GIOSTRE

Costruire una giostra di filo di vetro
con nastri e perline
con i campanili dietro.
Lavoro di lima
di calma e maestria,
prima che Lui te la porti via.
Come ti senti che tutto è finito?
che tutto si è rotto ed è bastato un dito?
Era il dito del vento,
potente e meschino
che adesso fa segno:
“Controlla il taschino”.
Infili la mano, hai un soldo bucato
riguardi quei cocci e il tuo conto salato.
Sei rosso paonazzo e ti trema la voce
dall’occhio la goccia ti scende veloce
la gola che raschia
la mano che stringe
la guancia che a poco a poco si tinge.
La giostra è distrutta
la forza è finita.
Nessuno si immerge due volte
nella stessa acqua
e nella stessa vita.


 

VISTA DI POETA
La piccola schiera di gente arrabbiata,
golosi, avari, cattivi, accidiosi,
poi ci son loro nel cerchio più alto,
sono i poeti.
Sono irrequieti, in cerca di pace,
è Lui che l’ha scelti,
l’ha fatti profeti.
Illustri poeti che vedono cose
che il modo beffardo ha creduto oziose.
Meschini poeti che scrivon canzoni,
che mimano il canto nel cerchio
che arde di brace.
E’ Lui che gli ha dato la pena crudele:
hanno penna, candele,
gli manca l’orecchio
gli manca la voce.
Così quei poeti, che colpa non hanno,
non cantano, tacciono.
Non odono, scrivono.
E ognuno cammina veloce, irrequieto,
nel cerchio che tace.


LA LINEA CHE CHIUDE LE COLLINE

La solita porta difettosa.

“Fa caldo,  Antonia. Ma sei sicura che sono le chiavi giuste queste?  Tieni, provaci tu.”

“Non ci voleva tanto. Bastava meno forza.”

I soffitti alti del vecchio casale creavano la giusta temperatura, la frescura le si appiccicò alle spalle sudaticce e la fece rabbrividire. Antonia Gerardi, ballerina al teatro dell’opera, trent’anni, ma con un viso dolce da ventenne con suo fratello Marco, impalati all’ingresso dell’odiato casale. La porta ancora spalancata alle spalle.

Antonia fece il primo passo dentro il corridoio lungo, tutto era più piccolo ora che aveva raggiunto i suoi 168 cm di statura. Ebbe il coraggio persino di addentrarsi fino alla cucina. Si sedette sopra il vecchio tavolo di marmo, quello per impastare.

Le sembrò di sentire un odore che era sicura di avere dimenticato. Il polpettone di tata Sanna fumava dentro le sue narici. Quando Sanna lo cucinava era una festa per lei e i suoi fratelli, che già mentre si svegliavano ne riconoscevano l’odore e lo avrebbero mangiato pure per colazione, se solo non fossero stati costretti a bere il tazzone di caffellatte con la rosetta inzuppata, ancora più disgustoso con l’odore del polpettone nel naso.

Poi le venne il bisogno di scacciare quell’odore e andò a spalancare la finestra.

Aveva dieci anni, Antonia, e quella mattina Sanna aveva cucinato il suo polpettone. Ricordava un’immagine e una sensazione di quel giorno. Le manine aggrappate alla ringhiera delle grandi scale coperte con la moquette rossa, le persone che andavano e venivano dalla camera da letto in fondo al corridoio, incredule e distrutte, ricordava un gran silenzio nonostante ci fossero molte persone in casa. Poi la mamma era scomparsa, nel nulla. Senza una spiegazione.

Antonia non aveva fatto domande. “La mia mamma deve essere morta”, avrebbe confessato a Sanna anni dopo. Non aveva ricevuto di nuovo risposta, solo un pianto incontrollato in un abbraccio soffocante della vecchia e paffuta donna. Com’era morta la mamma non l’aveva mai capito fino in fondo, anche ora, all’età di trent’anni, Antonia non faceva domande.

