava puntualmente. Per la durata della sosta si leccava il pelo noncurante di Piero che intanto sentiva montare l’angoscia. Brividi freddi gli attraversavano la schiena e strani presagi gli percorrevano la mente.
Ripensava e dava corpo ai racconti della nonna che sui gatti la sapeva lunga. Specie quelli neri, considerati creature diaboliche. Superstizioni che non l’avevano mai influenzato e tampoco sminuivano il sincero affetto che nutriva verso gli animali ivi compresi i gatti di tutte le razze, di tutti i colori.
Comunque la macchia nera continuava a seguirlo instancabile e determinata. Aveva percorso un bel tratto, la macchia nera lo seguiva sempre, silenziosa ma non apparentemente minacciosa, benchè lui la avvertisse in tal senso.
Si fermava e dietro di lui, questa, si immobilizzava. Tornava a muoversi e la medesima si muoveva. Come un’ombra, un’appendice del suo stesso corpo
-Ma posso mai aver paura di un piccolo gatto nero? Che dico: minuscolo!- Pensava tra se Piero mentre rideva di dentro. Il riso, però, non lo scuoteva nelle membra bensì suonava più come simulazione di sicurezza. Infatti il suo viso era teso e piuttosto pallido.
Intanto era arrivato sullo spuntone di una roccia detto “dente del diavolo” per la sua forma, dove il dirupo precipitava a picco.
Il viottolo l’aggirava di fianco. Trovandosi in posizione di avvantaggio rispetto al gatto nero che si trovava più in basso decise a quel punto di tendergli un’imboscata.
-Questa volta me la paga- esclamò per darsi coraggio . In verità non gli era mai mancato. La sua taglia robusta con muscoli turgidi percorsi da tendini forti e nervi d’acciaio gli permettevano di sfidare i più forti del paese avendone presto ragione.
Si raccontava che una volta, per scommessa, aveva alzato un asinello aggravato del peso del basto tra l’incredulità degli astanti.
Si appoggiò di schiena alla roccia in un incavo della stessa e attese il sopraggiungere del gatto.
Arrivò col passo felpato, il felino, ignaro dell’agguato.
La bestiola che per sensibilità d’istinto non teme rivali, prim’ancora di vederlo lo aveva sentito e si irrigidì sospettoso ma Piero fu lesto nell’uscire allo scoperto e sferrò un calcio di violenza inaudita.
Il gatto, per un attimo colto di sorpresa, ritrovò la sua abituale agilità potenziata dalla paura e balzò da terra quasi fino al volto di Piero che poté vederlo nel suo aspetto più spaventevole: Col pelo irto, gli occhi dilatati a dismisura e gli artigli sfoderati.
Piero che aveva caricato il colpo di tutta la sua potente energia e sottovalutata l’estrema agilità del felino, non avendo colpito il bersaglio, si sbilanciò e annaspando l’aria cadde nello strapiombo andando a fracassarsi le ossa a dieci metri più in basso dove un roccione sporgente interruppe la sua caduta.
Rimase inerte con le braccia a croce e le gambe divaricate e prima che un fiotto di sangue rosso vivo gli scolasse dall’angolo della bocca semiaperta e gli occhi perdessero la luce, riuscì a vedere per l’ultima volta il gatto nero che facendo capolino dall’alto lo scrutava e gli parve che ghignasse.
Fu trovato nella medesima posizione l’indomani di primo mattino quando i carbonai risalivano, con i loro muli, la montagna,
Anzi, per essere più precisi, furono proprio i muli che avvertirono l’odore del sangue. Si impuntarono e non vollero più muoversi.
Gli uomini, allora, guardandosi intorno per trovare la causa che aveva reso irrequieti questi umbratili animali, scoprirono il corpo esanime di Piero.
Un gatto nero accovacciato vicino a lui si leccava i baffi appagato.


