Adriana Lamarra - Poesie

Il Tempo
(Giugno 1967)

Un portone grigio
rugoso
come la vecchia che aspettava
seduta

Aspettava

e poi pioveva
e il portone grigio
rugoso
diventava nero

e poi la pioggia moriva
e il cielo apriva
squarci di sole
sulla strada grigia

Quel ragazzo non mette più
la sua maglia gialla
seduto
aspetta

e domani diventa ieri
e poi l’altro
e poi altro mondo

Nessuno ricorda
un bambino dagli occhi di mare
arrampicato su un balcone di gerani

a guardare le stelle

 

 

 

Ricordo d’infanzia
(Agosto 1968)

L’ombra del grande tiglio
sull’asfalto di città
scava il ricordo
del vecchio pozzo
nel giardino assolato
dell’infanzia

Ghirigori d’acqua
lancinati dal sole
un sorriso infantile
seviziato da manine beffarde
che han capito
troppo presto

le regole del gioco

 

 

 

Ad un esule greco
(Aprile 1974)

Il quieto lamento delle rondini
sul finire della notte
mi fa pensare al tuo sorriso
triste in partenza
dal binario 15 della
stazione di Genova

il buio seviziato
dai moscerini dei lampioni
sull’asfalto umido
è una ferita cicatrizzata
e perenne
come il profilo dei monti
e il dolore degli addii
di chi è costretto ad andare
di chi è costretto a rimanere
di chi è costretto

e nei tuoi brevi occhi scuri
imbrigliati per caso
nel mio cammino scivoloso
riconosco il mio uguale destino
consegnato in duplice copia
davanti ad un tramonto troppo bello
anche lui di passaggio

 

 

 

Viaggio in Grecia
(Luglio 2001)

Eppure è qui
tra questi sassi
che un dio sconosciuto
ha proiettato
verso un cielo immutevole

-la Dike illude talvolta
con rare nuvole bianche-

tra questi scogli
che un mare infaticabile
tormenta e corrode

-le Nereidi intessono ancora
miraggi di alghe e colori-

qui è emerso
abbagliante e fermo
come sole di mezzogiorno
il nocciolo del Problema:
Perché?

 

 

 

L’aria d’autunno
(Autunno 2008)

Come l’aria
s’insinua tra le smagliature
della vita
calda e pesante
penetra e invade polverosa
cocci a perdere
e anfore romane

a volte un vortice
tra le foglie secche
di un autunno rossastro
dà l’illusione di una forza
di volontà
di una decisione presa
di un’aspirazione

ma il barometro cala
e sottile ritorna
a perdersi
dietro le lattine vuote
nei bicchieri di un bar
tra le ruote di un treno
Così il tuo amore

ha la forma dell’aria d’autunno

 

 

 

Aria di Primavera
(Maggio 2010)

Chiaro il sole di primavera
incoronava poco fa
le foto dei miei figli bambini
sulla scrivania dorata
e le sedie e i libri
preziosi mi sembravano
preziose le generazioni
di penne e matite e gomme
e vasi e piante
confluiti per strade infinite

un miracolo di natura
un riso fresco nell’aria
il ramo più alto del giardino
facendo capolino dalla finestra
incoraggiava il cuore sobbalzato
come un ricordo
ancora ricomponibile
una poesia
ma il battito è cessato
e le parole non rispondono

 

 

 

Fra le lucciole di Giugno
2 Giugno 2011

Fra le lucciole di Giugno

in fondo al campo incolto
ove il vento di primavera
di grano, di fieno e lavanda
spighe ha seminato
insieme a loglio e gramigna
e papaveri sparsi

Fra i rami del dolce fico
Paradiso di rondini passeri
e gazze peregrine
là la mia anima danzerà con le zanzare
salterà con rospi e cavallette
si accorderà con le cicale
e troverà un senso.

