gattoRacconto di una colonia felina

Un ampio giardino circondava l’appartamento dello stabile, costruito alla fine dell’Ottocento. era la classica villa di campagna, dimora delle confraternite del Gonfalone e del Sancta Sanctorum dal 1565 al 1839, poi nel tempo appartenuta a vari proprietari terrieri.

Il massiccio edificio aveva una pianta quadrata ed era composto da quattro piani; la facciata centrale aveva quattro ordini di grandi finestre e un balcone al centro che dava su una loggia che terminava con un grande portone in legno. L’arco portante era sorretto da due finte colonne e recava al centro lo stemma, ormai rovinato, del casato di appartenenza.
Dal piano della loggia digradavano due rampe di scale a semicerchio. Lì trovammo il nostro porto sicuro.
Verso l’inizio del Novecento il palazzo era stato totalmente ristrutturato e diviso in ventidue appartamenti. Avevamo preso in affitto l’appartamento al piano terra, con il grande giardino che circondava a destra il palazzo. Il giardino era guarnito da una balaustra in peperino del periodo rinascimentale.
Era una sera d’estate e avevamo preso possesso dell’appartamento
ristrutturato secondo le nostre esigenze. Era una bella serata fresca: nel patio abbellito dall’edera americana stavamo mangiando la classica bruschetta romana. Watts era intento a cuocere il pane, le salcicce e il pollo, mentre io e nostro figlio Cesare gustavamo le bruschette al pomodoro e, tra una chiacchierata e l’altra, ci rilassavamo dopo un periodo durissimo della nostra vita. Entrambi guardavamo Watts che,
accaldato e indaffarato, esprimeva il suo estro.
Finalmente c’era aria di festa, anche se eravamo soltanto tra di noi… Quel giardino e quell’appartamento ristrutturato ci rendevano appagati.
Avevamo alle spalle un’orrenda esperienza. Pochi anni prima, avevamo comprato un appartamento di 160 mq, definito “un vero affare”, nel quartiere della Magliana.
Erano proprio i tempi della Magliana Due. Fu quello un periodo difficile per tutti i residenti del quartiere a causa di quelle che poi giustamente interpretammo come rivendicazioni di potere da parte di Bande rivali: furono date a fuoco, macchine, negozi… e alla fine anche il nostro condominio, poiché al primo piano dello stabile abitava uno spacciatore.
Quella sera, mentre stavamo riposando, il calore del fuoco bussò
alla nostra porta: se Watts non fosse stato a guardare lo sport, Cesare e io saremmo morti, soffocati dal fumo. Potemmo fuggire, dalle scale annerite grazie al coraggio dell’inquilino dell’ultimo piano, che aprì la porta del terrazzo condominiale facendo così fuoriuscire il fumo dalla tromba delle scale, nello stesso momento in cui i pompieri spegnevano l’incendio.

La stessa sera decidemmo di lasciare il quartiere e, quaranta giorni
dopo, venimmo in possesso dell’appartamento ristrutturato. E adesso ci trovavamo seduti in quel patio al fresco. Convinti che la scelta fatta ci avrebbe permesso di recuperare la serenità perduta, avevamo dovuto di nuovo traslocare; ma questa volta avevamo la sensazione che la nuova dimora sarebbe stata nostra per lungo tempo.
Ero seduta sulla poltrona di Bambù, ricoperta dai cuscini che avevo fatto a mano, e osservavo il giardino e le varie piante che lo abbellivano.
D’improvviso, vidi due occhi rosso fuoco che si aprivano e socchiudevano nel buio. Riflettei tra me: occhi obliqui, rossi…

