Il pianista con quattro mani

Era dolorosa la mia musica, quando ero bambino. Non ammetteva errori, mio padre. Amava ascoltarmi suonare, con il suo sigaro nella mano inanellata e la coppa di vino nell’altra, seduto comodamente sulla sua poltrona di velluto rosso, accanto al camino. Ricordo ogni movimento delle mie dita, accompagnato da sbuffi di denso fumo. E ricordo che ad ogni sbuffo avevo un fremito, un rigagnolo di sudore correva lungo la mia schiena, come se quella coltre grigia fosse ambra pronta a cristallizzarsi attorno alle mie mani o una nube sulfurea pronta a soffocarmi. La melodia incalzava sui tasti e nella mia testa, di pari passo col battito del mio cuore. E poi ecco quell’attimo perduto, quella nota dissonante esplodere nell’aria come un suono graffiante che sibila su nera ardesia, spaventoso come occhi spalancati, come un grido di un bambino, come una stanza buia e fredda come quello stesso pianoforte. Dopo quel suono solo cristalli in frantumi. Una macchia rossa si allargava silenziosa sul tappeto disteso di fianco alla poltrona scarlatta. Il colpo arrivava due secondi dopo, con un tempo perfetto, come crudele ammonimento per il mio errore. Non lo vedevo mai arrivare. Lui sedeva alle mie spalle. Una volta mi ha incrinato tre costole grazie al metallo di quei dannati anelli. Aspettavo quel colpo come il bacio dell’angelo della morte. Eppure ogni volta eccomi sveglio, con tagli e lividi e vetro sul viso sporco di vino.
Era stato un eccellente pianista mio padre. Eppure alla mia nascita aveva ritenuto che la sua arte, tutta intera e levigata, dovesse essere affluita in me. Quindi ogni mio errore era un insulto al suo talento. Ma poi le punizioni iniziarono a perdere ritmo, a perdere senso. Seguivano un paio di bottiglie vuote e non più uno sbaglio. Così finalmente capii. I miei passi falsi avevano una sola semplice causa: mio padre. “Il mondo è diventato un posto troppo rumoroso”, mi diceva, “ha un disperato bisogno di buona musica.”
Ma io capii che era lui la nota fuori controllo, controsenso. Era inconsapevolmente diventato strumento di quella cacofonia che opprimeva il mondo. Sognavo melodie perfette ed infinite, ma lui nei miei sogni non c’era. Così allargai i miei orizzonti, allentai i miei sensi e composi la più grande sinfonia che mente umana abbia mai concepito. Era oltre e tutt’uno con quegli ottantotto tasti.
Mi bastava rimuovere le corde scordate, quelle logore e infamanti: mio padre e chi come lui minacciava di compromettere l’essenza musicale dell’umanità.
Una sera. Fuoco nel camino. Eccolo il mio primo palcoscenico. Ero musicista e divino missionario, soldato della mia sacra crociata. Mio padre alle mie spalle. Sigaro e vino. Le abitudini rendono l’uomo debole. Fu l’unica volta in cui suonai calmo, forte dell’orgoglio riposto nel mio grandioso progetto. L’errore lo scelsi con cura, come la preda che dà al cacciatore l’illusione del dominio, attirandolo in una trappola in un emozionante scambio di ruolo.
Bicchiere in frantumi, sbuffo di fumo, legna che sfrigola, un secondo, tonfo del sigaro, colpo in arrivo, lo schivo, due secondi. Il mio orecchio e il mio tempo non mi avevano tradito. Fendo l’aria con l’attizzatoio, un istante prima mimetizzato nella penombra sullo sfondo del nero legno del pianoforte, il mio complice. Per un attimo l’ambiente appare surreale. Come se Dio avesse messo il fermo-immagine. Come se in qualche modo l’aria fosse stata risucchiata e ogni suono fosse diventato impossibile, ogni movimento troppo gravoso. Mio padre è lì, trafitto, accigliato, immobile. Insieme al sangue defluisce dal suo corpo anche l’intenso rossore delle sue guance perfettamente rasate.
Credo che il cielo dovette lanciarmi un plauso silenzioso per la chiave di violino del mio eroico spartito, perché l’esplosione del rosso vivo del sangue e del vino versato e del fuoco che riluceva contro la poltrona scarlatta squarciando il crepuscolo, somigliò al più mozzafiato dei tramonti.
