ANGIOLINA

Angiolina non la conobbi mai personalmente. Quel poco che di lei so lo raccolsi dai racconti degli anziani del paese. A quello che non mi vollero mai dire o che non conoscevano, rimediai con l’immaginazione, elaborando lo scarso materiale fornitomi. Cercai così di colmare quei buchi neri che tanto mi affliggevano tramite un procedimento di analisi, coniugando la somma delle mie sensazioni con le rare informazioni ricevute. In alcune occasioni, passeggiando lungo la via principale, mi capitò anche di incontrarla e mi ci ritrovai così vicino tanto da sfiorarla; il mio corpo avvertì la sferzata dello svolazzare leggero delle sue vesti, le orecchie udirono l’allegro tintinnare dei suoi monili e l’olfatto percepì quell’animalesco profumo che non avrei mai più dimenticato. Nonostante la curiosità innescata dal sortilegio del sottile adescamento, non ebbi mai il coraggio di fermarla per porgerle quelle domande che mi bruciavano sulle labbra alle quali, forse già intuivo, non avrei ricevuto risposte. Quando intravedevo l’ovale del suo viso mischiato tra quelli della folla nella piazza architettonicamente ardita di quell’improbabile borgo, rimanevo sempre stupito ed al contempo affascinato, dalla camaleontica capacità di mutare della sua fisionomia e così camuffata si mimetizzava con furbesca malizia dentro la scena che le faceva da sfondo. Ma fra tutta quella vasta e mutevole gamma di dati somatici, atteggiamenti, colori e pensieri, capivo fin troppo chiaramente che ve ne era uno, l’originale, tanto radicato quanto nascosto, quasi fosse un tesoro da tenere in serbo per quei pochi temerari che si fossero mostrati degni di tale onore. Anche le notizie raccolte evidenziavano, nella loro discordanza, quanto fitto e di difficile soluzione fosse il mistero. Da chi la dipingeva come un dispotico e sprezzante essere corrotto e crudele, a chi ne esaltava l’estrema dolcezza ed il candore dell’anima, attraverso tutte le varie e possibili combinazioni. A me di lei piaceva l’incedere sicuro quanto svagato, l’apparente sconcertante fermezza dello sguardo, le curve materne e sensuali del suo corpo e quel sorriso infantile che affiorava improvviso increspandole le labbra. Ma ciò che più mi intrigava era il mistero quel riposto segreto che in rari momenti un rapido bagliore negli occhi lasciava trapelare; ed era all’essenza di quel segreto che la mia anima anelava. Ne intuivo vagamente alcune componenti, il celato smarrimento, l’immensa potenziale passionalità ed una sfumatura di sofferenza antica come la vita. Non riuscivo però a trovare in tutti quegli elementi la costante che me ne rivelasse, nella totalità, l’essenza.
Angiolina viveva in quello strano posto così vicino ad ogni luogo ma ugualmente lontano nello spazio e nel tempo. Un mitico regno dimenticato, un rarefatto paradiso, collocato a cavallo di quell’impercettibile confine tra sogno e realtà. Il percorso che dovetti affrontare per raggiungerlo, in apparenza breve, si rivelava invece, nella sua continua teorie di curve, lungo e tortuoso come l’esistenza. L’unica via di accesso percorribile era perennemente ricoperta da una fitta secca nebbia, composta di polvere sollevata dallo stesso procedere di chi vi si inoltrava, avendo il potere, nel suo divenire continuo, di cancellare le traccie lasciate dietro. Non so bene come definire quel luogo, non strada, ne viottolo, ne sentiero o pista che dir si voglia. Era un passaggio, un valico, una strana sorta di guado che congiungeva due dimensioni tanto vicine quanto distanti, tanto simili quanto diametralmente opposte. Era come l’intima prerogativa femminile intrisa di umori che serba, nel suo breve percorso uterino, l’abissale differenza tra amniotica sospensione e la vita nella sua più completa affermazione. Poi arrivai ad una stazione e si materializzò un treno, l’ennesimo. Il monotono sferragliare evocava le innumerevoli precedenti fughe – sogni frantumati – attese disilluse – ed avevo quasi l’impressione di non essere mai sceso da quel treno che continuava a stare immobile, mentre tutto intorno il paesaggio si muoveva scorrendo via velocemente come le ore della mia vita