IL SUICIDIO IN CORNICE

Un pittore, per la verità con poco talento volle, un giorno, realizzare un’opera figurativa. Non una qualsiasi opera, ma l’opera con la O maiuscola. Questo per riscattarsi degli anni di mediocrità (molto, una vita spesa per l’arte) e dalle umiliazioni subite nel corso degli stessi.
Nel chiuso del suo studio, dopo molteplici rituale che gli favorivano la massima concentrazione si apprestò a braccare la grande idea ovunque essa si trovasse.
L’idea gli frullava nel cervello già da alcuni giorni: un embrione, informe, imprecisa. Per la verità ancora un mollusco di idea. Lo provocava, si affermava con maggiore nitidezza che gli appariva, quasi subito, illusoria.
Rifluiva dall’astratto al figurativo, oscillava dalla forma all’informe in infinite variazioni intermedie. Abbandonava la sua naturale sede per vagabondare anonima e per riannidarsi altrove (perché è notorio che le idee circolano velocemente).
Si celava nel buio della sua fantasia ma la luce della ragione la rivelava nuovamente, incompleta, insoddisfacente ma accattivante nello spasimo della ricerca.
Il pittore, quel giorno, intensificò le indagini. Dispiegò notevoli energie cerebrali e diede fondo a tutte le sue riserve intellettuali. Parlò alla ipotetica “idea” rivolgendosi agli angoli, ai buchi, dietro i mobili, sotto i tappeti del suo studio e particolarmente, data la sua certezza che lì fosse, alle zone più remote del suo cervello.
Parlo con “lei” dolcemente, con toni persuasivi, la vezzeggiò, la adulò. Simulò ira funesta e tremende vendette qualora l’avesse acciuffata. Tentò di ingannarla con ‘richiami’ sonori, profumati, visivi. Accese incensi, scelse musiche struggenti, creò illusioni visive. Voleva accorciare i tempi con ogni mezzo presupponendo che la febbre di creatività e lo stato di grazia non sarebbero durati a lungo
Non appena perdute le speranze si abbandonò sfinito sul pavimento, in quanto aveva smarrito l’accenno di idea tra i meandri dell’inconscio, nel deliqui di tutto il suo essere, la vide riemergere, sozza di scorie ma quasi corposa, dal profondo.
Si alzò in piedi e gridò “Eureka”. Era lì, presente, tattile, quasi vera
“Si tratta ora di fissarla nella mente” pensava “imbrigliarla, prima ancora che mi sfugga di nuovo”.
Rincuorato e nuovamente fiducioso si apprestò alla ripulitura dell’immagine grezza prima di darle corpo sulla tela.
Fischiettando e gesticolando seguiva, ad occhi socchiusi perché non sfumasse, i contorni dell’idea.
Intanto rifletteva ad alta voce “si opera la ripulitura, si elimina il superfluo…e alé…”
“Ne ero convinto. Essa preesisteva già, occultata, nel mio cervello geniale. Ricoperta si di sedimenti ma già perfetta in se stessa.”
“Quando l’avrò scarnificata, depurata, levigata, resa nitida e visibile nei minuti dettagli, diverrà il mio capolavoro. Vedranno, vedranno, uscirò finalmente dall’anonimato”.
Infine, fissata l’immagine perseguita, procedeva all’abbozzo (fase prima dell’opera pittorica). Dapprima con incerto segno, di contorno, poi con sempre maggior sicurezza, fino alla completa realizzazione grafica dell’idea prima. Certo di avere scoperto l’essenza della verità.
Il prosieguo fu conseguenziale pur non mancando momenti di incertezza, di ripensamento, di modifiche del già fatto, di scoramento, di sensazioni di inutilità e di percorrimenti di strade già tracciate.
Passò a riempire campiture cromatiche, curò i chiaroscuri, sovrappose i segni di uno stile personale.
Quando fu certo della completa elaborazione pulì con cura i pennelli ed esclamò “Ora non mi sfuggi più!”
Fece più volte tre passi indietro per rimirare e mettere a fuoco l’insieme, misurò le proporzioni, isolò i dettagli guardando tra le fessure delle dita, assunse espressioni distese, compiaciute, aggrottate, soddisfatte e dopo qualche ritocco sistemò una vecchia poltrona davanti al quadro e continuò, attento, a fissarlo.
Restò immobile con il viso appoggiato sulle mani, muto, per un tempo che gli sfuggì, distaccato onde valutare obiettivamente. Poi si alzò furibondo urlando e piangendo di rabbia.
“Non volevo questo oh oh oh”.
Si percosse il capo con il pugno chiuso e si schiaffeggiò ripetutamente il volto.
“Non questo cercavo, non questo volevo”
ed in preda ad un grave stato di eccitamento continuò tra un singhiozzo e l’altro. Non voglio dire che ‘lacrime cocenti gli solcavano le gote’ ma piangeva di un pianto vero, dirotto.
E continuava :
“Non un contorno dell’ideaaa, desideravo, la sua pantomimaaaa, il suo doppio, il suo riflesso, l’imitazione seppur fedele, la smorfia, le sembianze esteriori, ma l’idea stessa sita nell’intenzione, volevooo”.
E urlando ancora di rabbia:
“La veritààà, nell’idea, è situata altrove. E’ dentro l’immagine stessa che si rivela ingannevole, mutevole nella forma”.
“Allora il problema è di smembrare la forma stessa, scandagliarla, dissacrarla, logorarla, scarnificarla, ricercare nelle sue viscere, smontarla e ricomporla con modalità diverse. Eluderla nella sua ingannevolezza e trafiggere con chiodi arruginiti la verità che si racchiude e si cela in se medesima”.
Farneticava, forse, angosciato dal fatto di avere scoperto che la sua ultima non era l’OPERA ma un lavoro (dei tanti realizzati nel corso della sua lunga attività) senza nervi e sangue, come lui stesso li definiva, e senz’altre valenze e significazioni particolari.
Schiantato dal peso della sua mediocrità prese una grande, immacolata, tela e la distese al centro della stanza. Si adagiò sulla stessa, provò più posizioni ed infine ne scelse una (per la verità ricavata da quella del Cristo in una deposizione del noto pittore del ‘600) e si tagliò le vene dei polsi.
Il sangue fluiva sulla tela creando casuali campiture purpuree simili a fiori carnosi che ben si intonavano al bianco di fondo ed al suo corpo che perdeva colore.

