IL SAPERE

Sogno la casa mia come una teca
di libri destinata a custodire
tal quantità che spazio non si spreca
per altro scopo che per trasferire
a chi ne senta forte in sé il bisogno
tutto il sapere che le grandi menti
per l’uomo seppero compire il sogno.
E per quanti a nutrire il bel processo
di maggiore bellezza e scienza n’abbia
la natura mandati con successo,
al loro grande ingegno rinunciare
umanità non vuole ed a sua gloria
ancor ne giungeranno ad illustrare
d’arti, scienza e coraggio la sua storia.
Ma infinito sapere è cosa vana
tentar di porre in mura assai riposte
per aver sotto chiave in una tana
a tutte le domande le risposte.
Infatti ad ogni giro della ruota
un nuovo genio negherà il passato
ed a colmare quella zona vuota
che col sapere suo ha generato
porgerà dell’enigma soluzione
ed il suo nome ad eterna memoria
scolpirà nella pietra la Ragione
iterando del genio umana storia.
Ma gli scritti che al par d’umane genti
invecchiano ma serbano la forma
sono lo specchio delle chiare menti
e di chi li compose sono l’orma.
A chi sogna perciò di colloquiare
coi grandi geni del passato umano
dal nobile scaffale sollevare
basterà il tomo giusto con la mano:
custoditi fra i righi di quei fogli
vi sono della scienza sì gli scritti
ma a chi saprà varcare gli alti sogli
non resteranno più quei detti zitti.
Ed ascoltar potrà voci lontane
di chi della Natura il libro lesse
e prima di scrutar le cose arcane
ai giganti avea chiesto quella messe
coltivata e raccolta con fatica
per chi dopo di lor fosse venuto
ad innalzare la sapienza antica
più che scorrer parole in libro muto.


IL RAGGIO VERDE

L’estate astronomica volgeva ormai al termine e non altro che pochi spiccioli di giorni restavano a vantaggio di chi, talvolta per scelta più spesso per necessità, confidava negli incerti e mutevoli cieli di settembre. D’altra parte, come rinunciare al rito sacrificale di pochi (e dunque più preziosi) denari insieme a tanta pazienza, sulle are degli Dei delle ferie estive? Innegabilmente, qualche isolata nuvola riusciva talvolta ad inumidire gli ormai rari ombrelloni: ma l’estate meteorologica resisteva e le temperature restavano alte, almeno a sufficienza perché l’esercito degli abbronzati, ritornato alle consuete occupazioni, allentata la cravatta, potesse lamentarsi del perdurante caldo. Al contrario, gli ultimi frequentatori delle semideserte spiagge avevano ragione di complimentarsi (con se stessi o fra di loro) per l’intelligente scelta. Leo era, suo malgrado, uno di questi ultimi; ma non aveva alcun motivo per sentirsi fiero di sé o grato al caso: solo una serie di eventi (e non privi di disagi) lo aveva condotto ad una così rinviata e breve permanenza nella sua residenza estiva. E così, anche lui provava a mitigare la frustrazione, ricorrendo al patetico atteggiamento della volpe incapace di raggiungere l’uva. Si sforzava così di apprezzare le strade tornate quiete, i locali pubblici nuovamente disponibili al servizio celere e cortese, le spiagge silenziose di ritmate assordanti musiche, di sani giovani lieti e vocianti, di bimbi stanchi ed urlanti, di improbabili guru dell’ombrellone accanto, dispensatori di sapienti analisi ed imbarazzanti soluzioni ai mali del nostro tempo e del nostro Paese. In verità, Leo apprezzava sinceramente gli scorci di pacata solitudine di cui poteva godere sulla spiaggia, specie la sera, al crepuscolo, quando le già rare presenze si riducono con modi