Della mamma aveva sempre ricordato di nuovo solo un’immagine e una sensazione: il sorriso dolce e la sensazione di essere al sicuro quando la appoggiava sotto il collo per consolarla.

“Antonia tu dormi nella camera di mamma e papà.”

“No mi sa che dormo con te, lì è tutto impolverato.”

“Antonia ti ho detto che devi dormire lì tu.”

Marco controllò che la sorella prendesse le sue cose, la seguì con la coda dell’occhio fino a che non arrivò davanti alla porta della camera dei genitori. Poi entro nella sua cameretta chiudendosi la porta alle spalle. Si accese una sigaretta che consumò avidamente con pochi tiri e si stese sul letto con le cuffie nelle orecchie.

La camera alla fine del corridoio era quella dei genitori,  Antonia ci  era entrata solo poche volte.

La porta era chiusa a chiave, la chiave era arrugginita e dura da girare. Dovette afferrarla con entrambe le mani. Cigolava. La camera aveva i soffitti alti e dentro c’era freddo, l’aria viziata  puzzava di vecchio.

Entrò spedita e si diresse ad aprire la finestra e le venne in mente che talmente la soffocava l’aria di quella casa, con i suoi ricordi e i suoi odori sempre vividi, con le sue pareti parlanti, che era già la seconda finestra che spalancava per cambiare l’aria. Le cadde l’occhio sulla copertina ingiallita di “Les Fleurs Du Mal”, sul davanzale della finestra. Lo prese in mano con delicatezza e lo aprì.

25 luglio 1983

A te, Lucia,

che sei l’ Amore,

al di là del bene e del male.

Giovanni

Antonia richiuse il libro velocemente e lo lasciò cadere per terra quasi scottasse. Chi era Giovanni che amava la mamma al di la del bene e del male? Si sentì quasi in colpa per aver aperto quel libro. Uscì dalla camera per andare a raccontare il fatto a Marco.

lo trovò che ronfava sul vecchio lettino con il baldacchino. Un omone muscoloso con i piedi che sporgevano dalla testata del letto. Era bello Marco mentre dormiva, conservava l’aria da bambino dentro quel corpo gonfio. Aprì l’armadio per prendere un lenzuolo per coprire il sonno di Marco e fu lì che trovò la scatola. Dentro una vecchia confezione di latta di biscotti erano conservate lettere e cartoline.

Antonia richiuse la scatola velocemente e la ripose nell’armadio, sotto il cuscino ammuffito dove l’aveva trovata, quasi avesse timore che i genitori potessero  vederla frugare nella loro intimità. Prese il lenzuolo e coprì il fratello, con cura per non svegliarlo. Accarezzò la guancia barbuta del fratello, sistemò il lenzuolo fin sopra i piedi che sporgevano dalla testata e rimase a guardarlo alcuni secondi.

Poi tornò indietro. Apri l’ armadio e prese la scatola di latta.

5 Gennaio 1983

Oggi abbiamo fatto l’amore. Poi hai detto che volevi andartene  e così hai fatto. Hai preso le tue cose, ti sei rivestita, mi hai stampato un bacio frettoloso. “Ciao Giovanni”,  e non t’ ho vista più.

Hai detto Giovanni in quel modo che mi fa impazzire, dici il mio nome dandogli importanza, adoro il mio nome sulla tua bocca. Lucia, abbiamo fatto l’amore e mi è parso di morire. Mi sono sentito giusto con te, per la prima volta in tutta la vita che lo facciamo. Ho sentito di volere te, nessun’altra. Perché tu sei l’amore, Lucia. Rinuncio a tutte le altre, a mia moglie, alla serenità di una famiglia sicura, al mio egoismo di uomo volubile e folle e scelgo di essere pazzo di te, pazzo per te. Scelgo di fare l’ amore con te ogni giorno come l’ abbiamo fatto oggi. Perché il mio cuore impazzito implorava la tregua dell’emozione mentre lo facevamo, perché ho pianto forte come un bambino, perché tutto quello che sentivo era troppo e dovevo buttarlo fuori. Lucia, dimmi come fai, dimmi come hai fatto. Credevo che l’ amore fosse un’ invenzione dei poeti per avere qualcosa da scrivere. Ci vuole forza per credere nell’ amore, come in Dio. Io non ho mai avuto la forza di credere in Dio, Lucia.