La prima cosa che vidi della mia meta fu la vetta di un monte coperta di intatte nevi che giocando con i raggi del sole scaturiva riflessi d’arcobaleno. Più quella montagna mi veniva incontro, più mi svelava della sua variegata bellezza. Imprevedibilmente solitaria, composta come una armonia nonostante la netta contrapposizione tra impervi dirupi e dolci pendii, attraverso un suggestivo alternarsi di scintillanti rocce cristalline ed anfratti oscuri. A metà costa macchie di verdi conifere andavano via via ad infittirsi fino a formare un bosco fiabesco, contornato da un fantasmagorico incantesimo di luminosa iridescenza.. Rapidi voli di uccelli e cauti movimenti tra i rami, lasciavano intuire quanto quella magica foresta fosse viva e densamente abitata. Subito dopo il bosco prati teneramente verdi ricamati da candide siepi fiorite di biancospino e poi più in la il paese. Per mezzo di chissà quale misteriosa alchimia l’insieme architettonico non creava contrasto, anzi trovava nel selvaggio abbraccio il suo perfetto compimento. Come un brillante incastonato in un diadema traeva e donava bellezza nel connubio. Lo splendore del panorama mi mozzò il fiato. La mente si rifiutava di credere che quella visione fosse reale e non un illusorio miraggio prodotto dal desiderio. Ero giunto nel Eden, nel Wahalla, nella mitica Avalon dagli alberi luminosi. Ipnotizzato nella contemplazione mi ritrovai a terra. Non ricordo il momento in cui scesi dal treno, ne la stazione, ne la fila parallela dei binari che si perdono stringendosi lontano. Emersi come d’ incanto dalle nebbie della catarsi, ritrovandomi in mezzo a fughe di agili prospettive ed il treno era già un ricordo vago e così remoto che dubitai fosse realmente esistito. Gli echi del rumore delle rotaie che ancora mi vagavano nelle orecchie vennero subito scacciati dai nuovi suoni propri di quel posto che come caldi e umidi vapori mi avvolgevano leggermente senza ferirmi. Il soffiare del vento, il cinguettio degli uccelli, il lontano gorgoglio di un ruscello che precipitava, si univano ai rumori prodotti dagli abitanti nella loro quotidiana gestualità trasformandosi in dolce melodia. Visioni, suoni, odori, sensazioni tattili mi inebriavano mescolandosi. Potevo toccare il morbido velluto della musica ed avvertirne il muschiato profumo, udivo risonanze di colori, mentre gli occhi gustavano sapori beandosi dell’arabescato disegno dei suoni. Non c’era più un prima e un dopo ma solo un eterno presente composto da un unico interminabile istante.
Gli abitanti di quelle contrade mi apparvero quali splendidi elfi, semplici nei modi, pudici detentori di una saggezza millenaria, personaggi incontaminati dagli occhi sereni colmi della consapevolezza del tutto e nonostante ciò ingenuamente infantili. Quella che all’inizio mi sembrò una fredda accoglienza, si rivelò poi nel tempo una tranquilla accettazione che non necessitava di grandi gesti e frasi di benvenuto. Così discretamente assorbito dall’atmosfera, mi sentì come se avessi sempre fatto parte di quel mondo. Varcavo le soglie delle case perennemente aperte ed invitanti sedendomi ai loro tavoli nelle cucine che trasudavano aromi dimenticati. Fianco a fianco ai miei nuovi fratelli mi cibavo delle squisite pietanze condite dall’antica sapienza delle mani di donna. La gioia del palato si sommava al sollievo dello stomaco, dove le venefiche scorie accumulate in altri tempi, in altri luoghi, durante un altra vita, esorcizzate dal nuovo nutrimento, si volatizzavano trasformandosi in inutili rarefatti spettri, privi ormai di corpi da possedere.
Un popolo totalmente libero, privo di padroni e simulacri, così sensibile che non aveva bisogno di una religione per determinare una morale. Se avevano un Dio era nascosto tra le pieghe della bellezza, negli eterni ritorni della natura con i suoi ritmi, con i quali vivevano in armonia, celebrando liturgie di tramonti infuocati, ascoltando inni sacri cantati dal vento, partecipando commossi al miracolo primaverile di una gemma che sboccia . Potrà sembrare strano, ma anche in quelle serene latitudini agiva la morte, componente essenziale dell’implacabile dinamica. Quello che però non esisteva erano gli egoistici monumenti a lei dedicati, neri simboli delle nostre paure. Non cimiteri, ne improvvisati teatrini itineranti di scenografici cortei. Ribalte sulle quali esercitare il nostro mestiere di consumati e consapevoli attori, dipingendoci lacrime di pubblico consumo, interpretando strazi come da copione rivolti all’annoiata platea. La solo pudici rammarichi intimamente vissuti che venivano accatastati in mnemoniche soffitte, ogni tanto evocati per gioire del ricordo. Io parlavo, chiedevo, indagavo, ponevo quesiti che immaginavo degni di complesse ed articolate risposte, invece ricevevo ingenui sorrisi e brevi modeste parole che nella loro concisa esattezza rivelavano molto di più di quanto mi aspettassi. Sentivo che finalmente avevo trovato il mio posto, il tempo delle fughe era finito. Mi dolevo soltanto dell’impossibilità di annunciare a coloro che avevo lasciato la nuova e lieta novella, sicuramente già presente in ognuno di noi ma così nascosta, così ricoperta di strati e strati ed ancora strati di preistoriche sedimentazioni che nessuna trivella avrebbe mai potuto raggiungere.