Non feci in tempo a combinare gli elementi, che un «miao» si levò nell’aria come una richiesta, una preghiera. Dal buio un gattone bianco e nero si avvicinò al tavolo, pur mantenendosi a una distanza di sicurezza.
Apparteneva a quella specie di felini classici, gatti bianchi e neri nostrani, che si vedono nei cortili dei condomini passeggiare tra un prato e l’altro. Ma quello che mi colpì fu l’“espressione” bonaria del muso di quel gattone, da cui trassi l’intuizione per il nome. D’istinto lo battezzai:
«Paciocco, hai fame? Micio micio», e gli lanciai un bocconcino
delizioso di salciccia e pollo alla brace. In risposta allungò le
zampe anteriori, stirandole come a piegarsi in avanti e alzando il sedere all’insù. Ringraziava o forse era soltanto una delle manovre con cui i gatti tentano di indirizzare ed “educare” i comportamenti del bipede umano.
Mi piacciono i gatti: li avevo avuti come compagni di giochi in
casa di mia zia Liana, che ogni sera era solita offrire alle loro pance affamate il pesce avanzato durante il giorno al banco che aveva al mercato dietro Piazza Navona.
Sembrava che i gatti del quartiere si fossero passati il messaggio e piano piano si erano accasati nel suo giardino-terrazzo.
Sapevo che, lanciando il primo bocconcino di cibo, al ribattezzato
“Paciocco”, avrei sancito l’inizio, di una nuova lunga avventura
con gli a-mici miao. Da quel momento il nostro giardino
divenne meta di passaggio di cucciolate. Di nascite, di drammi, di
lotte tra rivali. I bambini del quartiere, testimoni di tutto ciò, pensarono bene di convogliare qui tutti i loro ritrovamenti e le cucciolate abbandonate nei pressi dei cassonetti.
Messalina, detta anche Roscia Mar Pelo per il suo caratterino,
fu ospite della mia personale colonia felina: non sono mai riuscita
a darle la “pillola anticoncezionale”, sfornava una cucciolata dietro l’altra.

Partoriva dei gattini che erano uno splendore, sembravano
gatti di razza… Chissà cosa combinava in giro e con quali compagnie si intratteneva!
Addirittura le persone del vicinato, che desiderassero avere un
gatto di compagnia, aspettavano che i suoi gattini divenissero abbastanza grandi per poterli adottare; così li sottraevano all’abbraccio della loro madre naturale, la Roscia, che soffriva
disperatamente per ogni distacco.
Era arrivata lì perché aveva avuto informazione dagli altri gatti
del quartiere che la signora del grande giardino del Palazzone non
solo dava del cibo, ma offriva anche cure e ricovero nei momenti
di difficoltà delle loro randagie esistenze. E sì, esisteva una sorta
di “radio gatta”, una ramificata catena di comunicazione interna a
quella comunità felina. Tutti gli animali comunicano, tra di loro e
con noi umani, e quello che mi accingo a raccontare lo conferma.

Una mattina di primavera mi alzai per preparare la colazione. Entrando in cucina, tra la porta finestra e l’inferriata, con grande meraviglia vedo tre splenditi gattini. Lei, la Roscia, era nel cortiletto davanti alla finestra e mi osservava per controllare le mie reazioni: voleva verificare cioè se io avrei accettato i suoi figli. Certo la Roscia non poteva sapere che io ero stata informata dai bambini del quartiere che i vicini in buona fede le portavano via i suoi cuccioli per salvarli dal randagismo.
E tentava di giocarsi le sue carte, nella speranza che io volessi accettare il fardello della crescita di quella cucciolata.
Allora, da madre umana a madre gatta, con cautela aprii la porta finestra, dopo aver preso una scatoletta di pollo. Facendole dei complimenti
– «Ma che belli che sono, brava Messalina» –, mi azzardai
a toccarli. I suoi cuccioli, attirati dal cibo, si avvicinarono e mangiarono avidamente.