Antonia e Marco cenavano  stando in silenzio.

“Antonia perchè non parli?”

“Sono stanca.  Poi questa casa mi mette il malumore. Marco, ma com’è morta la mamma?”

“Antonia lo sai già. Mi passi ancora un po’ di pomodori?  Se vuoi ti porto in paese dopo.”

25 giugno 1983

Cara Lucia, sono partito.

Era arrivato il giorno. Sai che il mio posto è nel mondo e so che in fondo capirai. Cara Lucia, se potessi invecchierei con te. Ma è troppo presto per invecchiare, troppo presto per vivere di ricordi. Finché le mie gambe saranno forti io devo camminare, devo guardare, devo arricchire il mio spirito. Se rimanessi qui con te finirei per distruggere il nostro amore, la ricchezza dello spirito è l’ unico suo alimento. La mia anima non è ricca abbastanza per riposare. Sapevo fin dal primo giorno in cui ti ho amata che sarei dovuto partire oggi. Ho preferito non dire. L’amore vive della speranza di essere immortale, è amore solo se si crede invincibile dal tempo, dalle circostanze, dalle malattie, dalla morte persino. Non ho voluto tagliare le ali al sentimento  che cresceva nel tuo petto. Esso doveva vivere e fortificarsi in quella dolce, perpetua illusione di immortalità. Il sentimento che cresceva in me invece era dolceamaro, impaziente di dare e ricevere, consapevole della sua fine; ma era anche quanto di più sincero un uomo potesse voler donare a una donna: il suo presente. Senza nessun secondo fine, esso  non voleva essere lo strumento per combattere la solitudine. Il mio sentimento non era schiacciato dalla dipendenza, serpe che inevitabilmente si insinua nella quotidianità, quando si ha l’illusione che per sempre si potrà contare sull’ altro. Esso era amaro perché consapevole della sua fine segnata nel giorno. Contavo prima i mesi, poi le settimane, poi le giornate che ci separavano dalla nostra fine. E mentre tu costruivi con mattoni che credevi indistruttibili, io sapevo precisamente il giorno del loro crollo. Ma t’amavo, sempre più forte man mano che quel giorno si avvicinava . T’amavo al massimo delle mie capacità: in questo modo in cui non sono e non sei, libero dall’orgoglio, dalle paure  del mio spirito, così vicino che la mia mano sul tuo petto era la tua; così forte che ciò che le tue pupille mettevano a fuoco era proiettato nel mio cervello..

La lettera s’interrompeva così, a metà. Era strappata di netto.

Antonia ricontrollò la data, era precedente al matrimonio dei genitori. Sua madre aveva conosciuto Giovanni prima ancora di sposarsi. Le venne voglia di completare l’opera e strappare in mille pezzi quel foglio.

Le sei e trenta e  Antonia  si era alzata dal letto. Il vento aveva spalancato gli scuri della finestra e la luce dell’alba aveva invaso la camera. Si trovò a guardare le colline con quella luce, sembravano di ghiaccio: un blu cobalto con striature di latte. Antonia non riusciva vedere la fine di quello che aveva davanti agli occhi: le colline disegnavano delicate una linea curva, quasi fossero state  disegnate dalla mano di un bambino.

