Faccio finta di niente

Ora mi viene facile chiamarla solitudine, questa sensazione languida che sgorga in me quando guardo tutte queste fotografie. Quanti amici, quante amiche, tutti ordinati sotto nomi improbabili, ipotesi di identità, infilati dentro cartelline gialle, basta un click del mouse e…puff, d’incanto ecco che spuntano fuori: visi  sorridenti, occhi, tette, sguardi, denti, capelli, guance. Comitive improbabili rinchiuse dentro una variazione elettrica del mio computer, ma basta un click che loro si riappropriano della loro storia e del loro corpo, si riespandono in qualche sottoscala limbico nel mio cervello a rianimare il loro  sporco ricordo, a rischiarare ricordi di eccitazioni segrete.

Ora scorro l’elenco, mi vengono in mente mille possibilità  riorganizzative, non so, potrei dividerli in spasimanti, sesso virtuale, feticisti, sesso reale, amiche esibizioniste, gay…. ma provo un po’ di sgomento: la mia anima che si adatta a tutti, mi faccio  un po’ schifo e mi sento anche un po’ solo insieme a loro.

Certo vado forte a calare reti, sono bravo…parole come tramagli, nasse, sciabiche, verbi e poi aggettivi e punti , punti. Reti invisibili calate nella notte, frasi come nodi insidiosi, pronte ad adattarsi alla vittima a risucchiarla subdolamente in uno spazio paludoso di noi stessi.

“Raccontami qualcosa di te”

 “Dimmi, cosa vuoi sapere?”

“Non so…i tuoi sogni, i tuoi segreti, i colori della tua anima, i tuoi desideri”

 “E’ la prima volta che qualcuno mi chiede questo…mi confondi un po’, ma chi sei?”

“Mi piacerebbe scoprire la tua bellezza precipitando a foglia morta dentro di te…”

“Mi piace questo tuo modo di parlare…sei strano…sai non entra mai nessuno nella mia anima, ma ti dico un segreto, se vuoi camminarci devi farlo in punta di piedi…”

Fatta, catturata, presa

“Senti ti chiedo una cosa banale, mi mandi la tua foto?”

Sei mia, la rete si chiude, ora mi appartieni e in questa specie di orgasmo immobile dei sensi comincerà il gioco dei nostri desideri, che liberati dalla dimensione reale, si sporcheranno di eccitazioni indecenti, meravigliati un giorno di averle pensate.

Ma il gioco, poi seguirà percorsi obbligati: e tu rinuncerai a cercare la chiave di me, chiuderai gli occhi e ti lascerai accarezzare, le mie parole umide scivoleranno sulla tua pelle, mi confesserai che sei eccitata, che hai allargato le gambe e che ti stai toccando ed io sarò sulla punta delle tue dita e ti descriverò il tuo profumo e sentirai dentro come una vibrazione smussata che ti percorre le gambe regalandoti un infinito, lieve, piacere.

Poi accade che un giorno mi dirai che mi hai pensato, che ti piacerebbe incontrarmi. E così la realtà , questa cosa che era rimasta sospesa fuori di noi, in un pericoloso inganno, si accorgerà di noi e lentamente riempirà gli spazi, scandirà i tempi, fisserà regole e ruoli,  e tutto diventerà semplice, chiaro, banale.

E allora io scappo: cambio nome, faccio finta di niente, ti ignoro, e così tu resterai per sempre nella tua gialla cartellina, a sorridere nella tua foto migliore nella comitiva avariata dei possibili amori.

Poi un giorno venne  lei e andò male, con Chicca andò male. Occhi verdi, pelle chiara, che per un’inclinazione chimica particolare, profumava di se, come un circolo vizioso ed incantevole nel quale si rincorrevano il verde degli occhi, il profumo e un sorriso tenero ed indifeso.

Non ci fu bisogno di mettere reti a mare, lei era così complementare che annullava le finalità, arrotondava i contorni di noi stessi, si accovacciava stanca sulle mie parole, si dissolveva nei suoi desideri per mischiarli ai miei, ogni tanto pareva scuotersi:

“… spesso il mio pensiero si volge automaticamente a te e lucidamente penso: sono semplicemente un gioco, conduce lui e io cretina che mi lascio trasportare in questa cosa, si concede e si nega….e quando manchi per troppo tempo penso che tu sia innamorato e hai abbandonato questa cosa vaga che siamo”.