Avevo preso una cesta, una tovaglia vecchia e avevo
collocato il tutto sotto il grande tavolo a sinistra della portafinestra
della cucina, al coperto dal freddo e dalla pioggia. La Roscia Messalina si avvicinò e, da una distanza di sicurezza, osservò tutto quello che stavo facendo, mentre i suoi tre gattini saltellavano e s’intrufolavano curiosi. Lei si era seduta e, con fare indifferente, si leccava il pelo, mentre io continuavo a essere affaccendata con i suoi figli: mi aveva in qualche modo delegato la cura e sicurezza della sua cucciolata.
Mi sentivo gratificata e sorpresa.
La cucciolata era composta di tre cucciolini, uno più bello dell’altro: Pallino, bianco e nero con una panciotta tonda; Romeo, Roscio come la madre, e Conte Bonito. Quest’ultimo mangiava infilzando i bocconcini con un’unghia della zampina e portandosi il cibo alla bocca. Il suo nome derivava dal suo contegno elegante e nobile, che sembrava richiamare quell’atmosfera impressa al luogo dallo stemma che campeggiava sul portone dello stabile.
Devo riconoscere che dalla Roscia nacquero sempre gatti di carattere e forte personalità. In quella circostanza ero certa su chi era il padre. Devo inoltre aggiungere che quella colonia gattifera aveva un’importante funzione topicida per noi: io offrivo dei pasti

sani e nutrienti, loro mi ringraziavano teneramente con topini campagnoli. Uno scambio proficuo per entrambi!
Credo che quello che mi intriga dei gatti sia l’indipendenza, forse
perché anch’io sono in grado di dominare la solitudine della libertà, e ho sempre scelto il non avere padroni, preferendo solo quelle forme di relazione che implicassero una rispettosa reciprocità.
Anch’io, da piccola, amavo uscire dalla finestra dell’abbaino dell’ultimo piano e sdraiarmi sul tetto a tegole rosse insieme a mia cugina (la figlia di zia Liana).
Lì passavamo il tempo a parlare e ammirare le stelle, mentre i gatti gironzolavano intorno a noi; e tutti insieme respiravamo
quel senso di libertà e di infinito che contiene in sé la speranza
dell’avventura. Forse proprio grazie a questa mia personalità
sono sempre riuscita a rispettare la natura dei gatti.
Tutti i gatti della mia colonia personale furono vaccinati e identificati da un collarino rosso al collo, ma avevo scelto di non castrarli. Erano liberi di andare e tornare. E tornavano sempre.
Quando andavo al mercato vicino casa a fare la spesa, avevo due
fedelissime guardie del corpo, Conte Bonito e Pallino, che mi seguivano facendo sorridere gli avventori del mercato. Ora dal macellaio, ora dal fornaio, mi seguivano e aspettavano sulla soglia dei negozi, come se fossero stati ammaestrati. In realtà era una loro libera scelta… forse anche un po’ opportunistica nell’aspettativa di quei favolosi bocconcini di cibo.
Si era creata una singolare alchimia, per me il loro comportamento
era sempre facile da decodificare.
Conte Bonito era il compagno di giochi di Romeo, che, a differenza dei fratelli, era una scimmia dispettosa. Tutti crescevano e andavano in giro per cortili e giardini, per poi ritornare la sera nella cuccia sotto il tavolo. Una sera d’inverno, Conte Bonito non tornò a casa; mi preoccupai perché, guardando fuori della finestra, non lo vidi gironzolare come sempre nel cortiletto. Watts, osservandomi divertito, disse: «Sono diventati grandi, vanno in giro. Può darsi che sia andato per la sua strada». Ero in ansia come se mio figlio avesse scelto di andare via. Mi rilassai e pensai che era giusto così. Passarono
quindi vari giorni, non ricordo quanti, finché, una fredda sera
d’inverno, sentii fuori nel giardino i gatti che si agitavano come a
voler attirare la mia attenzione. Era l’ora di cena, per cui mi muovevo indaffarata tra i fornelli: diedi un’occhiata veloce fuori
dalla finestra e Romeo, seduto in mezzo al cortiletto, alzò il muso e mi guardò con intensità. Mi sembrava strano che non si fosse rifugiato nella cuccia sotto il tavolo. Dedussi che l’odore del cibo cucinato potesse renderli un po’ inquieti; guardai le pentole sul fuoco e, una volta rassicuratami sui tempi di cottura, decisi di prendere la scatoletta di pollo e di tacchino per i miei gattini ormai quasi adolescenti. Assorbita dalla preparazione della cena, mi attardavo nell’apertura delle scatolette anche perché non trovavo il loro apriscatole… nel frattempo vedevo Pallino che, infilato nello spazio tra la portafinestra e l’inferriata, mi guardava muovendosi freneticamente. Di certo Pallino e Romeo avranno pensato che fossi un po’ tonta a non capire i messaggi che tentavano
di inviarmi. Finché mi decisi a prestar loro attenzione.
«Ehi Watts, vieni un attimo in cucina».
«Che c’è?!». Arrivò ciabattando.
«Scusa, ma devi guardare il cibo sul fuoco».
«Come mai?».

