Se è morte è vita

Sarebbe stata una bella giornata, quella, per fare una passeggiata. Lo sembrava davvero. Essere

svegliati dal cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra e i raggi del sole che la attraversavano era

decisamente meglio delle urla dei miei o di quelle della mia sorellina. Uscii di casa quando ancora il

sole non era abbastanza alto per apparecchiare la tavola; udii mia madre urlarmi alle spalle di stare

attenta, di non parlare con gli sconosciuti e di non fare tardi. Me lo diceva sempre e non capivo

perché lo facesse: lo avevo capito già la prima volta. Sbattei la porta come lo si fa quando si è

arrabbiati, ma non ero arrabbiata, solo impaziente di andare al parco. Quella mattina speravo

davvero che i miei amici fossero lì ad aspettarmi perché il giorno dopo avrei compiuto nove anni,

ma i miei amici non c’erano. Li aspettai per molto tempo seduta su di una panchina, mentre in

lontananza vedevo gli altri bambini giocare a palla, rincorrersi e salire e scendere gli scivoli. Non li

conoscevo, avrei voluto molto giocare con loro, ma erano sconosciuti e mia madre mi diceva di non

parlarci, e io non lo facevo; glielo avrei dovuto chiedere, ma lei non era lì. La panchina era troppo

alta per me quindi dondolavo le gambe e già mi bastava come divertimento, perché nella mia mente

ci facevo una musica, e ticchettavo le dita sul ferro freddo. Mio padre mi insegnava a suonare il

piano e secondo lui ero molto brava, ma mai quanto il ragazzo che aveva preso lezioni da lui e che

ora non veniva più. Mio padre mi aveva detto che era partito perché la sua famiglia si doveva

trasferire per lavoro, ma io sapevo che non era così perché io con lui ci parlavo ogni giorno perché

lui era sempre con me, anche quel giorno al parco. In realtà era morto, aveva una malattia grave e i

genitori lo avevano iscritto a lezioni di pianoforte perché gli avevano detto che la musica lo avrebbe

fatto stare meglio. Mi aveva rivelato che la musica non lo aiutava a guarire, fisicamente s’intende,

ma lo faceva star meglio quando era giù di morale, e lo aiutò anche morendo. «Morire è come

cambiare pagina dello stesso spartito» – mi aveva detto – «La musica che si suona è sempre la

stessa, è sempre e solo una dall’inizio alla fine e anche dopo» mi ha detto che dopo non è come la

gente immagina, la gente immagina perché spera e secondo lui è giusto che sia così, ma a volte è

giusto anche sapere la verità: nasconderla come avevano fatto i suoi non lo fece stare bene in punto

di morte. Una volta mi ha persino rivelato che morire non fa male, che non è una cosa cattiva,

perché dopo è come prima, solo che le persone non ti vedono: lo costrinsi a dirlo, insistetti così

tanto che quasi si arrabbiò. Infatti fece cadere dei libri che stavano sul mio comodino e fece così

tanto rumore che mia madre apparve in camera urlando chiedendomi cosa stesse succedendo, io le

risposi che stavo giocando ma non avevo bambole in mano e allora lei non ci credette; così mi

chiese con chi stessi parlando e io risposi che non stavo parlando con nessuno – non volevo che

sapesse di lui, dovevo proteggerlo – allora mi prese in braccio e mi portò in cucina con lei. Lui mi

ha detto che non posso dire agli altri che parliamo perché lui è morto ormai e le persone non

capirebbero, ma io sì, per questo parlo con lui, per questo non ho mai disubbidito a mia madre. Mi

ha detto che si sentiva solo perché non aveva nessuno con cui giocare e io sì, allora io gli ho

risposto che lui aveva me e dopo sentii freddo e lui mi disse che è così che ci si sente quando una

persona morta vicina a noi è triste. Mi ha anche detto che disubbidire a mia madre non era una

buona idea, quel giorno al parco, ma io volevo giocare, giocare per davvero, e se non fossi tornata

sporca o sudata mia madre mi avrebbe fatto tante domande e si sarebbe preoccupata e non volevo

farla preoccupare – e non potevo neppure dirle che ero rimasta da sola per tutto quel tempo. Pensai

che comunque non avrebbe potuto dire nulla a mia madre se avessi disubbidito e visto che sarei

tornata a casa sudata avrebbe pensato che avessi giocato con i miei amici e sarebbe andato tutto

bene. Così mi alzai dalla panchina e feci qualche passo in avanti nel parco, raggiunsi l’erba e mi

fermai lì, per avvicinarmi lentamente così gli altri bambini mi avrebbero vista e avrebbero capito

che volevo giocare con loro. Ma lui si accorse che volevo fare qualcosa e cercò di fermarmi ma io

non volevo, perché avevo voglia di giocare. Mi avvicinai ancora, questa volta di più e uno di loro si

girò a guardarmi prima di allontanarsi a calciare la palla. Vidi che erano più piccoli di me, forse

solo di un anno. Accadde che uno di loro calciò la palla troppo forte e arrivò per strada passando

accanto a me. Quando si voltarono mi guardarono e io pensai che sarebbe stato gentile da parte mia

andare a raccoglierla e che dopo, quando sarei tornata con la palla in mano, mi avrebbero fatto

giocare. Allora mi voltai e corsi a prenderla. La palla era andata oltre il marciapiede e si era

incastrata sotto una macchina sul lato opposto della strada, accanto ad una ruota. Prima di

attraversare guardai a destra e a sinistra e aspettai che non ci fossero auto come mi aveva insegnato