Io facevo fatica a rimanere lucido, era come se il disgusto di me stesso avesse preso il comando e si stesse vendicando di tutte le mie vittime, mi vedevo rispecchiato in quelle parole ed una vena sottile di orrore cominciava a farsi strada nella mia coscienza.

Piano piano, come una linea fredda nel mezzo del mare caldo, lei si insinuava per contrasto nei miei discorsi, io la vedevo, li in fondo che mi aspettava, nitida ed inevitabile:

“…non carico niente, ma non posso fare a meno di ascoltare: credo di sognarti la notte, credo che la notte sia piena di te. Ma di te poi cosa? Deep non ci sei nella mia vita, nel giorno…ma poi… mi manchi: come può mancare una cosa che non si è mai avuta, che non ha confini, che non ha definizione, della cui esistenza non si ha certezza?….”

Fu così che  la rete sapiente di Chicca cominciò a chiudersi intorno a me: nelle sue parole sensibilità secondarie di me vedevano impressa la mia immagine e questa mi risucchiava, come se avessi incautamente scavato un buco ed ora ci cadevo dentro lento e definitivo.

Ci incontrammo al mare, sulla spiaggia di una primavera luminosa, c’era vento ed io arrivai all’appuntamento con il mio solito anticipo, intorno, come avanguardie di un’umanità balneare, c’erano persone sdraiate sopra teli esageratamente colorati, io mi sistemai su un moscone, poco lontano dalla riva, in una posizione che mi avrebbe consentito di vederla arrivare da lontano, una sorta di strategia per rallentare, allontanare, valutare, ponderare.

La mia mente volava basso, proprio sopra al limitare della battigia, compiva giri concentrici intorno ad un’idea fissa di incertezza per quello che stavo facendo, se avessi provato a fissare qualcuno dei miei sentimenti avrei racimolato solo stupore e un senso si inizio.

Arrivò puntuale, non so bene quale segnale emanò quella figura lontana, ma la riconobbi immediatamente: forze di gravità orizzontali spingevano la mia attenzione su di lei. Si avvicinò decisa, anche lei su un binario a traccia unica che portava dritto a me; ci guardammo e ci stringemmo la mano, un gesto formale, a voler dare una forma posticcia a qualcosa che già era straripato tra noi nei nostri dialoghi notturni.

Parlammo poco, e non ricordo più quello che ci dicemmo, era strano ma le parole non servivano più, tutto quello che c’era da dire lo dissero i nostri corpi, i gesti, le mani, gli occhi, gli sguardi,  come a recuperare spazi lasciati in bianco, come a dare colore ad aspettative concimate solo a parole. Poi avvenne che ci togliemmo le scarpe e  mi colpì quel piedino bianco, curato e tenero, e quella gestualità rituale, come se stesse scoprendosi il seno, e quegli occhi verdi all’improvviso nei miei, a cercare conferme, vie per intrufolarsi dentro di me, agguantarmi e finalmente portarmi via, a fare l’amore.

Accadde tutto così in fretta, un precipitare rapido al fondo di noi stessi, antitetico a quell’indugiare lento dei nostri colloqui al computer. Ci ritrovammo nel suo studio, bevemmo vino bianco ghiacciato, mi girava la testa, non capivo se per il vino  o per quell’accelerazione violenta dei nostri desideri, ci abbracciammo con la forza di un maremoto  definitivo, scivolammo per terra sul tappeto, poi lei chiuse gli occhi come in attesa ed io la spogliai, prima le scarpe poi la gonna e la camicetta e il reggiseno, poi di nuovo in basso le mutandine, accatastai gli abiti poco lontano e rimasi a guardarla risplendere nella sua nudità eterea, sembrava rischiarare l’aria intorno, il viso disteso, mi sorpresi a sorridere della mia fortuna di avere accanto una donna bella, dotata di grazia. Grazia e bellezza che non sgorgavano nei lineamenti del viso e nelle movenze del corpo, ma venivano da più lontano: emergevano dalle profondità interiori per rispecchiarsi nelle sembianze.

Poggiai le mie labbra su di lei e la percorsi dalla testa ai piedi seguendo il profilo dei seni, indugiando sul capezzolo e poi giù verso la pancia e poi a sfiorarle il sesso e poi le cosce fino ai piedi…dolcissima meta.

