Il giorno in cui Kurt Cobain è morto

Quel giorno lo ricordo bene, ero a scuola. Durante la ricreazione due ragazze sono corse per dirmi che Kurt si era ucciso, si era sparato in bocca. A quel tempo avevo da poco iniziato a suonare la chitarra e in molti conoscevano la mia passione.

Era il 1994, dopo il boom degli anni ’80 i ’90 erano appena iniziati ma qualcosa nell’aria stava già cambiando. L’idillio e il sogno di ricchezza infinita che aveva caratterizzato il decennio precedente non sarebbe potuto durare.

E così, come spesso accade, sono gli artisti a ricordarci dove ci stiamo dirigendo e quello che stiamo facendo. Così come Andy Warhol negli anni ’60 esaltò il pop e la cultura commerciale di massa iniziata nel 1954, Kurt Cobain arrivò come una doccia fredda a ricordarci che le nostre illusioni si sarebbero schiantate sul muro della realtà, quello della natura. In un mondo a spazio finito la ricchezza e la crescita non avrebbero potuto essere infinite.

La fine degli anni ’80 e i primi ’90 sono stati dei grandi anni per la musica Rock mainstream, sono stati gli ultimi. L’hard rock dei cappelloni ha visto l’esplosione di uno dei gruppi più veri di quell’ondata (Guns ‘N’ Roses) e poi è arrivato qualcosa di ancora più duro. Non musicalmente parlando, ma più duro e crudo nel messaggio che portava. Una specie di profeta dell’apocalisse. Kurt Cobain.

Sarà un caso che proprio nel 1994 nacquero presso la Jp Morgan i derivati sul credito e si gettarono le basi per il crash finanziario del 2008 che oggi ci sta portando verso l’ennesima guerra mondiale ?

Non lo so ma forse Kurt lo sapeva. Forse sapeva che l’arrivo di Napster avrebbe disintegrato l’industria musicale catapultando in cima alle classifiche solo dei minorenni senza senso ripieni di gossip e scandali costruiti ad arte. Per non parlare di quei patetici Dj il cui “dominio” nella storia della musica sarà tanto breve quanto quello di uno sbadiglio. Uomini ed intrattenitori senza anima, macchine che alimentano macchine e dalle quali verranno presto rimpiazzati.

Ma cosa spinge l’uomo a volere uscire dalla sua umanità e a trasformarsi in una macchina conta numeri ? Probabilmente qualcosa che tu non avevi, paura di morire. La ricerca di una condizione superiore a quella in cui siamo relegati. La nostra mortalità e le nostre limitazioni vengono superate dai numeri e dalle macchine che abbiamo creato, esse operano e continuano ad evolversi oltre la vita.

E così, oggi, è solo attraverso i numeri che gli esseri umani misurano la loro legittimità sociale e il loro “valore”.
Per questo la tendenza al dominio globale di tutti i numeri sembra così naturale.

Ma in fondo soffriamo, soffriamo in questo processo di disumanizzazione che senza i numeri e le visualizzazioni non è in grado di riconoscera i simboli più alti dell’esistenza quali la giustizia o la bellezza e cerca solo il numero di iLike per potersi orientare.

Le prossime adorazioni nei festival e nelle discoteche più “in” del mondo le faremo verso le macchine, muoveremo le braccia e ci esalteremo inebriati dalla potenza di quei suoni meccanici fatti di 0 e di 1 mentre alcuni di noi ancora ti penseranno.

A quell’ultima Rock Star.


Il terrore della solitudine

Nell’era dei social il terrore della solitudine non è mai stato così grande. La solitudine fa bene all’anima ma non all’economia, siamo marchi da spendere, brand da pubblicizzare, i più evoluti sono anche in grado di monetizzare il proprio nome, affogando la loro solitudine nel mare sociale.

Incasellati come api nell’alveare, ognuno con il proprio spazio, battiamo le ali più forte per farci notare e mostrare quello che non siamo. La solitudine però è importante, è fondamentale. Nasciamo soli, moriamo soli, attraversiamo questa vita e impariamo da soli. Non sapremo nemmeno mai con certezza se i colori che gli altri vedono sono gli stessi che vediamo noi, se i sapori che gli altri provano sono gli stessi che proviamo noi. Forse non sapremo mai nemmeno chi o cosa siamo stati, men che meno il perchè. Eppure scappiamo. Parliamo solo di attività svolte con altri. Raccontare una giornata al mare da soli suona come una pazzia da emarginati, da diversi, sembra quasi suscitare compassione. E’ così bassa la considerazione del tempo che passiamo con noi stessi ? Poi guardi questa grande invenzione del 21° secolo. I social. Il mondo ridotto a piatte immagini sociali, virali, finte, selfies.
I volti nei selfies sono i volti del terrore, il terrore della solitudine che viene esorcizzata attraverso un vestito nuovo, una faccia buffa o un bel sorriso.

Non vedi, non sono solo.


Non ho niente da dire

Non ho niente da dire ma è giusto che lo dica.
Non ho niente da fare ma è giusto che lo faccia.

Non ho pensieri e non ho problemi da risolvere.
Non ho desideri e non ho sogni ed è giusto che tu lo sappia.
Vorrei rivivere la vita senza esempi da seguire, o immagini da imitare.
Vorrei rivivere la vita senza i limiti del mio corpo o della mia mente.
Vorrei fare qualcosa di utile con questa vita, ma quello che è utile per me non lo è per gli altri.
E chi sono gli altri.
A me non piacciono gli altri.
Piaci solo tu, una alla volta.
Volta per volta.