Finché vidi Angiolina…

D’improvviso nel momento in cui credevo di avere trovato la logica, il filo conduttore che governava quel mondo di utopie, quel filo si spezzò. Incantato dalla sua diversità feci di lei la padrona della mia mente, dove si insinuò con perfida gentilezza, generando nuovi inquietanti perché. Nella dimensione cerebrale che prevarica ed al contempo tende alla carne, lei fu mia proporzionalmente a quanto io, a sua insaputa, mi sentissi suo. Gli onirici contesti notturni si popolarono di un nuovo invadente personaggio che entrava e usciva dai miei sogni con prepotente arroganza. Purtroppo anche in quella dimensione, oltre i confini del reale dove i desideri si materializzano e le nascoste frustrazioni ci inviano confusi simbolici segnali, nulla mai mi rivelò del suo segreto.
In paese non esistevano radio, televisioni , cinema, teatri o sale da ballo, vi era già la splendida sinfonia che vagava nel vento e bastava aprire una finestra per godersi uno spettacolo. Era consuetudine degli abitanti inoltrarsi nei prati oppure immergersi nei boschi per assistere partecipi alle funamboliche rappresentazioni della natura. Anche la mia Angiolina spesso si perdeva in quei luoghi. Nel naturale anfiteatro contemplava concerti di prati fioriti, la commedia leggera dell’acqua sorgiva che scorre allegra accarezzando le rocce, il timido video del capriolo dalle narici frementi; però, al di la dei sorrisi, i suoi occhi non si beavano delle stupefacenti aurore boreali, non riflettevano la stessa intensa gioia dei suoi simili. Lo sguardo continuava a muoversi frenetico di soggetto in soggetto, evidenziando tutta l’ansiosa voglia, di quella martoriata anima, di raggiungere finalmente la sensazione totalizzante. Viveva anche il piacere carnale con la stessa frustrante intensa frenesia. Dopo una notte trascorsa tra le braccia dell’ultimo dei suoi tanti amanti, nell’inutile tentativo di sconfiggere la solitudine seppellendola fra gli orgasmi, altro non le restava che un senso di vuoto da sommare al vuoto. Allora dopo avere salutato l’ennesimo compagno, dopo essersi cimentata nell’ultimo fallito esorcismo, stesa sul letto con lo sguardo fisso al soffitto e la mente volutamente spenta, mentre il nulla la invadeva, meccanicamente allungava il braccio iniziando ad accarezzarsi con sapienza infinita. Miseri palliativi, insufficienti surrogati incapaci di spegnere quell’inquietudine e farle raggiungere l’ultimo disperato bisogno. Finché un giorno, durante una passeggiata, si portò subito sotto la montagna. I suoi occhi dopo avere angosciosamente sfiorato le vette innevate e gli alberi maestosi, si posarono su un semplice sasso per metà conficcato a terra in una crepa nascosta. Come per magia l’espressione del suo viso si alterò, il cielo le penetrò gli occhi rivelando uno sguardo angelico. Si chinò rapida per raccoglierlo ma prima lo accarezzò ammirata bisbigliando impercettibili parole. Poi con estrema cautela, quasi si trattasse di una fragile creatura, lo estrasse dalla sua culla di terra e subito una minuscola frana andò a colmare quel vuoto. Rigirandosi tra le mani quel frammento di roccia ne studiò rapita ogni più piccola sfaccettatura e con labbra tremanti mormorava confuse parole d’amore. Era una piccola pietra di colore scuro che poteva stare nel palmo di una mano, apparentemente priva di qualsiasi particolare attrattiva. Chissà lei cosa ci vide ? Forse individuò nelle venature sottili una mappa stellare capace di condurla alla sua meta, o forse colse nella liscia, nuda compostezza il segreto della creazione o forse, o forse, o forse… Ingelosito la guardai mentre correva a casa stringendo amorevolmente al seno il suo tesoro con l’espressione rapita di una principessa innamorata. Adesso, dopo le evoluzioni notturne, non allungava più il braccio, afferrava invece il suo sasso-talismano posandoselo sul dolce pendio del monte di Venere e concentrandosi su quella lieve pressione, traeva da quel leggero contatto tutto ciò che i gesti dell’amore non avevano saputo sortire.