«Sono un po’ strani i gatti, guarda Pallino».
Watts alzò la tendina e osservò i gatti.
«Forse fa freddo e vorrebbero entrare».
«Scherzi?! Ho sistemato il telo intorno al tavolo. Ho creato un’alcova veramente accogliente con due ceste e tanti stracci… Non so,vado».
«Mettiti il giubbotto. Fuori fa freddo».
«Ok».
Mi bardai e, con il cibo preparato in mano, uscii in giardino; lo
posi all’esterno alla cuccia, vicino a una gamba del tavolo a sinistra della finestra. Mi inchinai e, guardando sotto il tavolo, vidi due fari rossi che si illuminavano.
«Watts, accendi la luce esterna».
Il cortiletto si illuminò e intorno a noi vedemmo Conte Bonito ridotto in una condizione pietosa, ferito da morsi e unghiate.

«Chiama Vitullo… Oggi è di turno? Vedi che ti dice!».
Watts rientrò a telefonare. Tornò affacciandosi dalla portafinestra.

«Vado a prendere la gabbietta da trasporto. Tu convincilo», riferendosi a Conte Bonito.
Io cretina: «Non ti preoccupare tutto a posto». Cretina perché sentivo che questo rapporto con la mia personale colonia felina mi apriva a una sensibilità interiore ormai sepolta dalla polvere del tempo.
Ero seduta per terra e gli stavo dando da bere con il biberon con cui li avevo svezzati. Conte Bonito era tenero, grato. Sospirò, facendomi capire la fiducia che aveva nei miei confronti. Mi commossi: era un’ulteriore conferma della mia capacità di comprendere senza il linguaggio il loro modo di comunicare attraverso il comportamento. Quei gatti sapevano qualcosa di me di cui io non avevo ancora consapevolezza.
Si verificano delle circostanze nella vita che contengono in sé la
magia del mistero dell’universo. Tutto sembra avere un senso, anche il dolore.
La notte fredda ci circondava con il suo grande abbraccio. Watts
tornò e io presi Conte Bonito e lo misi all’interno della gabbietta da trasporto; uscii e m’incamminai verso lo studio del veterinario, che si trovava a due passi da casa. Vitullo aspettava preoccupato e,
quando deposi sul tavolo ed estrassi Conte Bonito, restammo entrambi sconvolti. Conte Bonito aveva avuto uno scontro con più di un gatto e le ferite erano evidenti ed eloquenti.
«Devi tenerlo al caldo in casa. Ora esci, vai a sederti nella sala
d’attesa che il medico…».
«No, resto!» rispose.
«Lui è venuto da me, convinto, che non lo avrei abbandonato».
«Splendido! Sei fantastica» commentò.
Vitullo, come tutti veterinari, subiva il fascino dei legami speciali
che si instaurano tra il gatto e l’umano. Feci da aiuto infermiere;
lui Conte Bonito, mi leccava le dita e mi guardava.
Finalmente, la visita terminò e lo riportai a casa, dentro quella gabbietta che sarebbe stata la sua cuccia temporanea. Antibiotici gratis e visita a metà prezzo. Quando rientrai in casa, Cesare si mostrò preoccupato:
«Adesso cosa fai? È freddo fuori».
«No, lo terremo in cucina dentro la gabbia, e la sabbia per i bisogni starà vicino alla portafinestra, nell’angolo».
Spesso ascoltiamo dei racconti sui disastri che i gatti compiono
negli appartamenti, ma nessuno ha avuto rapporti con un gatto di nobile origini, di alto lignaggio come Conte Bonito. Conte Bonito si comportò infatti come l’ospite perfetto: rimase in cucina dentro la gabbietta, prese senza protestare le medicine e mangiò dalle mie
mani. Fu un ammalato modello! E non lasciò mai la cucina, come
se avesse capito quali fossero le regole e quale il comportamento atto a non arrecare disturbo. Quel gatto mi aveva colpito dal primo momento che era entrato a far parte della colonia gattifera e continuava a lasciare delle impronte indelebili nel mio cuore.
Le visite di controllo andarono per il meglio.
Era un pomeriggio freddo e con la gabbietta lo riportavo a casa.
«Tra un po’ lo puoi far dormire fuori» disse Vitullo sorridendo.
Entrai in casa, mi tolsi il cappotto e posizionai la gabbietta in cucina.
Mi rilassai sul divano a guardare la televisione. Conte Bonito
era guarito e pensai tra me e me che ora avrebbe potuto vivere naturalmente insieme agli altri. Ma quella sera rimase con noi, dando quasi un senso a quella lunga e impegnativa giornata ormai volta al termine: mentre noi eravamo intenti nelle nostre faccende – io a preparare la cena, Cesare a ripetermi la lezione di storia, Watts ad apparecchiare mentre continuava a sbirciare la tv e di tanto in tanto si abbandonava ad acclamazioni di sostegno alla
squadra del cuore in lotta per l’ennesima coppa – lui stava seduto