solleciti e fugaci, a mano a mano che il sole, abbassandosi sull’orizzonte, sembra giganteggiare, la sua luce divenire più calda e la temperatura seguire il percorso inverso. Leo per quella sera (che per lui sarebbe stata l’ultima al mare) s’era ripromesso di godersi ogni istante del tramonto che si preparava ad una rappresentazione oleografica. Varcato dunque il cancello che direttamente dà sulla spiaggia, Leo esitò per assicurarsi, prima di proseguire, che tutto fosse come l’aveva immaginato: poche e distratte persone intente per lo più al rientro; nessuno che invitasse all’acquisto di sgargianti vesti o di superflui ed imbarazzanti arredi; il sole già impegnato nella fase conclusiva del suo quotidiano ciclo, che lo fa più amico ed accresce in noi la nostalgia. Leo, ragionevolmente soddisfatto dello scenario (quasi ne fosse il regista), si avvia e scende verso la mutevole e dialettica zona perennemente incerta fra la terra e il mare: lì si arresta, non senza essersi concesso un ragionevole spazio di sicurezza dalle pur lente e appena percettibili onde. E’ questo il momento in cui poter dare il via al tentativo di concentrazione ed astrazione ad un tempo: la prima sul soggetto della sua osservazione, la seconda da ogni elemento di possibile disturbo. Tutto si svolge secondo le sue aspettative al punto che Leo si chiede se potrà vedere anche il leggendario “raggio verde” o se questo non sia che l’effetto dell’abbagliamento per aver fissato troppo a lungo il sole. Ormai il rito sta per compiersi quando, inattesa e sgradevole, una voce irrompe nella sua solitudine: “Sei qui a vedere la fine del giorno?” Seccato, oltre che dal disturbo in sé, dalla familiarità del “tu” e dalla ovvietà della domanda che lo sottrae al suo tentato nirvana, Leo si gira di scatto, pronto a ristabilire i limiti del proprio spazio meditativo. Ma un semplice sorriso, enfatizzato dall’intenso incarnato e dal candore dei denti, lo fa esitare. L’inatteso interlocutore interpreta il silenzio di Leo come un invito e continua: “Tutti corrono da tutte le parti ma nessuno si ferma a guardare il giorno che finisce.” Incredibile: non ci mancava che il “vu’ cumprà” filosofo! “Eh, già!” risponde Leo nella speranza che tanto possa bastare a chiudere sul nascere un dialogo non atteso e non richiesto. Ma l’ambulante, posato il pesante fardello di merci (prodotte chi sa dove e da chi) continua con gentilezza: “Guardare il tramonto aiuta a capire che nulla dura in eterno…” (Leo, pazientemente, annuisce) “…Si deve però anche ricordare che ciò che vediamo accadrà nuovamente domani.” (Leo medita sull’accostamento che è quasi un ossimoro: ricordare ciò che accadrà!) “Ma non voglio disturbarti: continua a guardare … No, non voglio soldi: mi basta aver parlato con te perché sai fermarti a guardare il tempo…”. E l’ambulante, caricato sulle spalle il suo sproporzionato e malsicuro sacco di mercanzia, si riavvia verso il suo destino di lunghi faticosi cammini e brevi improduttive soste. Leo rimane sconcertato e scontento di sé: perché non lo ha invitato a cena? Perché non ha scambiato con lui qualche brandello di pensiero? Ma ormai il breve incontro si è consumato. Leo si ferma ancora qualche istante, quasi ad assicurarsi che il rito si compia come di consueto e che il rosso fuoco del sole si tuffi nel piombo dell’acqua che lo serberà in custodia fino all’indomani. Poi, anch’egli riprende il suo cammino breve e faticoso quanto una vita.


