IO, NON RIMPIANGO NULLA
(su una canzone di Edith Piaf)

No, non rimpiango niente!
Non il mio carattere bastardo,
cristiano e blasfemo insieme.
Non i graffi che ho dato alla mia anima
e quelli ricevuti dalla tua.
Non rimpiango niente della mia rabbia,
delle bestemmie,
del mio dire dolce e suadente.
Non rimpiango gli occhi
buttati sempre oltre l’orizzonte,
a caccia di un colore pieno,
di un alba da non averne più.
Non rimpiango il tuo sudore
all’uscita dai miei fianchi:
mentre mi davi le spalle.
Ho spazzato via
le tue fughe e i tuoi ritorni;
ho dato fuoco al passato
e bruciato nel cuore
le cartoline del piacere mai spinto all’estremo.
Non rimpiango
le lacrime che ho versato
al simulacro
di un mondo che ho amato alla disperazione.
Il bene? Il male?
Un fottuto sortilegio
che ci ha annebbiato entrambi.
No, non li rimpiango!
Li ho dimenticati per sempre.
Non rimpiango
di averti trattato da puttana
perché dentro avevo un grido
da uccidere i licantropi che sfami,
avevo una grazia maggiore
di quella degli angeli.
Non ho più bisogno
di difendermi,
di tremare,
di aspettarti sul filo di lana
di una gara che non c’è mai stata.
Non ho più bisogno
di farmi scorticare la pelle
dai dispiaceri,
dalle gioie,
dai sorrisi che comprano l’usato.
Mi sta bene così!
Riparto da zero.
No, non rimpiango niente!
Non rimpiango
i baci che mi hai distillato addosso,
gli schiaffi con cui mi hai rubato il sangue.
Non rimpiango
il calmo abbraccio della brezza
e le spinte di un vento nemico e bugiardo.
Perché, oggi,
la pelle,
la voglia,
il vagito ripetuto della mia vita irredenta
e lo scottare dell’anima che ho sulle labbra,
tutto ricomincia con te.


Cioccolata al rhum

Il profumo della cioccolata bucava irrinunciabilmente la nebbia. Oltre la finestra-vetrina, velata da ricamate e coloratissime tende, giovani donne e uomini conversavano in totale relax.

L’attrazione del cacao caldo vinse in me la sensazione che sarei stato fuori posto. Entrai. La sorpresa sui volti mi disse che avevo ragione, anche se subito smorzata o, forse, addirittura vinta dal casual colorato e geometrico del mio maglione alla foggia norvegese.

Il locale era giusto nella distribuzione degli spazi. C’erano quattro salottini, separati quanto basta tra loro e, con un gradino, dal resto della sala, dove si trovavano sei o sette tavolini. Vicino al banco, quattro sedie-trespolo, per una degustazione veloce. La tappezzeria alle pareti e la moquette al pavimento ovattavano voci e suoni dando la gradevole sensazione di stare tra amici nel salotto di casa.

Presi posto al banco su di una sedia-trespolo e ordinai una cioccolata bollente al rhum. Temendo di non essere stato compreso, specificai con un più alto tono di voce: “Mi raccomando! Al rhum!”.

Mentre precisavo, spostai lo sguardo in direzione dei salottini, così, distrattamente, per prendere tempo.

Incontrai due occhi, mare verde nel sole dei capelli, un leggero piegarsi del capo e quella flessione impercettibile delle labbra, quasi un sorriso, che dice assenso. Impiegai qualche attimo a capacitarmene.

Lei, indossava una maglia color rosso bruciato col collo a barchetta che lasciava liberi gli omeri e short di pelle nera da cui emergeva la consapevolezza di due gambe giuste, avvolte in calze color carne decorate dalla filigrana di piccolissimi fiori color amaranto. Calzava scarpe nere, dal tacco medio e a gambaletto appena accennato.

Adesso, digitava velocemente sul telefonino, come preoccupata. Poi, si rilassò, appoggiandosi alla parete. Vidi così i riflessi di una catenina d’argento che reggeva, poco sotto il pomo d’Adamo, una preziosa pietra nera incastonata in sottile giro anch’esso d’argento.

Non trascorse un minuto. Entrò nel locale un’altra ragazza che si diresse, sicura, verso i salottini. Lei l’abbracciò, la baciò e si sedettero entrambe.
Intanto, il cameriere mi servì la cioccolata. La sorseggiai immediatamente, centellinandola come un sommelier col vino d’annata. Buonissima! Stavo ancora leccandomi le labbra quando sentii distintamente: “Scusi! La mia al rhum, mi raccomando!”. Girai istintivamente lo sguardo. Incontrai i suoi occhi e, stavolta, fu mio l’inchino leggero.

Ad un certo punto, un ragazzo, uscito dal gruppo seduto ai tavolini, scattò verso il salottino, si chinò ai piedi di lei, raccolse i guanti che le erano caduti e glieli porse, sfiorandole il fianco. Lei, li prese, pronunciando un grazie disinteressato e quasi scostandolo.

Posai la tazzina che inconscio avevo tenuto sospesa a mezz’aria, distratto dalla scena. Quindi, cercai nelle tasche i soldi per pagare.

Lei, passando per uscire, improvvisa, mi sussurrò all’orecchio: “Al rhum! Domani!” e mi diede un bacio sulla guancia. Feci in tempo a rimandarle il bacio, di là dal vetro. Sorrise e fu della nebbia.

Dissi arrivederci al cameriere e me ne andai anch’io occhiando sornione la battuta proveniente dai giovani seduti ai tavolini: “Mi sa che capelli bianchi è in gamba, ti ha fregato! E, con una cioccolata al rhum!”.

La sera successiva, la cioccolata al rhum era perfetta. Le sue labbra impareggiabili! Nella nebbia, i nostri fianchi aderivano caldi.


L’Angelo!

Aveva la pelle sudata ma che lasciava trasparire una bellezza primigenia mai sopita, soffice come neve; gli occhi, caldi, con dentro tutti i deserti e gli oceani che aveva attraversato. Capelli biondi come il sole e quella bocca dal velluto di rosa, morbida e sanguigna allo stesso tempo, adatta a promesse travolgenti. Le forme del corpo dettavano una passione consapevole ma mai altera, che un dolce sorriso rendeva ancor più conturbante.
Era tutto quello che una donna poteva essere, pensò.
Tremendamente sensuale nella rotondità dei seni e nel pube appena intuibili mentre il profumo della sua pelle riempiva l’aria. Non era indifesa, ne era certo. Anzi, era l’opposto: gli teneva il fiato addosso senza obbligarlo, lo voleva per sé senza commettere furto. L’avrebbe bevuto dal di dentro, se solo avesse capito che non stava consumando un pasto.
Sì, le piaceva guardarlo nudo e accarezzargli il collo, fissandolo per bruciarlo di un ardore a lui sconosciuto ma, non era pazza: lei era l’Angelo!
Per la prima volta mancò di iniziativa e si sentì osservato, quasi trafitto. E pensare che già si ascoltava stretto a lei e intento a seguirne i pori ovunque. Invece, era lì ad ascoltarne la voce. Già, la voce! Soprattutto il suo nome, disteso su labbra che, nelle ripetizione di quel suono, esercitavano una pressione compromettente, come se gli stessero estraendo il fiato.
Capì che le parole non l’avrebbero più difeso né che avrebbe potuto appellarsi all’esperienza.
Firmò senza esitazione il patto: vivere d’anima a dismisura e sudare e salire, abbracciato alla grazia della carne di lei, fino al Paradiso.