30 aprile 1992

“Caro Giovanni,

giuro che questa te la do. Ne ho scritte tante di lettere da quando quel giorno ho trovato la tua sopra il cuscino. Le prime settimane scrivevo ogni giorno, erano soprattutto insulti. Poi sempre di meno. Ma nonostante la rabbia, l’odio che avevo nei tuoi confronti  per l’immensa sofferenza che mi avevi procurato, nonostante avessi smesso di vivere per mesi, io non ho mai smesso di aspettarti.  Ho scritto per un periodo subito dopo aver sposato Aldo, quasi per paura di dimenticarti. In tanti anni non sei mai tornato, Giovanni. E quando iniziavo a cedere al destino che la vita aveva voluto per me, proprio tu hai comperato la casa di fronte alla mia. Gli scherzi della vita. Ho ricominciato ad amare i tuoi occhi invecchiati non appena li ho riconosciuti su quel viso ruvido. La brillantezza gli era rimasta dentro. Da quel giorno, nonostante l’amicizia che ormai lega le nostre famiglie, nonostante l’affetto per Aldo, l’amore infinito di madre che mi lega ai bambini, nonostante il male che ci siamo fatti noi due in tutta la vita, io vivo per i nostri incontri clandestini. Vivo per sentirmi tua in quella mezz’ora.  Muoio di rabbia quando ti vedo marito premuroso per mano con lei, odio me stessa quando mi sdraio al fianco di Aldo alla sera dopo aver fatto l’amore con te. Ma non posso fare a meno di volerti. Caro Giovanni, ho perso la ragione? Le pillole che prendo non mi ridaranno il senno, ma solo  una vita nuova in un batuffolo d’ ovatta. No grazie.

Caro Giovanni, spero che tu queste parole non le leggerai mai, anche se la lettera la metterò nel tuo taschino domani mattina. Lascerei tutto per te, ma  insieme noi due  ci consumeremmo e ci  tortureremmo con le nostre insicurezze, aggressività, volubilità fino a distruggerci, l’abbiamo già provato. Però più voglio separarmi da te più mi pare d’amarti.  La vita ci ha incastrati in questa trama intricata ossessiva e inumana che è il nostro amore.  Nulla, neanche la morte, può essere più doloroso di questo limbo di rabbia e ossessione che mi sta portando alla follia. Non voglio stare con te, Giovanni, ma neanche senza. Che le persone che amo possano sapere la verità e un giorno perdonare.

“Ti avevo detto di non entrare in camera mia, Antonia.”

Marco si era materializzato di fronte alla sorella.

“Perché sei andata a frugare nel mio armadio?”

“Com’ è morta la mamma? ”

Marco scoppiò improvvisamente in un pianto di singhiozzi, camminava velocemente avanti e indietro, con la testa china e le mani sopra le orecchie; strappò dalle mani della sorella la scatola di latta e la scaraventò per terra; con un calcio la spedì dal lato opposto della camera.

Aveva il viso paonazzo e rigato dalle lacrime.  Diede pugni alla porta finché non fioccò sangue dalle sue nocche. Urlò così forte che il grido gli si spezzò in gola.

Antonia si trovò attaccata alla parete opposta della camera. Poi  ingoiò un grumo di saliva che aveva il sapore dell’ inchiostro nero e urlò forte: “Com’ è morta nostra madre?”.

Marco era seduto sul letto. Antonia poteva intravedere la lacrime che continuavano a scorrere sul  viso chino del fratello, nonostante si tenesse la testa con entrambe le mani. Dopo un  lungo silenzio iniziò:

“Quella mattina ero uscito presto. Non volevo andare a scuola. Sono andato a nascondermi al frantoio, ci andavo spesso. L’ho trovata abbracciata a un uomo. Erano nudi sopra una coperta rossa.  Aveva sparato un colpo in testa a lui e uno a se stessa. Aveva la pistola in mano. Erano in un lago di sangue.” Fece una pausa, poi deglutì: “aveva gli occhi spalancati, sembravano vuoti. Te lo ricordi Giovanni vero?  Lui e la moglie  venivano spesso a cena”.

Antonia e Marco rimasero zitti mentre si abbracciavano.

Antonia Gerardi, con il suo corpicino esile da ballerina, era stretta al corpo gonfio del fratello; mentre alle loro spalle le colline di ghiaccio si scioglievano lentamente cambiando il blu cobalto con un verde carico, ferme dentro la loro linea curva.

FINE