Sulla montagna intanto la piccola frana causata dalla rimozione del sasso ne innescò un altra che a sua volta ne innescò un altra ancora in un gioco di domino senza fine, si formò un asciutto torrente che già iniziava a minare le fondamenta stesse del monte producendo sordi brontolii. Giù a valle le persone inconsapevoli e tranquille, racchiuse nel guscio della loro atavica sicurezza, si gustavano gli interminabili minuti dell’esistenza. Quando una notte un tremendo boato soffocò la musica. Gli abitanti ebbero appena il tempo di svegliarsi sorpresi da quel suono così estraneo, prima che l’intera montagna gli si sgretolasse addosso. Non so come mi salvai insieme a pochi altri attoniti fortunati(?), tra i quali Angiolina che inconsapevole della sua tragica responsabilità continuava a stringere il suo totem di pietra, unico oggetto salvato dalle rovine della sua dimora. Tutto intorno desolazione. Con gli occhi bagnati di lacrime impastate di polvere, scavavo fra le macerie a mani nude e quei pochi che riuscivo a riportare in superficie ancora vivi non erano più i calmi e fieri Elfi dagli sguardi sereni, ma misere creature coperte di sangue e di fango, i vestiti a brandelli, gli occhi colmi di terrore, le bocche spalancate in un urlo silenzioso come oscuri orridi infiniti. Vivi soltanto perché nei loro petti batteva ancora il cuore ma morti nella sublime identità ormai perduta, uccisa dall’urto della roccia, sommersa da tonnellate di detriti. Non più montagne incantate e magiche foreste luminose! Solo un arida, immensa pietraia sulla quale vagavano come rattoppati fantasmi i miserevoli superstiti intenti nel recupero dei loro averi, schiavi ormai della necessità. Il tutto pervaso da un sentore di putrefazione. Finito il tempo delle invitanti porte eternamente aperte! Non più tavole sempre imbandite alle quali sedersi! Solo dolore, astio, diffidenza, occhi crudeli non più disposti al sorriso, cuori freddi ai quali il disperato bisogno aveva asciugato ogni stilla d’amore.
Non si sa come la notizia del disastro giunse nel mondo parallelo. Quale migliore occasione per colonizzare quei nuovi territori? Arrivarono giganteschi assordanti bulldozer condotti da personaggi sudati che imprecavano in continuazione e fu quindi costruita una veloce e moderna autostrada per agevolare gli aiuti e la ricostruzione. Che cuore da parte di questi “generosi” costruttori! Che già si sfregavano le mani pensando ai futuri guadagni. Tutto fu spianato e dimenticato, sorse un altra città fatta di vetro, acciaio, cemento e sullo sfondo delle scure ciminiere, eruttanti densi fumi maleodoranti, presero il posto della serafica montagna solitaria. Quello che era un paese si trasformò in un attimo in una affollata metropoli, destinata dai nuovi padroni alla produzione industriale. Divenne ricca, opulenta, perfida. Dalla nuova strada giunsero i predicatori, preceduti da uno stuolo di croci, alla ricerca di anime perdute da salvare e costruirono immense cattedrali. Come era diversa l’antica musica dai suoni assordanti delle loro campane, collocate su alte torri dalle guglie acuminate, simili a gigantesche siringhe che proiettavano per ogni dove