LA SIGARETTA

Quel giorno, senza un motivo, Leo era uscito di buon mattino, il cielo ancora incerto fra un bianco lattiginoso ed un vago azzurro. Era un giorno festivo o, comunque, senza impegni; insomma, uno di quei giorni in cui la consuetudine richiede atteggiamenti pacati, gesti lenti, saluti ossequiosi ed abbigliamento ricercato. Proprio a quest’ultima raccomandazione Leo invece solitamente contravveniva, abituato com’era ad una regola duale che lo vedeva nei giorni non lavorativi adottare un abbigliamento ricercatamente sciatto quanto comodo. Invece, quel giorno aveva sentito quasi la necessità di ricorrere a quella che, quasi a prenderne le distanze se non ad esorcizzarla, usava chiamare la “divisa d’ordinanza”: giacca bleu, pantaloni grigi dall’impeccabile riga, camicia azzurrina, gilet giallo e cravatta regimental in tinta. Eppure non doveva lavorare, anzi avrebbe tranquillamente potuto dedicarsi ad una delle sue innocue occupazioni, tanto scarsamente impegnative quanto improbabili nelle finalità ed incerte nell’esito. Ma, no! Rasato a puntino, pur se non ancora definitivamente sveglio, il passo consuetamente ed inspiegabilmente affrettato, se ne andava, guardandosi intorno alla ricerca forse di un nesso fra l’opprimente sogno che gli aveva impedito un sonno ristoratore e la cosiddetta realtà che i sensi si ostinavano a restituirgli ancora incerta ed opaca. E poi, cos’erano quelle parole che gli si riaffacciavano testarde alla mente, ma veloci a sottrarsi tanto da impedirgli di ricomporle in un pensiero compiuto. Le strade quasi vuote (ulteriore ed inequivoco segno di un paese ancora impigliato nel sonno) gli restituivano il rumore dei suoi passi che stentava a riconoscere come propri. Quel rumore ritmato disturbava così ulteriormente il suo tentativo di disfarsi degli oscuri sogni con cui continuava inconsciamente a confrontarsi, mentre la realtà non riusciva ad affermare la sua cartesiana primazia sugli impalpabili ed incoerenti scenari che affollano la notte. Leo intanto si andava convincendo che motivo del suo inconsueto approccio alla giornata fosse la ricerca di un filo da disbrogliare (per dirla col poeta), qualcosa capace di costituire un continuum fra il turbinio della mente e la fissità delle cose, fra le parole ed il loro senso; e poi, quali parole, se non le rammentava ma che oscuramente avvertiva terribili? Chi, come lui mattiniero e già soddisfatto occupante di una rara e scomoda panchina, lo avesse visto prima e guardato poi passare, non avrebbe potuto mancare di chiedersi quale premura lo spingesse a quei passi lunghi e faticosi, quale urgenza motivasse l’andare frettoloso, cosa indagasse quello sguardo fisso ma perso. Domande oziose, corriamo tutti verso Samarcanda, avrebbe a una tale indagine risposto Leo, mai sazio di speculazione ma, da buon meridionale, fatalista la sua parte. Ed ecco, infatti, più che comporsi, si materializza davanti a Leo una scena che ne cattura l’attenzione: due ragazzi (come usa dire di chi, non più giovanissimo, non è ancora appesantito dagli anni e dalle responsabilità tanto da esser detto uomo) due ragazzi – si diceva- alti, slanciati e dai modi ostentati ed indolenti, uscivano da un bar e (certo dopo un caffé) davano luogo all’inevitabile rito della sigaretta. Lento e teatrale il gesto, ostentata e voluttuosa la drammatizzata aspirazione del fumo che veniva (più che espirato) cautamente affidato in azzurrognole volute all’aria ferma che, grazie alla differenza di temperatura fra questa e quelle, le allontanava e diradava pigramente verso l’alto. Scena oleografica, si dirà. Ma ad un osservatore acuto ed esperto non sarebbe sfuggita la mancanza di un ultimo, ma non meno significativo, gesto: ecco che, data una superflua e distratta occhiata al troppo leggero ed inconsistente pacchetto di sigarette, l’indolente e soddisfatto fumatore ne punisce la vacuità, accartocciandolo e, finalmente, ricusato con stanchezza e disprezzo lo getta via ad un paio di metri da sé. Ora il quadro è compiuto: il marciapiedi (altrimenti liscio, lucente e libero d’ogni ingombro, come di rado è dato vedere) è stato ricondotto al comodo ed omologo stato che gli compete, grazie all’inevitabile stigma di cui lo ha arricchito il maschio latino. Leo è basito: si arresta di botto, incredulo per un verso ed incapace a decidersi per l’altro: un fragoroso “che fare?” gli esplode nella mente. Come gli accade a volte in situazioni estreme, pensieri del tutto incongrui lo distraggono e, forse per soccorrerlo, rimuovono il problema presente, sostituendolo con altri non meno gravi ma assolutamente inadeguati alla bisogna. Ma ecco che fortunatamente gli torna alla mente la metafora con cui usa paragonare i momenti conflittuali della vita a quelli di una partita a scacchi. Insomma, per salvare il pezzo minacciato occorre decidere e scegliere fra le sole tre possibili opzioni.