Ma non avrei concesso alla morte di putrefare le mani che pure un tempo avevano servito la mia Signora, così gliele sottrassi con una lama col manico d’avorio lasciando che il fuoco divorasse il resto. L’incendio divampò dal suo cadavere al resto della casa. Non feci nulla per impedirlo. Quelle mura erano state ignobili e inermi testimoni. Dando adito a tutte le mie forze salvai il pianoforte; lo portai poco lontano, in aperta campagna. Lontano com’ero dalla città sarebbe passato molto tempo prima che qualcuno venisse a placare le fiamme. Le osservai prendersi tutto e il fumo nero che entrò nelle mie narici e nei miei occhi e nei miei polmoni mi purificò. Mi sedetti, il luogo delle mie torture e della mia illuminazione sullo sfondo, suonai Bach.
La mia composizione non finì quella sera, quella sera fu solo l’inizio. Quella bellezza e quella purezza meritavano un seguito. Fuggii in cerca di altri dannati rumori da eliminare per sempre. Ma Dio, o il mondo, non lo so, non erano ancora pronti ad ascoltare la mia arte purificatrice! Fu così che Dio, o la natura, non lo so, fecero in modo di togliermela. Tutto ciò che avevo, era lei! Lentamente, ad ogni nuova nota, ad ogni vecchia corda tagliata dal sottoscritto, ecco che lei defluiva dalle mie mani, diveniva aritmica, stonata, crudele. La mia Signora mi stava abbandonando a braccetto con la vita di quelli che facevano tanto rumore, come mio padre. Neanche queste sue mani, da me custodite come una reliquia, servirono a invertire questo processo di perdita. Mai come la sera in cui l’avevo ucciso suonai più. Mi dia l’assoluzione, padre! E riporterò l’Eden del Signore, queste mie dita macchiate dal peccato sono intorpidite dal peso del sangue, stanno perdendo abilità!—
Il prete lo guardò indifferente, distante, quasi annoiato. —Seguimi.— Disse dopo un attimo.
Lo portò in un grande salone attraverso un umido cunicolo scavato nella roccia sotto l’altare. Pressoché vuoto, se non fosse stato per un vecchio pianoforte con splendidi intarsi artigianali, due sgabelli e un cordone di cotone rosso che pendeva dal soffitto . L’assassino sfoggiò uno sguardo sorpreso, estatico. Ancor maggiore fu la sua sorpresa quando il prete gli strappò dalle mani il contenitore con le mani imbalsamate del padre e si diresse verso il pianoforte. Lo poggiò appena al di sopra degli spartiti e scoprì la tastiera. Quale incredibile melodia iniziò ad aleggiare nel salone! Il prete e il piano sembrarono elevarsi al di sopra della cattedrale e del cielo stesso. Alla fine dell’esibizione il peccatore gli si avvicinò commosso mentre l’uomo di chiesa riponeva gli spartiti.
—Concedo a te l’assoluzione e a mio padre la vendetta.— Quello del ministro del Signore fu un flebile sussurro ma, leggera e rapida come un serpente, la sua mano scivolò nella giacca dell’altro e ne trasse la lama con l’elsa d’avorio che cercava. Fu preciso. E letale. L’acciaio punse il cuore del pianista facendolo sussultare. I suoi occhi si piantarono sulla lama e poi in quelli del prete.
—Finalmente ti ho trovato, fratello.— Mormorò soddisfatto, finalmente redento.
Il prete lo adagiò sul secondo sgabello con la fronte riversa sul legno elegante, mentre il sangue del suo sangue fuoriusciva a fiotti tingendo il marmo chiaro come un pittore impazzito. Tirò il cordone e riprese a suonare. Un meccanismo scattò e di colpo un piede del pianoforte prese fuoco. Una nuova musica incalzò, incisiva e devastante, come affondi di una spada sempre più veloci. Neanche quando lui e suo fratello presero fuoco si fermò.
Tra i pochi che conservarono il senno dopo essere entrati in quel salone, c’è chi giurò che v’erano rimasti solo due corpi carbonizzati. Carbonizzati, sì, escluse le loro mani. E la carta dello spartito che al cospetto del sangue aveva preso vita. Le note erano vermiglie, l’inchiostro delle ultime due sembrava essere esploso sul foglio.
Da allora, mai alcuno ha suonato quello spartito senza consacrare la propria anima alle fiamme dell’inferno.