Non mosse un dito, ma sentivo vibrazioni concentriche che le facevano correre il sangue veloce e sollevavano come un profumo inebriante, lei si girò carponi decretando altri percorsi più osceni ed io iniziai di nuovo, questa volta in punta  di lingua, giù per la schiena e poi sui glutei e accadde che lei con le mani li divaricò leggermente e a me sembrò di impazzire, stretto nei miei vestiti, sentivo un formicolio feroce diffondersi nel ventre, avevo il pene come anestetizzato in una posizione di attesa vogliosa, ma lei non lo toccava, forse una tattica sapiente per farmi impazzire. Mi avventai nel solco e la leccai con tale dolcezza, che lei lo allargò ancora di più, la sentivo mugolare di gioia, forse ricongiungersi a desideri segreti, mi colpiva questa predisposizione innocente alla perversione.

Quel pomeriggio quando me ne andai non ebbi il problema di rivestirmi, eppure mi sentivo ubriaco, scardinato, aperto, definitivo.

Giunto a casa sperimentai un improbabile controllo delle mie difese, ma la cosa più sensata che riuscii ad escogitare fu masturbarmi col film di me stesso.

Adesso è tardi, chiudo tutte le foto, le  rimetto nelle loro cartelline gialle, spengo il computer, la mia donna dorme da un pezzo lei non le sa tutte queste cose, le custodisco in segreto come la combinazione della mia anima, lei non capirebbe la mia storia. Mi avvicino al letto, riconosco il suo respiro: una vibrazione timida del  silenzio, viene voglia di starlo ad ascoltare, sono ancora invischiato in questo senso di solitudine, ed il ritmo del suo respiro lieve mi tranquillizza, poi si gira dalla mia parte, apre gli occhi, sento che sta sorridendo: “ sai ti stavo sognando, questa notte è piena di te”, Chicca  mi abbraccia circondandomi al suo modo, con le braccia e con le gambe ed io in questa tenera morsa, piccolo pesce intrappolato, cambio nome, faccio finta di niente, ti ignoro, così la realtà non si accorgerà di noi.


 

Il sig. Alzheimer

Spesso mi chiedo che aspetto avesse il signor Alzheimer, sarebbe facile togliermi il dubbio, basterebbe una piccola ricerca in rete, ma mi piace rimanere ancorato a questa domanda, in fondo è un rifugiarmi nell’immaginario, una fuga all’indietro da una realtà drammatica.

Ripeto questo nome, cento volte nella testa, come a voler esorcizzare quello che rappresenta, scorro l’immaginazione tra le sue sillabe, ne percorro il  suono metallico e un po’ arrotondato, con quella zeta centrale che evoca grigie corsie asburgiche di un qualche ospedale, sotto un cielo in bianco e nero.

E così mi immagino il professor Alzheimer, col suo camice bianco, che scruta gli occhi senza fondo e senza tempo di qualche anziano, affetto da quella disumana patologia, che avrebbero chiamato “Morbo di Alzheimer”.

Mio padre c’è immischiato fino al collo, se la porta addosso un po’ da tutte le parti, probabilmente non soffre, ma questo è un inganno.

La dignità umana è un concetto forse abusato, ma rende bene l’idea di quello che gli accade.

Essa rappresenta, a mio avviso, quella sfera di prerogative, di diritti, doveri, che segnano l’incerto confine tra la razza umana e i suoi stessi istinti di base, quegli istinti che ci accomunano con il resto delle creature animate; essa è fortemente connessa ad un’idea del decidere, dello scegliere, prescindendo, o mediando, a volte contraddicendo, i  propri  istinti di base, ovvero disponendo degli stessi, cosa che solo l’uomo può fare.

Mio padre ha perso la dignità umana da qualche tempo, ma a piccole dosi, senza fretta.

All’inizio solo fragili indizi, concatenazioni di azioni che non trovavano più una direzione logica, buchi neri, della grandezza di un chicco d’uva,  in quella che alcuni chiamano “memoria breve”, passaggi a vuoto del pensiero, che ti generano il panico e lo smarrimento,  concatenazioni di parole che non avevano nulla a che fare con una frase vera.

Mi ricordo quel pomeriggio assolato che non trovò più la via di casa e lo ritrovammo per caso, sette chilometri al largo, sotto un ponte, che chiedeva a qualcuno dove fosse casa sua, portava ancora un fiasco di vino da cinque litri  – “vado a comperare il vino e torno” – aveva detto prima di uscire.