inquietanti ombre nere. Così Importarono il concetto del peccato e con esso la devianza e la frustrazione. Poi arrivarono i politici che ambivano governare quella nuova città ed importarono corruzione e servilismo. Poi gli uomini d’affari ed importarono la miseria. Poi gli uomini di legge con i loro codici ed importarono l’ingiustizia e l’arroganza. Poi tutta la tecnologia che con le sue antenne e le sue pillole importò l’oblio e la perdizione. Insieme ad essa tutti i suoi tecnici e teorici, menti costruite in laboratori di prestigiosi atenei, convinti di possedere la verità mentre non facevano altro che perpetrare la menzogna. Giunsero anche altri predicatori vestiti in maniera diversa, armati di simboli diversi, inneggiando una fede diversa e così i proseliti delle diverse dottrine si accapigliarono come bambini capricciosi, ognuno convinto di essere nel giusto. Iniziarono a scannarsi come bestie ed il sangue scorse copioso.
Angiolina, la non più mia Angiolina, non fece altro che indossare l’ennesimo travestimento e quel sasso tanto amato divenne un dimenticato fermacarte. Mimetizzata continuò ad offrirsi generosamente ai nuovi arrivati, sembrava che tra quelle braccia più volgari e violente ci si trovasse meglio, anche se, ne sono sicuro, ogni mattina evitava di guardarsi allo specchio per non vedere nel riflesso la spenta luce delle sue pupille
Non volevo vedere, non volevo partecipare, non volevo più vivere. Mi richiusi dentro me stesso fino a che in fondo ai miei pensieri intravidi un barlume di speranza, compresi che la mia ricerca non andava fatta in avanti, dovevo tornare indietro, molto più indietro, nei tempi e nei luoghi dove mi trovavo prima di iniziare il mio cammino solitario. Dovevo partire. Venni a sapere che nel porto di una città poco lontana vi era una nave pronta a salpare, decisi immediatamente di raggiungerla per imbarcarmi. Mi volsi e me ne andai lasciando Angiolina ed i suoi irrisolti misteri.
Non mi ci volle molto per raggiungere il porto, già da lontano avevo individuato l’immenso transatlantico accostato alla banchina. Mi misi in fila con gli altri viaggiatori in attesa che scendessero quelli in arrivo che erano molti di più di noi che partivamo, smarriti clandestini che inseguivano una vana speranza, attirati come farfalle notturne dalle luci della metropoli. Quando salimmo il battito sordo dei potenti motori di quel mostro del mare, unitamente alla vibrazione avvertita sotto i piedi, mi ricordarono in maniera sinistra gli stessi suoni e le stesse sensazioni avvertite poco prima che la montagna franasse
Tutto può succedere.
Poi finalmente si salpò…
Navigai a lungo sino a dimenticare quale fosse stato il nome di quel sepolto paese. Vorrei tanto ricordarlo ma ogni sforzo è vano, era un nome che evocava verdi pascoli, cieli tersi ed azzurri, serenità e sorrisi, solo questo rammento.

Fine


“A FLORA”

Ti ricordo lieve
come ali di farfalle,
come nuvole di vapore,
come pura e cristallina
rugiada del mattino.

E ti rivedo…
Incantesimo di strabismo,
ambigua voluttuosa,
purezza – perdizione.
Donna,
uomo,
fanciullo.
Androgina fantastica !

Ora perfetta
Angelo fra gli Angeli.


“BERNARDO”

Il mio cane
mi guarda serioso,
compunto,
altezzoso.
Orecchie piegate,
labbra pendenti
a ricoprire ricordi
di denti possenti.
Durante il cammino
di primo mattino,
in passeggiate
su erbe bagnate,
con passo stanco
cammina al mio fianco.
La mia mente impegnata
a cogliere versi;
lui annusa tracce
di mondi diversi.

Il mio cane è invecchiato,
zoppicante,
malato.
Ma l’occhio devoto
rivela un brillio
che rende evidente
l’impronta di Dio.