 

 

 

La cultura
(Marzo 2012)

Al modo delle foglie che in autunno…

leggo i versi dell’antico poeta
agli occhi annoiati dei miei alunni
secoli di saggezza distillati
in un alambicco fragile
fonte che versa in mani bucate

così le parole in un’aula
polverosa di gesso
in un mattino di marzo

 

 

 

La prima ora di lezione
(Settembre 2016)

ruotano veloci le automobili
intorno allo spartitraffico
improbabile isola verde
sull’asfalto di città

si affrettano i soliti ritardatari
gli zaini caracollano
sulle spalle magre
tra le moto colorate

il raggio di sole
sembra fermarsi un attimo
tra gli alberi sempreverdi
lo riconosco

a quest’ora del mattino
in questa stagione
sembra un punto di domanda

suona l’ultimo avviso della campanella
un tramestio di passi
e sedie e banchi spostati
e cala l’appello alla quotidianità

 

 

 

Ricordanza
(Agosto 2016)

Quanto amavo
questi tetti bagnati di pioggia
il crepitio di fine estate
sulle ringhiere
di questa mia vecchia casa!

Riconosco
insieme alle voci diverse
eppur familiari
alle ansie, alle attese, ai sogni
e a tutto il bello della giovinezza,
il trascolorare
al di là del tempo e dei cortili,
del mio vecchio campanile
di Santa Maria del Castello

 

 

 

Tratti dal “Bosco di Margherita”

romanzo piuttosto complesso pubblicato nel 2012 con le edizioni SENECA e articolato in episodi-capitoli il cui intreccio  tocca   le situazioni più emblematiche dell’ultimo secolo.

Prologo

La vecchia, che aspettava, seduta sulla sedia impagliata, davanti al portone grigio, rugoso, come la strada impolverata ed i gradini di pietra porosa, che lo separavano da piedi scalzi, zoccoli, scarpe più o meno scalcagnate, che correvano o rincorrevano lungo il muro, non poteva immaginare che sarebbe vissuta così  a lungo nella memoria di qualcuno di passaggio.
Era un’estate napoletana ed era la prima volta che andavo in un vicolo della città vecchia, né ho avuto altre occasioni dopo. Si era alzato un vortice di vento, anzi di polvere, che aveva sollevato via tutte le carte, le bucce di pomodoro e di arance, stracci di vario colore, resti di qualcosa che era servita a qualcuno, in qualche modo. I banchetti dei venditori di sigarette, di contrabbando al sole, e i panni stesi, erano stati ritirati insieme ai bambini, che giocavano sulla strada, restituendo alle cose il colore delle cose.
Subito, al placarsi del vento, uno scroscio di pioggia si abbatté sul vicolo e bruì allontanandosi: il portone rilevò, imbrunendosi, tutte le sue crepe. L’acqua scorreva per una fitta rete di cunicoli prima invisibili, e, quando il sole tornò, restituì le bucce di verdura, l’odore di cavolo e di pesce, i cesti calati dai balconi, le voci di bambini, mamme, venditori. La vecchia non s’era mossa, era rimasta sulla sedia ad aspettare, e la sua faccia era grigia e rugosa, come il portone, e la strada, e le scale. Aspettava, non si accorse della bambina dalla maglietta gialla,  rifugiata nell’androne, spiando dentro l’anfratto, che aveva nel fondo uno squarcio di cielo e di campanelle azzurre, una risposta.
Aspettava.

 

 

 