Il perito che constatò la morte per suicidio prendendo misurazioni e rilievi commentò:
“E’ proprio un ‘quadro’ drammatico, direi tragico”.

L’anima del pittore che indugiava ancora nello studio prima di involarsi verso i pascoli del cielo sorrise compiaciuta e pronunciò sotto tono per non essere udita:
“E’ un’opera veramente geniale”.


 

LA GOCCIA

Il rumore insistente della goccia disturbava il sonno di Mario che nel dormiveglia subiva, svuotato della volontà, il ripetersi ossessivo del suo battito. Incapace di scuotersi dal torpore che gli invadeva le membra. Quasi ipnotizzato dalla esattezza cronometrica di tempo e dalla ripetitività del suono. Lo stesso, sebbene lo martellasse nel cervello, era atteso come accadimento che affermasse la sua presenza che la notte così silenziosa ed irreale, metteva in forse.
Intanto rifletteva sulla gravitazione terrestre, sulla misteriosa forza che attrae i corpi.
“Quella piccola parte di liquido tondeggiante e trasparente è perfettamente in linea col centro della terra” pensava “e quale altro elemento può spontaneamente dirigersi in quel punto con altrettale precisione?”.
Mentre il suo corpo perdeva i contorni sciogliendosi come un budino alla crema la sua mente era concentrata sulla goccia. Ne immaginava la forma. La trasparenza, il riflesso della luce sulle superfici levigate, il suo formarsi, il suo formarsi dal rubinetto, lo stacco, la caduta, l’impatto nello scarico del lavandino ed infine l’avventura solitaria nei sotterranei angusti delle fogne.
Il rapporto preferenziale con la stessa si intensificava e l’ambiente circostante diventava evanescente fino a sparire totalmente: Spariva il letto, l’armadio, i mobili, i quadri appesi alle pareti, anch’esse distoltesi mentre Mario galleggiava nel vuoto.
I rumori stessi (peraltro pochi, solo qualche fruscio nel buio) erano coperti da quello quasi metallico della goccia, scandito con alta precisione, inevitabile come il destino.
Tale incombenza era attesa con spasimo e col timore che un’interruzione improvvisa potesse rompere quell’unico filo che lo teneva saldamente legato al reale, in una notte in cui era palpabile il senso della morte e la fragilità degli esseri umani.
Il battito iniziale, sopportabile, forse anche amico nella notte cupa, a poco a poco cresceva di intensità, di spessore, di risonanza. Cresceva, cresceva e cresceva di ampiezza, scuotendo il cervello di Mario che, sottoposto a simili sollecitazioni, scricchiolava come un vecchio armadio sovraccarico.
I rintocchi gli gonfiavano la testa come per l’introdursi e formarsi di aria in un corpo vuoto, producendone la dilatazione. La sentiva librarsi come un pallone ripieno di gas e a stento riusciva a tenerla con le mani pigiate sulle orecchie, anche nel tentativo di arginare il rumore che gli penetrava dentro con prepotenza.
Quando ebbe la certezza che il suo cervello non reggesse più allo sforzo e stesse per frantumarsi in mille pezzi, il suono, o meglio il rumore, incominciò gradatamente a calare fino a riprendere il giusto tono che tanto ricordava il battito cardiaco e benché insistente divenne nuovamente tollerabile.
