Poesie
LA STANZA CINESE
Dalla pergola muove in volo
un merlo imitatore,
recita voci estratte a sorte,
talché nel caos scorgiamo logos.
Quello che s’indovina è previsione,
il resto si dimentica
o rimane rumore bianco,
un mugolo che mendica.
Ma ogni giorno cresce l’ammanco
tra quanto era fattibile ed è stato.
Quando l’aria sa già di neve nuova,
l’azzurro boato del cielo invernale
infrange le persiane
e le sfrega incendiandole di luce,
che sotto l’uscio invita a evadere
da questa stanza, dove tutto è
dedizione al rammarico e ai suoi simboli,
ogni momento pare già trascorso
e il futuro impossibile.
Amiamo crederci conoscitori
privilegiati di noi stessi, quando
invero ignoriamo a quale condotta
ci inviterà l’evento venturo.
Pur vivendoci sempre dentro e accanto,
di noi sappiamo, ahimè, quanto degli altri.
Eppure è la pietà dimenticata
più dell’incomprensione a relegarci
nel profondo buio con le labbra chiuse,
mentre altre invano chiamano alla vita.
MONDO
C’è solo questa sorte, mi domando,
questa unica stazione da ascoltare
in sottofondo, mentre armonizziamo
ridicolmente fra noi arie diverse?
C’è solo orrore e folclore o anche amore?
Chi non comprende diventa retorico,
loda o aggredisce, ma legato al piolo
dell’istante non vede oltre il pascolo
dove lo anima una voglia di favola.
Ogni lato sfiorato ho sfaccettato,
sino a trovarmi al centro d’una sfera.
Questa radura, cui si approda al termine
d’una difficile marcia per comprendere
il bosco dall’interno, è il mio pensiero.
Manifesto il mio abbandono solamente
in forma di resistenza, soltanto
so essere nel mondo tra parentesi,
all’ombra dei giudizi che ho sospeso.
Una metafora oscilla sul ramo.
La storia avanza per erte e gineprai
col passo morbido del bracconiere,
eppure, là dove l’abisso bela,
chi si cala a soccorrere è salvato.
La verità è in perpetuo movimento,
a ognuno tocca gettare la sua àncora,
che ha la fragilità di una semenza
e fa assumere all’uomo forme varie.
La BREZZA
L’amaca di un terrazzo oscilla concava.
Dove un viottolo brilla verso il mare,
la brezza parla basso e inarca l’agave.
Domina la sensazione che a scendere
si salga, di un ritardo paradosso
che ci ridossi da un qualsiasi arrivo.
Nell’irrealtà dell’ora postprandiale,
a parte noi, nessuno pare vivo.
Mi chiedo se poi ci piacerebbe
o se vorremmo cercare altro in terra,
ma già è comparso un micio e tu ci giochi.
Mi accorgo adesso della riva,
che da qua sotto mai ci siamo mossi,
né torneremo altrove, troppo fiochi
per resistere al viaggio o per dividerci.
Eppure di noi ne rimangon pochi,
ostaggi di specchi che a volte irridono
e tuttavia rimandano bellezza
bastante a creare, credere altra brezza.