Il paese

Il paese sembrava, e sotto certi aspetti era, fuori dal tempo: un arroccamento di case vecchissime, attaccate tra loro da muri e ponti di pietra,  intorno al castello   medioevale, in parte franato, completamente ricoperto da rovi ed ortiche, nelle cui inestricabilità i bambini immaginavano si incontrassero le ” ianare”, e i grandi raccontavano storie di delitti e fantasmi, che sono così simili a quelle di tanti castelli di ogni parte del mondo, che già allora non le avevo prese in considerazione.
Le” ianare” però si: un senso di disagio mi prende ancora ora, e un clima di paura sicuramente in paese c’era. Erano una specie di streghe ( Benevento era vicina) capaci di fare ” fatture” mortali e causare disgrazie e malattie a coloro, a cui volevano male. Si raccontava che un vecchio aveva trovato un antico libro di formule magiche e aveva fondato una saga, di cui facevano parte alcune donne del paese. Si facevano anche i nomi in segreto, e, in confidenza condivisa, si diceva che chiunque poteva riconoscerle, andando alla Messa di Mezzanotte a Natale, con un mazzetto di spighe di grano. Si può immaginare che effetto facessero tali racconti su un cervello delicato come quello di mia madre: sentiva rumori di passi lungo le scale, di notte, e mormorii nella stanza da pranzo, anche di giorno; non volle mai entrarvi per anni, fino a quando, essendo nato mio fratello Giovanni ed essendosi reso necessario lo spazio per un altro letto, venne deciso che io vi avrei dormito. I miei problemi di insonnia cominciarono pressappoco in  quel periodo. Mia madre mi rimproverò non poco per questi miei “capricci”, poi… affrontò il problema. Mise una forbice aperta sotto il letto e convocò la lattaia, perché mi togliesse il malocchio.
La lattaia era una donna senza età, aveva le figlie più grandi in Svizzera e il più piccolo, di  tre anni più grande di me, era mio compagno di classe. Veniva tutte le sere, a portarci il latte, e si fermava a raccontare tutte le storie del paese. Ricordo con nitidezza la seduta del malocchio.
Era buio.
Intorno all’unica lampadina crepitavano le ali di una falena, qualche mosca ronzava ancora attorno alle molliche sul tavolo, doveva essere  estate.  In un piatto bianco, pieno d’acqua, la lattaia versò tre gocce d’olio, recitando alcune parole incomprensibili. Le gocce, invece di andare a fondo, come è normale, con un tacito scoppio, si allargarono verso il bordo del piatto, scomparendo. Inutile dire che ripetei poi più volte l’esperimento e le mie gocce d’olio sempre andarono sul fondo, ritornando a galla rotonde. Per qualche periodo la mia insonnia guarì, ma è probabile che il mio fisico si autodifendesse, esigendo che dormissi (avevo 10 anni).
Ricordo comunque con molto affetto la nostra lattaia, perché era uno dei pochissimi punti fermi: con qualsiasi tempo, in qualsiasi stagione, arrivava, quasi alla stessa ora, pur non avendo mai avuto l’orologio.
Quando le sue mucche non avevano il latte, perché gravide, si preoccupava di procurarselo, andando da un allevatore detto “o’ capraro”, che abitava piuttosto lontano dal paese. Un paio di volte ebbi il permesso di accompagnarla. Era una finestra sul secolo scorso.
Ci si arrivava, percorrendo un sentiero di terra battuta, polverosissimo, segnato da continue strisce ondose, lasciate dal passaggio di vipere e serpenti.
Signurì, ve piace ‘a campagna?  Cà ‘a fatica è grossa e nun se timbra o’ cartellino, nun ce sta orario né Sabbato, e basta na’ grandinata che ce se more e’ famme,  ma dignitosamente, mai fatto nu debbito—
Il capraio accompagnava le parole con i gesti consueti: prendeva le chiavi della stalla, richiamava il cane, che continuava ad abbaiare per la presenza degli estranei, e ritirava le bottiglie della lattaia, per riempirle.
Si lavava le mani nel catino sul pozzo, poi entrava nelle stalla: le capre e le mucche erano separate da un corridoio formato da due basse e grosse funi parallele, attaccate a cerchi di ferro inchiodati al muro. Quiete e mansuete le capre offrivono le poppe, gonfie di latte, alle mani esperte del pastore.