CATTURA DEL PEZZO ATTACCANTE – Accettare la tacita sfida e, raccolto il metaforico guanto, affrontare (pur cautamente) e redimere i due? Leo (nomen omen), quasi novello personaggio tragico, si risolve all’azione e (incautamente fiducioso nel proprio abbigliamento e negli insegnamenti libreschi più che delle esperienze di vita) con volto e voce amichevole chiede all’autore del “misfatto” come mai abbia gettato in terra la cartaccia. Quello sembra non comprendere; ma, colto poi il senso della domanda e, “Ma cosa vuoi?”, gli esplode in faccia con la più retorica, insofferente e provocatoria delle domande. L’altro giovane avverte sentore di rissa e, raggiunta la coppia, “Cosa cerca questo imbecille?” rincara con una domanda rivolta all’amico ma diretta a Leo.
INTERPOSIZIONE DI UN PEZZO – La situazione rischia di degenerare: è forse il caso di mutare strategia. Grazie alla lunga esperienza fotografica, Leo è in grado di cogliere rapidamente gli angoli estremi del campo visivo: ma non scorge nulla e nessuno che possa costituire un riparo o un soccorso. Intanto i due, ingigantiti dalla evidenza della propria superiorità fisica, lo incalzano sempre più dappresso e “Ma vedi d’andartene!” gli intimano, esibendo minacciosi i pugni. Occorre ora sapere come nulla più della violenza fisica sia alieno dalle frequentazioni di Leo; contro due giovani, poi…
FUGA – Leo comprende suo malgrado di dovere scendere a patti con le proprie buone intenzioni (se non con la propria coscienza) e così, con finta noncuranza, si prepara ad una cauta ma esplicita ritirata. In fondo si tratta solo di un pacchetto di sigarette! Perché rischiare l’incolumità per una tale inezia? Si conclude così tristemente il tentativo di Leo di contribuire alla rinascita della sua città. Comprensibilmente, però, lo smacco subito è troppo umiliante, la ferita troppo profonda, la frustrazione troppo cocente perché si possa sorvolare. Leo corre dunque ai ripari e, scaltro, muta il problema in una opportunità. Prende allora a narrare l’accaduto a quanti hanno a cuore il decoro e la buona educazione, esibendo così il suo orgoglio ferito e facendo dell’episodio motivo di apprezzamento per sé e di vergogna per i due “incivili” del cui comportamento tutti si dicono allibiti e da cui tutti prendono le distanze. Intanto, il tempo trascorre insensibile a queste marginalità, il racconto perde di attualità, scema l’interesse, il pubblico è ormai esaurito insieme alla spettacolarità dell’avvenuto. Come quel commensale, ormai più che sazio dei piatti gustati in quantità, comincia a riflettere sui motivi della sua voracità ed alle sue conseguenze, Leo sposta l’attenzione dalla bulimica ricerca di consolazione e consensi ad una interpretazione meno frettolosa dello stigmatizzato agire dei due giovani. Gli appare allora chiaro come quel comportamento sia un effetto e non una causa del degrado civico: potremmo dire che giovani di tal fatta siano oggi i messaggeri, domani i moderni interpreti, infine la cinghia di trasmissione della diffusa inciviltà. Non è infatti lecito pensare che i loro genitori, i loro insegnanti, i rappresentanti delle istituzioni, insomma noi tutti dovremmo essere chiamati a rispondere di questa oscura trasformazione del dottor Jekill in mister Hyde? Come pensiamo possa evolvere un giovane in formazione se non secondo il modello che gli “adulti” gli propongono con le parole e, soprattutto, con il proprio comportamento? Sono gli adulti che detengono il potere, stabiliscono ed indicano cosa è consentito e cosa vietato, quale modello di comportamento adottare per ricevere il premio ed evitare la sanzione. Ed ecco che finalmente, tornano in mente a Leo le parole che in una lontana notte gli avevano turbato il sonno e che forse possono aiutarlo a rivedere criticamente giudizi e comportamenti: “Tutti pensano di dover cambiare il mondo, ma nessuno pensa di dover cambiare se stesso.” E ancora: “Se la gente intorno a voi è sprezzante, chiedetele perdono, perché la colpa è anche vostra se non vuole ascoltarvi.”