mia madre. Ma lui mi ha urlato contro mentre lo facevo perché non voleva affatto che attraversassi,

diceva che era pericoloso; io ero stata attenta ed ero tranquilla. Allungai le mani verso il pallone e

feci forza ma non riuscii a toglierlo. Mi voltai e vidi che gli altri bambini mi stavano guardando. Un

po’ mi vergognai perché ero più grande di loro, ma ero comunque una femminuccia e mi

guardavano come ci guardano i maschietti a quell’età, come se noi non potessimo fare le stesse cose

che fanno loro. Così decisi di dimostrare loro che ero abbastanza forte per giocare a palla con loro:

mi inginocchiai, abbracciai il pallone e tirai più forte. Fui entusiasta, anzi no, di più. Mi avrebbero

fatto giocare con loro sicuramente. Mi alzai con la palla in mano e quando mi girai c’erano loro che

guardavano sorridenti. Il cuore mi batteva a mille. Sì, mi avrebbero fatto giocare per certo. Mi

fiondai verso il marciapiede senza neppure stare attenta alla strada, emozionata com’ero. Già mi

immaginavo giocare con loro e magari vincere, perché se ero riuscita a strappare via una palla da

sotto un’auto, sarei anche riuscita a battere un maschio, ma che dico, due!, o forse tutti e quattro.

Sorridevo abbracciando il pallone mentre i piedi fremevano pronti a calciarlo.

Ma non lo calciarono mai. Un’auto che veniva dal senso opposto non mi aveva visto sbucare dal

fianco dell’auto e mi colpì in pieno. Venni trascinata per un metro mentre l’auto frenava

bruscamente e lasciava le impronte delle ruote nere sull’asfalto. Il freno era sembrato un urlo, l’urlo

che non riuscii a lanciare. Morire non fu doloroso, me lo aveva detto. Morire fu veloce, mi aveva

detto anche questo. Mi aveva anche detto di non attraversare la strada, ma questo non lo feci e mi

costò la vita. Quando il capo mi cadde di lato sull’asfalto lo vidi guardarmi, lo vidi in volto ed era

disperato: ero l’unica persona che avesse e lo stavo abbandonando, perché non gli avevo dato

ascolto, perché non avevo dato ascolto a mia madre, che non era neppure lì. Per fortuna: non avrei

mai voluto che ci fosse lei il giorno della mia morte. Guardare qualcuno che ci fosse già passato

sarebbe stato più confortante, e lo fu. Sentii un freddo così pungente da non sapere che parole usare

per descriverlo, era atroce, insopportabile, ma allo stesso tempo confortante, perché se sentivo così

tanto freddo era solo perché lui, che era vicino a me, mi voleva altrettanto bene, mi amava.

I miei genitori arrivarono subito quel giorno e così l’autoambulanza. Non dissero loro cosa mi fosse

successo, fecero bene, perché i medici si comportano con i genitori come questi con noi bambini,

ma i genitori non sono stupidi e nemmeno noi lo siamo. Mi portarono in ospedale cercando di

rianimarmi ma la verità è che ero già morta, sul colpo. Vidi i miei genitori piangere sul mio letto,

disperati, mentre i dottori portavano via dalla stanza mia sorella più grande, lei piangeva in silenzio,

come fanno i grandi. Io la seguii perché in fondo era necessario farle capire che non ero morta, non

del tutto, che ero ancora con loro e che li avrei protetti. Così seguii mia sorella per sempre, la vidi

crescere, maturare prima degli altri, perché lei aveva me, perché parlava con me e io con lei. Una

volta accennai a quando lei era me e io ero te, e così da allora iniziai a raccontarle come fosse stata

la mia vita, e mi fece le stesse domande che io facevo a te, e le insegnai tutto, ma non parlai mai del

giorno della mio morte e neppure lei lo fece: entrambe sapevamo che non ci avrebbe fatto bene. Io

non ti vidi mai più, perché a volte succede tra i morti che non ci si vede a vicenda, e anche questo

mi avevi detto. Mentre mia sorella cresceva bene ed era forte, aiutava i nostri genitori a riprendersi

dal brutto colpo che la famiglia aveva ricevuto. Vidi mia sorella finire le elementari e frequentare le

medie, poi il liceo e l’università. Al terzo anno si innamorò di un ragazzo e si fidanzarono poco

dopo. Alla laurea lei era incinta da otto mesi ormai e presto partorì. Io ero con lei in ospedale, il

marito lo avevano lasciato fuori, seduto su di una sedia a tormentarsi le mani mentre il capo fissava

il terreno e i piedi battevano a terra incessantemente. Così fui io a stringerle la mano, non pianse,

perché le diedi tutta la forza di cui disponevo, la forza di una vita, una vita troncata sul nascere.

Quando fu il momento di venir fuori mia sorella urlò molto: fu l’urlo del suo parto e quello della

mia morte. Lei urlava mentre le lasciavo la mano. Urlava per il dolore mentre io urlavo nel vedere

la luce di una nuova vita. Mi dimenavo nell’aria tra le braccia dei dottori che mi sorreggevano

delicatamente. Quando mi misero tra le braccia di mia madre e i nostri sguardi si incrociarono per la

prima volta capimmo entrambe che cosa saremmo state… e chi fossimo state.

Ora devo andare perché mia madre mi chiama per la cena, ma so che ti scriverò presto, come ho

sempre fatto da quel giorno, da quell’ultimo giorno.

In fondo, però, avevi ragione, se è questa la morte allora non è poi così male.