Erano gesti lenti come un rito: Eumeo che raccoglie il gregge e aspetta, là, fermo nella petrosa Itaca, fuori dal tempo , che torni il suo padrone. Leggevo a quei tempi l’Odissea: vi riconoscevo il mio paese nelle estati aride, che seccava l’erba e i torrenti, tra le pietre grosse, levigate dalle piogge e dal tempo. Anche qui le capre si arrampicavano sulle rocce brulle, tutt’uno con il paesaggio immutevole: qualche rara nuvola bianca accarezzava le cime dei pini marini sulle colline corrose dal vento.
La mia lattaia, nel frattempo, raccontava di sua figlia Gina in Svizzera, che si era appena sposata . Piangeva, nel raccontare che nessuno della famiglia aveva partecipato al matrimonio: —Tanto o’ padre, per accompagnarla all’altare, —se l’é pigliato o Signore 10 anni fa…e vestirci tutti… e pagare il viaggio… veniva a costare troppo; tanto là, nun ce tengono a ste’ cose—
—Se fa come si può, l’importante è che ha trovato nu’ bravo giovane—
Ripeteva nelle pause il capraio.
Con me si sforzava di parlare italiano, lui, che era stato a lavorare in America  e si era fatto capire: c’era andato, per potersi comprare un gregge suo e non stare sotto padrone. Adesso era quasi benestante e i figli studiavano in città.
E’ certo da questa gente che ho imparato il rispetto per il prossimo , per il lavoro e la fatica quotidiana, per le parole, che possono fare bene e male, per il mistero, che ognuno custodisce in fondo al cuore.
I silenzi di zia Rosetta, che io chiamavo nonna, accompagnavano il fuso, che avvolgeva la lana delle sue pecore, tosate a mano, una ad una. Nonostante appartenesse ad una delle famiglie più benestanti, andava ancora nei campi, a raccogliere verdura e frutta per la cena. Accudiva ancora ai maiali, anche dopo la laurea del figlio, che insegnava nelle scuole del paese ed era chiamato “o’ professore”.
— Sta’ “mamma” è di prima della guerra” , ce la siamo conservata nel lino di mia nonna, scappando sotto i bombardamenti—
Mi indicava l’involto di pasta lievitata, che aggiungeva alla farina sciorinata sull’enorme tavolo da cucina.
—Quando bombardarono Montecassino, i lampi e il fracasso ci tennero svegli notte e giorno . Una bomba arrivò su quella casa in fondo al paese, che è ancora diroccata, dove zio Gennarino, quando beve più del solito, vede i fantasmi—
Impastava  per un tempo, che a me sembrava lunghissimo.  Aspettavo in silenzio e aiutavo a ricoprire con un telo di lino bianco.  Me la ricordo seduta davanti al focolare: in un enorme pentolone,  bollivano chili di patate, che sarebbero servite per il maiale,  libero nel cortile. Grufolava affettuosamente, mentre gliele gettavo, una ad una.
Era un cortile in gran parte lastricato, recintato da un muro, che lo separava dall’orto vero e proprio, dove crescevano le più belle melanzane e zucche della mia vita, ma anche alberi di limoni e pergolati di vite.
Forse era il profumo del gelsomino e dei fiori d’arancio a coprire quello delle galline e del maiale, giacché, nonostante la promiscuità, mi è rimasto un ricordo di lindore e freschezza.
Spesso mi portava con sé al rosario.
Ci si inerpicava su, per la lunga scala di pietra, che portava sopra al paese; qua, su una piazzetta bianca, di pietra calcarea, appoggiata su una terrazza naturale della collina, sorgeva a strapiombo la cattedrale. Da un lato un alto muro teneva la roccia che la separava dal castello, dall’altro un muretto, anch’esso di pietra calcarea, la separava dalla scala principale d’accesso.
—Zia Rosè, avete compagnia stasera? E sta’ bella guagliona è la figlia del maresciallo? Come s’è fatta grossa!”
—Con l’aiuto di Dio —
Rispondeva Zia Rosetta”
La cattedrale, nonostante l’incuria e gli evidenti condizionamenti geologici, conservava tutta la magniloquenza della scenografia barocca.  L’ampio affresco, che riempiva tutto l’abside, sapientemente illuminato da una pioggia di luce naturale, proveniente da un lucernaio in alto, rappresentava la Santissima trinità: un triangolo luminoso al fondo, tra nuvole translucide,  era Dio Padre;  una colomba in volo lo Spirito Santo;  Gesù aveva la veste bianca,  il mantello rosso ed un’aureola d’oro.  A 6 anni rasentai l’estasi religiosa. Ai lati, lungo le navate, vari affreschi materializzavano l’immaginario popolare sui principali drammi del peccato, della morte e della Resurrezione: Maria trionfante, con il serpente sotto il piede, un serpente viscido, la lingua biforcuta era  ancora viva nella testa reclinata. Le fiamme dell’Inferno  avvolgevano corpi coriacei e bocche spalancate, davanti a diavoli festanti, con forconi puntuti.
Gesù veniva deposto sul grembo di Maria e il sangue  colava vivo dalle spine, dal costato, dalle mani, dai piedi, sulle vesti , sui veli, sui paramenti….
—Ave Maria, gratia plena, dominus tecum—
La litania si sciorinava monotona , ma dolce, rassicurante; le vecchiette non sapevano il latino.  Il mistero delle parole antiche aveva tutto il senso di una chiave di accesso alla salvezza .