Era sudato, accaldato, impaurito, nei suoi occhi una cosa a metà tra lo smarrimento e la vergogna.

Ricordo che, al suo ritorno a casa, venni assalito da un senso di tenerezza, di colpa e di disperazione.

Piansi tutta la notte e, forse, ancora adesso.

Da allora noi, i figli , la moglie,  a correggere gli errori; ci agitavamo di un’agitazione accelerata, come una disperazione che montava al ritmo di una marea implacabile; sdrammatizzavamo per un puro istinto di sopravvivenza, stendevamo progetti scaramantici verso un futuro che andava svanendo a piccoli dosi, senza fretta.

Inidonei, inefficaci, impreparati, come solo sanno essere i parenti più stretti  di un congiunto malato.

Spesso rifletto sulla disperazione e sempre di più mi convinco che questa è il contrario della speranza.

Non faccio un mero esercizio di pensiero, ma tale paragone  serve a dare un nome a questa sensazione di sottofondo, che accompagna i miei pensieri e la mia vita, che distorce le mie prospettive brevi, una rotazione alterata sul mio asse esistenziale.

Nella disperazione non ci sono contorni, non c’è un inizio e non ci viene da considerarne una fine, ecco: quest’assenza di prospettive in avanti e indietro caratterizza il rapporto tra me e quel che resta di mio padre.

Ora lui mangia i tovaglioli, e ogni tanto gli viene da non respirare più, che diventa rosso paonazzo, altre volte gli sale la  febbre a 41 e trema come un cucciolo esagerato, porta pannolini tanto grandi che dentro ci entrerebbero tre bambini.

La sua dignità umana è svanita come foglie nel vento di autunno poco ventoso, il suo agire si è progressivamente spogliato delle azioni, le sue parole hanno perso i significati, una gradualità diligentemente orientata ad un annientamento lento.

Lui esiste perché esistiamo noi, che gli stiamo intorno e che, con stizza e affetto, costruiamo ogni giorno la sua vita, gli facciamo fare i gesti e gli garantiamo i ritmi del giorno e della notte, della fame e della sete, stabiliamo quando è sazio e quando probabilmente è scomodo, siamo noi che lo teniamo pulito o  sporco.

In realtà lo facciamo quasi solo per noi stessi.

Dipendesse da lui, sarebbe già morto, magari di fame, seduto sulla sedia, con le sue matite colorate a disegnare il suo vuoto, incapace di avere fame.

Eppure.

Eppure lui mi guarda.

Lui mi guarda ancora, ha uno sguardo che fa pensare alla sorpresa, occhi sbarrati e grandi, proprio come i miei, fissi sulla mia figura come a meravigliarsi che io sia davanti a lui, la bocca è leggermente aperta come a stupirsi di qualcosa che sta accadendo, ha le guance rubiconde, a uno gli verrebbe da dire che non dimostra la sua età, ma le sue braccia sono ripiene di sabbia e piombo e non si piegano più ad accompagnare i movimenti, piuttosto si oppongono e, agli occhi di chi gli sta vicino, questa ottusità fisica dell’opporsi  è un’ingiuria ulteriore, un’altra ferita, sangue che scorre silenzioso dentro altro sangue della stessa ferita.

Quando mi guarda mio padre, io lo invoco forte e silenzioso dal fondo limpido di tutti i miei ricordi di bambino, gli chiedo di  tornare da me e non andar più via.

Lo so che lui non mi ascolta ma amo illudermi che qualche cellula del suo spirito forse se ne accorgerà.

Lo so che quell’espressione è solo un atteggiamento impazzito dei muscoli facciali, causato dalla malattia e che nei suoi occhi non c’è più luce, ma c’è qualcosa di irrisolto che si ostina a tenermi aggrappato a queste immagini alterate di lui.

Ho la faccia di quello che non riesce a crederci, a rassegnarsi che sia accaduta una cosa del genere, il guaio è che a forza di rimbalzare all’interno di questa non rassegnazione alla fine, soffro di una sofferenza inutile, poco pratica, quasi egoistica.

Sarebbe ora che io imparassi a trattare il corpo di mio padre con una manualità più asettica e cinica da camera mortuaria. Mi piacerebbe offrirgli gesti efficaci e lugubri, animati da energie di razionalità allo stato puro.

E’ strano come nella malattia di Alzheimer, gli spettatori coinvolti, comincino a pensare alla morte come una sorta di liberazione.