vicino alla gabbietta e osservava tutto quel tran tran. La sua immagine è ancora impressa nella mia mente.
Andammo tutti a dormire, gatto compreso. La sveglia mi destò da
un sonno profondo; mi alzai a sedere sul bordo del letto e mi ricordai, d’improvviso e non senza preoccupazione, di non aver chiuso lo sportello della gabbietta. Chissà quali danni aveva combinato durante la notte! Invece, quando mi affacciai sulla soglia della cucina, vidi il gattone dormire sereno: nessuna traccia di danno!
Mi sentì arrivare, aprì gli occhi, e io solerte preparai la sua colazione con l’ultimo antibiotico, per ringraziarlo della sua nobile educazione.
Mentre apparecchiavo la tavola in cucina per la colazione, Conte Bonito si era seduto al centro della sala e attentamente guardava il mio andirivieni dal frigorifero ai fornelli. Miagolò, attirando la mia attenzione, e si diresse verso la portafinestra; alzò il muso, io mi avvicinai e aprii. Si allungò, odorò l’aria fresca del mattino. Una leggera nebbia rendeva il paesaggio misterioso e accentuava l’intensità di quel momento: la massa compatta delle case, degli alberi, tutto sembrava indefinito.
Io e Conte Bonito odorammo l’aria, assaporammo l’odore
della libertà. Mi si avvicinò, si strusciò tra le mie gambe e poi scivolò fuori, attraversando l’inferriata; con un balzo fu sul muretto e proseguì con andatura felina. Scivolò furtivo oltre le piante, tra le foglie, e si allontanò sparendo nella nebbia: l’atmosfera si caricò della magia della libertà.
Ricordo ancora quella scena tanto quanto l’odore di quel mattino
appena cominciato: era come se Conte Bonito avesse risvegliato una vita stretta nella prigione dell’abitudine, consacrandola ancora una volta all’avventura.
E ancora una volta era stato un gatto a consegnarmi un insegnamento, a ricordarmi il bisogno della libertà come condizione irrinunciabile.
Tanti sono stati gli insegnamenti che ho ricevuto da quella
variegata colonia felina: primo tra tutti, che la cura, l’attenzione spesa verso un altro essere è qualcosa che ci può rendere davvero migliori.
E forse addirittura più umani.