 

 

 

Il sessantotto

Da tempo arrivavano voci di occupazione di atenei: a Milano era stata occupata la Cattolica, da Roma arrivavano addirittura notizie di scontri, del neonato movimento studentesco, con la polizia. All’uscita dal liceo, ogni tanto, si palesava qualche eskimo, con volantini ciclostilati e copie del Manifesto.
Non erano alunni del nostro liceo.
A quei tempi pensavo che fossero universitari o operai, che combattevano per il comune obiettivo di  avere una scuola meno classista. Erano gli anni in cui il Liceo formava quella che, pomposamente, si chiamava la classe dirigente del paese: certo  i più erano figli di avvocati, di baroni delle università o delle cliniche pubbliche e private, portaborse e burocrati a vario livello, che perpetuavano i privilegi paterni. Qualche bottegaio, appena arricchito, cercava di promuovere il figlio o la figlia nella scala sociale: veramente capaci pochi, ma cominciava ad arrivare gente nuova.  Nel mondo guerre, dittature, stermini di massa, di cui abbiamo saputo qualche lustro dopo.
Erano i favolosi anni sessanta: nessuno si accorgeva che il boom economico era agli sgoccioli e la “bella società”, nata dal secondo dopoguerra, prendeva le sue belle precauzioni, per riportare tutto all’ordine, secondo la secolare, consolidata prassi che “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”
Quel giorno un urlo isterico uscì dalla II C, cui rispose lo sbattere della porta e il viso paonazzo di Migliavacca Bruno, catapultato, col giubbotto verde e le Timberland d’ordinanza, su per la scala, che portava al primo piano, davanti alla porta della Presidenza. Il bidello Benito, istituzione decennale del Liceo, cercò di pararglisi davanti, ma lo stesso Preside, bonario e paterno, come da prassi consolidata, lo invitò ad entrare.
Migliavacca Bruno denunciò di avere subito percosse ( uno schiaffo) dall’insegnante supplente di Greco, per avere contestato il voto della interrogazione, un terzo grado “inqualificabile e inaccettabile”. Il preside assicurò al Migliavacca, figlio di un assessore con qualche possibilità di arrivare in Parlamento, che avrebbe fatto luce.
Il giorno dopo tutta la città parlava del fatto, aggiungendo o sottraendo, a seconda delle proprie simpatie politiche, del proprio carattere, delle proprie conoscenze o, più verosimilmente, della propria fantasia. I più, tenendo fede alla natura del luogo, dotato di un umorismo, che vorrebbe essere inglese, se non fosse da bar nostrano, aggiunse lazzi e barzellette, che passarono di riso in riso, trovando chi seppe appoggiarle a sostegno di soluzioni logistiche usufruibili.
Il ragazzo si trovò di fronte ad una scelta: buttarsi a destra e denunciare” la premeditata e vile offesa” al politico suo padre? Oppure a sinistra, denunciando una scuola ”violenta e repressiva?”
Il liceo fu, per qualche tempo, un’officina di idee, di proposte, ma anche un covo di cospiratori contro l’ipocrisia borghese, il perbenismo borghese, i banchi e le cattedre borghesi…borghese era la parola giusta.
Quando all’eroico Migliavacca fu comminata la sospensione di tre giorni, per provocazioni e cattiva condotta, ci fu un sommovimento plebiscitario. La parola sciopero non era allora così inflazionata nelle nostre scuole e incuteva un certo rispetto. Fu concessa un’assemblea, si votò.
I soliti Ficini, Rossi, Barbellotta e Ballottini, con  l’ubbidiente sorellina del Ginnasio e la “donna”( ragazzotta minigonnata, che  si atteggiava ad intellettuale) votarono col saluto romano. Patrasso e Ferrini sfoggiarono la bandiera dell’anarchia. Gente varia si sbaciucchiava a destra e altra ingurgitava aranciata e Coca Cola a sinistra.
Però, quando fu deciso( Chi? Quando?) di occupare la scuola, ci trovammo in dieci sulla scalinata interna, guardati, col tipico sorrisetto da bar, da tutti quelli che nell’intervallo (erano tutti rientrati in classe) vennero a mangiarci in faccia il pezzo di focaccia borghese d’ordinanza. A sentire i discorsi dei giorni seguenti, tutti avevano occupato la scuola e, ancora qualche anno fa, qualche professore “impegnato” si vantava di avere fatto il sessantotto. Peccato che , dalle nostre parti,  era il sessantanove.
Gli stessi, quando il vento è cambiato, hanno rimosso quegli anni, depennandoli perfino dal programma di Storia.
Migliavacca, non riuscendo a superare il penultimo anno di liceo, si comprò maturità e Laurea in Istituti privati ed è ben avviato nella carriera politica: dopo essere passato per tutti i partiti dell’arco costituzionale, ha creato uno schieramento suo.
Del ‘69 è rimasto il peggio: la tendenza alle semplificazioni e agli slogan, il linguaggio volgare, la mancanza di rispetto per le regole, e “la fantasia al potere”, ovvero la teatralità al posto del Teatro. Io sono passata indenne al turpiloquio, alla rivoluzione sessuale e culturale, agli spinelli e perfino alle sigarette, ma c’ero..  ­