Fu una breve pausa giacché il ritmo semplice mutò articolandosi in molteplici variazioni come se cento mani percuotessero tamburi, tronchi cavi e altri primitivi strumenti. Stavolta erano suoni eccitanti e gradevoli.
Erano suoni, taluni secchi, altri ridondanti di risonanze crescenti ed ancora suoni sordi, gravi, asciutti, carnosi e quasi palpabili. Altri sfuggenti, calanti, crescenti, costanti nella intensità e nella durata. Certi erano pesanti e impregnati di umidità oppure asfittici, avvolgenti, lineari, tortuosi e procedenti a zig-zag.
Alcuni staccatisi dal nucleo morivano a poca distanza, altri schizzavano lontano generando altri ceppi sonori con novelli suoni satelliti. Mentre alla scaturigine degli stessi la goccia madre continuava a battere instancabile il tempo, corposa, feconda, quasi determinata
Il ritmo primitivo aprendo squarci nella notte fonda si traducevano in immagini che scorrevano davanti agli occhi esterrefatti di Mario:
Galoppi di cavalli selvatici, voli di cicogne, grandinate sui vetri, crepitii e lampi di armi da fuoco, boati di esplosioni e i loro bagliori, fuochi pirotecnici dai fantastici disegni e dai suggestivi colori.
D’improvviso, i suoni, quasi ossequiosi alla imperscrutabile volontà della goccia furono, per incanto, riassorbiti dal rumore primigenio ed il battito tornò a pregnare di se tutta la casa.
Mario subiva passivamente gli strani fenomeni e pen2- 2- sava che in fondo era una semplice goccia e se avesse voluto avrebbe potuto interrompere l’influsso malefico che lo faceva stralunare e spaziare col pensiero su cose piacevoli e no.
E la goccia continuava a cadere riempiendo il lavabo fino all’orlo poi traboccò sul pavimento e l’acqua si insinuava per tutta la casa silenziosa come un serpente.
Quando l’intera superficie fu ricoperta cominciò a salire lentamente, su, su, sempre più su, fino all’altezza delle finestre, dove, formando piccoli salti d’acqua, sboccava dalle stesse.
Il liquido invase l’esterno espandendosi, formava acquitrini, rigagnoli, laghi e piccoli mari. Si tuffava nei pendii scoscesi e crescendo di violenza si abbatteva con furia distruttrice sulle cose trascinando con se terre e alberi.
Sprofondava nei vuoti del terreno formando vortici che risucchiavano ogni cosa. Raccoglieva terreno argilloso e si faceva limacciosa. Penetrava in profondità a raggelare la vita, a togliere l’aria, il respiro.
Ricopriva, nascondeva, spumeggiava, gorgogliava, diventava stagnante. Si faceva corrente e si perdeva nelle viscere della terra a formare corsi d’acqua sotterranei per riemergere dalle fonti e scorrere a fiumi di nuovo.
Zampillava cristallina, sorgiva, potabile, piovana. Si inquinava, si incanalava e crescendo di volume tutto allagava.
In fine tre volte fece girare l’ultimo legno e sommerse tutto com’altrui piacque.

Mario si alzò stralunato l’indomani, raggiunse il bagno e strinse forte il rubinetto dell’acqua.