Questo, agli occhi della coscienza collettiva, appare cinico, ma è pur vero che  tale atteggiamento porta con se un elemento di coerenza.

E’ evidente che lui morirà di una morte banale ed insignificante, ma il fatto è che la stessa idea della morte, per un malato di Alzheimer, assume un significato diverso.

Loro infatti muoiono due volte e, quindi, sono già morti.

Di queste due morti, la prima è quella vera, la seconda è solo un cerchio che si chiude, senza lacrime.

La prima morte di mio padre risale a quel periodo che iniziò a farsela addosso, tre anni fa; l’evento si annidava dentro a tutte quelle frasi che affondavano nelle sabbie mobili di ragionamenti senza senso, nei quali prendevano posto immagini del presente e del passato, come se un frullatore si fosse insediato nel suo cervello, cominciando a schizzare intorno pensieri sbrandellati, tuttavia coerenti con qualche accidente della sua vita.

Fu il periodo in cui cominciò a confondere sua moglie con sua madre.

Fu allora che lui morì.

Non ci furono funerali o fiori, ma solo lacrime  in disparte e un dolore cronico ma stemperato. Fu allora che si interruppe quel filo magico di energie benevole che collegava  i membri di tutta la famiglia, che cessò di essere quella dei ricordi della mia infanzia.

Fu allora che io invecchiai di colpo.

Oggi io mi guardo con sospetto, mi appartiene uno shock dilatato, allungato.

Mi accade che ogni gesto disorganico, ogni mia dimenticanza banale, ogni non ricordare una data o un luogo, ogni mazzo di chiavi caduto per terra, ogni disorientamento spaziale o temporale, mi sorprendo a pensare che forse quello è il mio inizio e mi verrebbe di scorticarmi di dosso tutti i cromosomi per stanare quello marchiato Alzheimer e mettergli fuoco.

Oggi celebro la sua memoria in vita, ma vorrei ugualmente che, per un gioco delle possibilità impossibili, lui tornasse davvero in vita per un attimo, giusto il tempo per tentare una mossa a sorpresa e strapparlo via da questo destino efferato.

O almeno avere il tempo di dirgli qualcosa di semplice: gli parlerei delle sue matite colorate di oggi e delle lacrime versate mentre scrivo queste parole, gli parlerei di quando da piccolo mi portava a pescare, che lui se ne stava un po’ indietro, a guardare il giornale, ed io mi sentivo il centro dell’universo, il colore di un amore assoluto.

Dedicato a mia madre, eroina di una guerra senza vittorie.


Inversione di marcia   

Sono brava ad ingannarmi, mi riesce bene, ma non lo faccio spesso perché poi, dopo, quando si tratta di recuperare la faccia con mio marito e i miei figli mi sento male, e faccio pure casini: mi sbrodolo tutta e tocca lavarmi per settimane l’anima e la coscienza. Il fatto strano è che questa volta la tempesta si è accanita su di me con una crudeltà stemperata, sarà che io sono stata brava a non farmi travolgere come tutte le altre volte, o forse questa volta non è come tutte le altre volte e allora la passione ha preso vie diverse, mi ha attraversato da direzioni contrarie, da dentro a fuori, ha fatto alleanze facili con parti di me che non erano in gioco, tanto erano messe in disparte, e mi ha lasciato intera, su un’orbita più stretta e rallentata intorno a me stessa e la mia pelle si illumina di un io ravvicinato, come quando avevo 20 anni, ma ora sono più bella, morbida e limpida.

Guido piano nel buio della notte, sento le ruote rotolare sul selciato sconnesso, luci gialle e bianche e umide mi scorrono di fianco, le vedo sgattaiolare laterali e secondarie, è come se ora l’universo mi scorresse affianco dimenticandosi di me, tanto sono attutita, mimetica in questo momentaneo languore. Le mie azioni sono governate da automatismi diligenti, ripasso mentalmente la sequenza delle bugie da raccontare a casa, in realtà preferisco le omissioni, sono meno ingombranti e mi  vengono meglio.