 

 

 

Tratti da “TRE DONNE INTORNO AL COR” romanzo  in corso d’opera.

basato su una vicenda veramente accaduta.

Intorno alle tre donne, le due zie, emigrate oltre oceano, che si raccontano attraverso le lettere alla nipote, e questa, che raccoglie, ricuce e parla della propria vita, si dipana un grande affresco storico.

Cap. I

Era quasi bella Mariangela il giorno del suo matrimonio.
Il vestito di tulle bianco segnava appena il punto vita sotto il seno largo da contadina.
Il velo copriva i capelli crespi, castani, lasciatile in eredità da qualche avo saraceno, come il naso grosso, dalle narici larghe, addolcito da una bocca carnosa, sensuale, ben disegnata.
Il vestito l’avevano preso in affitto: i suoi fratelli si erano indebitati per pagare il viaggio e un po’ di corredo personale,  per non fare la figura della “ figlia di nessuno”.

Il padre era morto giovane e la madre aveva lasciato salute e giovinezza sulle olive a novembre, le arance a dicembre, i pomodori a giugno e broccoli, rape, peperoni, distribuiti per tutti i mesi dell’anno; a spezzarsi la schiena fino a quando questa non ne volle più sapere di reggere e neanche le gambe e le braccia; fu costretta a letto dai dolori e dalle medicine, che passava la mutua: da lì aveva guidato i figli che crescevano con la fiduciosa fede che tutto ha un senso e che ci sarebbe stato una ricompensa, di qua o di là.