Mi sento leggera, ma sospesa, come se qualcosa che doveva accadere non è accaduto, galleggio tra i ricordi recenti della serata e quelli più lontani di tutti i miei uomini,  faccio paragoni e confronti, azzardo contrasti, mi sforzo di individuare ipotetiche linee di congiunzione all’interno di tutte le mie storie, mi tornano in mente i volti e gli odori, di ognuno conservo in un punto remoto del mio ventre il profumo del suo seme, quello schizzo finale che sanciva il mio trionfo, il mio possesso vittorioso; che importa dove: tra le mani, nella mia bocca, sul mio seno, tra le mie gambe, l’importante per me è arrivarci, questa inevitabilità degli uomini mi affascina.

Mi invento le vie più tortuose i percorsi più lunghi, ma alla fine mi spalanco per prenderlo tutto, questo schizzare opalino e scontato che mi centra da qualche parte.

E’ dannatamente chiaro questo mio bisogno, lo sento organizzarsi e crescere, mi fa essere femmina rapace, cagna, schiava e padrona, terra , fuoco e  aria, prende le forze da qualcosa che sta infossato nella mia testa. Così inevitabili gli uomini in questo loro concludersi plateale, eppure così perversi e preziosi per me, mi gonfiano, mi riempiono, mi completano, mi dissetano.

Ne ho avuti tanti, eppure ogni colpo nel mio ventre ha scavato un po’ più in basso e più a fondo, creando spazio per quello dopo o per quello di un altro, una brutta storia di rincorse, ma io non mi trovo ancora e spesso accade pure che mi inganno, pensando che sia la volta buona, ma poi mi lecco le ferite.

Questi pensieri mi turbano e mi fanno sentire più sola, accosto la macchina, scendo, voglio prendere un po’ d’aria, è ancora presto posso farlo. C’è un bar più avanti ma forse è meglio evitare; le macchine scorrono veloci sulla strada, quando passano spostano l’aria immobile, che mi investe e mi fa socchiudere gli occhi. Ma cos’è che mi frema, che mi trattiene, perché non vado a casa?

Che strana serata questa, ci sono passata dentro in un attimo rapido ma ancora me la sento appiccicata addosso. Ho messo le calze velatissime con la gonna nera e la maglietta attillata in tinta mi sono guardata allo specchio a casa e mi sono vista carina.

Poi l’appuntamento clandestino:  lui.

L’aperitivo, la cena, la passeggiata e poi? Sono scivolata dentro alle situazioni imbrigliata nel mio stesso stupore, i suoi occhi profondi e tristi, quel loro brillare raro e accecante, la sua pelle e il suo profumo e i suoi capelli, il suo sorriso dolce e timido e quella leggerezza dei gesti come a voler evitare le cose….ed io incantata dallo stesso film di me stessa che si incantava….ad inscenare lo spettacolo più esclusivo del mio corpo, a mettere in mezzo la mia femminilità in calore, a percorrere goffa ed incredula stati d’animo color pastello, a disseminare lo spazio intorno di esche dolci e prelibate. Un qualsiasi uomo o una qualsiasi donna mi avrebbe spinta in un angolo buio e mi avrebbe presa con le spalle al muro ed io avrei ricambiato con le gambe strette in cinta e le mie labbra avrebbero ripagato e le mie mani avrebbero toccato, spremuto, accarezzato e guidato alla meta e schizzi al bersaglio. I miei piatti migliori insomma: ci ho speso una vita ad imparare,  ed ora ecco lui che, da bravo intenditore, li guarda con la bava alla bocca e non li tocca.

Neanche un bacio o una carezza eppure eccomi qui per sempre naufragata in una specie nuova di tempesta, che mi ha attraversa leggera e rarefatta lasciandomi naufraga asciutta e insoddisfatta.

Mi viene da ridere e da piangere insieme, scorie impazzite di aspettative, di luoghi comuni e di umidità ancestrali, cominciano ad affluire prepotenti nella testa riempendomi di una sensazione di incompiuto,  accendo una sigaretta e fisso un punto lontano, giusto per agganciare gli occhi a qualcosa, mentre loro mi scrutano dentro: certo non è orgoglio questa cosa che si  sta insinuando, no, sarebbe troppo semplice e banale, e poi il mio orgoglio, questa cagna feroce, ama ribellarsi solo e sempre con le femmine, mai con i maschi.

Rientro in macchina, mi sento ingabbiata in una progressione allucinata di me stessa, se ora torno a casa non dormo e mi giro nel letto e va a finire che mio marito si sveglia e mi prende lui e mi rapina dell’eccitazione di un altro; no io non voglio regalare a lui quello che un altro mi ha scatenato; voglio che queste energie ritrovino la loro fonte e su di questa muoiano.