Era la seconda sorella che si sposava nel giro di due anni.
Tutto il paese li aveva aiutati: Maria, la figlia della fornaia, le aveva acconciato i capelli, tirandoli sulla sommità del capo, come facevano le figlie dei “signori” per la messa della domenica.
Il pettinino dorato con le perline, che la sorella aveva fatto finta di dimenticare  quando era partita sposa, faceva la sua bella figura.
Zia Michelina, sorella del nonno e unica parente rimasta, le aveva comprato le scarpe bianche, col tacco quadrato, basso, così poteva usarle anche per qualche altra occasione.
Le dame di S. Vincenzo avevano preparato il rinfresco nell’oratorio della parrocchia e compare Mincuccio, lontano parente dello sposo, tirato a lucido, era tutto compenetrato nella parte.
Aveva ripassato più volte la formula di rito, ma aveva sempre paura di sbagliare: erano cose delicate.
—Io, Gerolamo Piscitello, prendo te, Mariangela Caramia, come legittima sposa secondo il rito di Santa Romana Chiesa….—
Era la quarta volta che si “sposava” ; a volte ci scherzava, poteva farlo diventare un lavoro,  invece si commuoveva sempre; lui era scapolo.
Guardo la fotografia ingiallita del 1949, che immortala il matrimonio “per procura”  di mia zia
Mariangela, sorella di mio padre.
Il giorno dopo partì per l’Argentina con i documenti in regola, a raggiungere il marito, visto qualche volta da lontano, quando erano ragazzini.
Era partito cinque anni prima, a cercare fortuna; poi aveva scritto al parroco del paese, Don Vito, che di matrimoni così ne aveva combinati una decina, e, cosa quasi incredibile oggi che gli sposi si conoscono bene , anzi fanno pure le prove di convivenza, “erano andati tutti bene”.
Mariangela raccontava sempre che era stato un matrimonio d’amore.
Tanto tempo prima, durante la processione di S. Rocco, lei si era affacciata alla finestra, con un vestito rosso e i capelli sciolti: lui aveva alzato gli occhi e si erano guardati: era stato un colpo di fulmine.
A forza di raccontarlo se ne era convinta: questo ricordo le illuminò la vita.
Si sentiva fortunata: sua sorella Assuntina aveva sposato allo stesso modo un maltese di origine  livornese, mai visto, che aveva conosciuto a Sidney un compaesano, lontano parente, che aveva scritto direttamente al capofamiglia, cioè mio padre.

Accanto alla fotografia oggi ho adagiato i due pacchetti di lettere ingiallite, legate con nastrini scoloriti, che dovevano essere stati rosa o rossi. Le avevo conservate nel cassetto delle carte importanti 20 anni fa.

Io  sono Margherita, sono nata in questa casa; era la casa dei nonni materni.
Chissà perché ho sempre fatto, fin da quando ne ho coscienza, un grande sforzo di memoria per fissare persone, parentele, affinità, transitate più o meno temporaneamente in questa casa. Alcune erano rapide, avventizie, come quei venditori ambulanti di una volta, che  si materializzavano nella strada principale, vendendo pentole e lenzuola e ammiccando a tutte le zitelle del paese, poi non si vedevano mai più. Altre erano più periodiche, come gli zampognari a Natale o le rondini in primavera, che ritornano con la certezza di ritrovare comunque un posto sotto un tetto: quel posto ero io.
Forse in ogni famiglia c’è qualcuno che ha il compito del Lare del focolare domestico…..
Fatto sta che da sempre tutti, quando, per necessità, momentanea nostalgia, ghiribizzo vacanziero o interessata affezione parentale, vogliono sapere qualcosa degli intrecci familiari e delle loro storie, sono costretti a chiedere a me, Penelope o Cassandra a seconda delle situazioni. Già…perché, a ricordare bene i fili delle storie, spesso ci si “azzecca” a prevederne gli esiti…o almeno a farsene una ragione.
Quanta strada, quanto mare, quante speranze, quanto cielo e nuvole e tramonti e albe e notti e fatica, dolore e carne che cresce …  a trovare somiglianze col cielo lasciato, davanti ad altre facce ed occhi che diventano familiari al posto nostro: il loro sangue si alimenta di altra terra e la memoria più profonda, quella che rimane nella carne, del pane condiviso, della fatica e dei riti, a poco a poco si stempera… italiani nel mondo…cognomi nelle statistiche.

Rivedo le mie zie  sotto l’enorme fico dietro la casa.
Da sempre c’era appesa un’altalena : ci potevano stare due bambini o due ragazze magre. Era lì che si dondolavano Mariangela ed Assuntina nelle rare pause estive, quando tutti si riposavano e loro avevano appena finito di rigovernare.
Le teste si sfioravano e parlavano a bassa voce; a volte una vecchia canzone arrivava a malapena oltre l’ombra dell’albero.
Loro sono rimaste là , ne sono sicura: la vita di ognuno è fatta di momenti fondamentali ed  eterni nella misura del nostro rapporto con l’eternità di cui non sappiamo nulla.