Voglio che la sua pelle assaggi i mie baci, voglio impregnarmi del suo sapore, voglio che lui sia mio per tutte le volte che questa sera il mio corpo l’ha voluto e lui non si è degnato di farsi possedere, voglio che questa sensazione dolce che mi ha lasciato in grembo non rimbombi  più nella mia testa agitando i miei sensi.

Accendo la macchina, guardo i miei occhi nello specchio retrovisore, sono pupille nere di buio torbido, giro il volante fino a quando si blocca nelle sua posizione estrema, è duro ma i muscoli sferzano energie rinnovate, parto e la macchina compie una rapida inversione del senso di marcia.

Guido rapida e rumorosa, le ruote rotolano aggressive sul selciato, ripercorro il mondo all’inverso in una direzione governata dai pensieri, che anticipano una conclusione che ho già dentro la pelle, corro verso me stessa a riprendermi quella parte di me che è rimasta incagliata nel suo sangue, o in quella luce dei suoi occhi nella quale ho visto rispecchiati i miei desideri, ti farò mio per sempre mischiato al mio sangue, dentro pezzi di me.

Il cuore comincia a battermi più forte, lo sento spostarsi dal petto in gola, come se volesse uscire fuori a battere sul cruscotto della macchina.

Arrivo sotto casa,  nel punto dove lui mi ha salutato, una folata di gelo mi inchioda per un attimo al di fuori del mondo, consegnandomi la foto di me stessa che corro a questo appuntamento inesistente, dettato solo dai miei sensi, ora faccio fatica a trovare un punto di arrivo, sono a metà strada tra l’essere andata via e l’essere ritornata sui miei passi, in una zona arida del mio entusiasmo.

Esco dalla macchina, mi avvicino al suo portone, leggo il suo nome sul citofono arrugginito, sono spossata ed incerta sulle gambe, cerco di organizzare mentalmente un approccio, cosa gli dico? No, non gli dico nulla, lo ingoio nel mio corpo…no gli dico che non mi andava di lasciarlo, che vorrei passare la notte con lui… Mi sento ridicola e timida, ritorno vicino alla macchina, forse sto per andarmene, sono un cucciolo che ha perso la mamma…

Sento una macchina avvicinarsi rallentando, come un grande gatto buio si avvicina al marciapiede, non la vedo ma la percepisco per differenze di colori e temperature, si abbassa un finestrino, dentro, una figura o un cumulo scuro di materia animata si inclina dal lato del finestrino aperto: “Ehi bella, dai sali su, quanto vuoi?”

Quando ero bambina, ricordo mio padre che mi portava spesso al suo paese in campagna a trovare sua sorella; c’era una grossa casa e poi i campi e la puzza di letame e le galline e per terra era sempre sporco, a me piaceva guardare negli angoli e trovare le uova; ad un certo punto dell’anno, in inverno, si ammazzava il maiale, non dimenticherò mai quelle urla disperate e lo scalpitio e gli spruzzi di sangue, il mio cuginetto mi prendeva per mano e ci nascondevamo acquattati in un angolo della stalla sul fieno umido e profumato e da quel nascondiglio guardavamo quell’omicidio crudele, restavamo col fiato sospeso: congelati da onde corte e terribili di orrore.

Mi ricordo una mattina, me ne stavo stesa immobile sul fieno, raggomitolata nel mio nascondiglio, straziata dalle urla del maiale,  vidi il mio cuginetto con i pantaloni slacciati, che si toccava; lo guardai: era teso e bianco e rosso. Sentii una vampata violenta di bruciore salirmi su per il petto e il collo in viso, e fui attraversata da un brivido osceno fatto di paura, schifo, stupore; mi venne l’istinto di fuggire ma poi pure  l’istinto di  toccare che decretò la fine della mia innocenza e per la prima volta, attraverso la lente tiepida e trasparente dell’infanzia,  feci i conti con qualcosa tra il sesso, la morale e la libidine e la depravazione e la brava bambina.

 

Guardo attraverso il finestrino abbassato, ho l’istinto di fuggire, ma se ora avessi una pistola la punterei dentro la macchina e sparerei tutti i colpi, poi fuggirei lontana, forse in Argentina…..ma apro la portiera, spinta da una vampata oscena di libidine, entro, tiro il bordo della gonna per scoprire la gambe, le accavallo:

“Sono 50 con preservativo, 150senza”.