Alberto Pagotto - Poesie

Fallen 

 

È quando il mondo cade 

che tutto, 

d’improvviso, 

ti parla: 

inseguire ritagli, 

manciate di tempo, 

continui desideri 

rivestiti di insane 

ma necessarie aspettative, 

forme plasmate 

pronte a dire al nostro passo 

ciò che siamo 

nella realtà di questo spazio 

calato di fronte al nostro sguardo: 

niente più 

che una fulgida illusione 

dettata dallo scorrere 

imperturbabile dell’esistenza. 


 

Portami a casa 

 

Portami a casa notte, 

imperturbabile notte. 

Tu sola ti ostini 

a dare risalto a questo fuoco 

che sotto oscure e stordite ceneri, 

ancor vivo e tenace, 

avidamente si nutre dell’aria 

che tutto intorno, 

al tuo venerato cospetto, 

si nasconde, furba, 

ma pur grida e gioca! 

E insieme a nuove stelle, 

testé comparse al limitare 

del vasto orizzonte conosciuto, 

fa danzare, vibranti, 

le ultime gocce di pioggia, 

che a guisa d’ali di farfalla 

si prendono giuoco della terra, 

Lei, tenera madre sì divertita 

dal nutrimento di quel tocco divino 

animato d’incredibile dolcezza. 

 

Così, immutato e cangiante, 

in un continuo movimento 

che sempre torna per cercare 

e riconoscere la sua origine, 

io rimango ancora un po’ 

nel tuo abbraccio, notte, 

e piano mi riprendo addosso 

il colore di questo giorno che, 

nuovo, già bussa e non s’arrende, 

Lui, teatro di un fuoco 

finalmente libero sopra la cenere, 

spazzata via dalla gioia 

di un’aria fresca 

capace di creare un solco 

lungo la terra che porterà 

nuova acqua in questo mio mare. 


 

Strani insieme 

 

Orsù! Coraggio! 

Non tiratevi indietro, 

demoni dannati, 

Voi che a tutti i costi 

vorreste trascinare la mia anima 

lungo lo sconsacrato oblio 

emanato dal vostro amato Lete. 

 

Se non potrò mai più 

ammirare la sua giovane 

e passionale bellezza, 

prendete pure i miei occhi 

e gettateli nel fuoco fatuo 

di quei sedicenti maghi d’Oriente 

che si divertono a giocare il futuro 

di quattro miseri stolti. 

 

Se non potrò mai più 

sfiorare piano e sentir vibrare

il suo bellissimo corpo tentatore, 

prendete pure le mie mani 

e lanciatele nella terra 

di quegli antichi popoli d’Occidente 

affinché le usino per scacciare 

i loro più temibili nemici. 

 

Se non potrò mai più 

correre come un bimbo a perdi fiato 

e cercare la sua essenza nel vuoto, 

fate a brandelli le mie gambe 

e immergete ogni singolo pezzo 

nei gelidi mari dell’estremo nord 

dove il mondo apparente si ferma 

ma la vita s’agita dentro all’abisso. 

 

Se non potrò mai più 

pensare anche solo per un attimo 

ad ogni suo premuroso gesto, 

privatemi di questo mio cervello 

e portatelo tra i deserti del sud 

affinché neri avvoltoi senza pudore 

se ne possano avidamente saziare 

senza pietà alcuna. 

 

Ma se anche io, 

alla fine di si funesta battaglia, 

non potessi più guardare 

i suoi meravigliosi occhi, 

mentre le mie mani delicate 

sfiorano la sua pelle color del sole 

nell’attimo in cui il corpo tutto 

tramuta in puro desiderio 

gli ardenti spasmi della mia mente, 

dannati stolti, 

dinnanzi a voi 

avrò comunque vinto, 

perché il mio cuore senza paura 

difenderà con tenacia quell’Amore 

che in esso si muove e scalpita, 

quell’Amore che voi mai 

avrete l’ardire di capire o cogliere, 

quell’Amore che tutto trasforma 

e urla le nostre esistenze 

in un solo battito di vita eterna. 


 

Non ho più niente

 

Tempesta, 

racchiusa in un bicchiere,

lassù,

in un piccolo angolo 

di questa vuota stanza.

La osservo muto

mentre tenta di scaraventarsi

senza pace 

in ogni angolo, parete, anfratto.

Ma niente in fondo si agita 

nei miei sensi,

tale la consapevolezza

di una ennesima onda

che morta s’infrange 

al limitare del mio mare.

Così la parola più non adorna  

la cornice di silenzi del mio giorno

che lento si spegne

ed io altro non chiedo

se non di sentire,

almeno una volta,

il caldo rumore 

di questa tempesta. 


 

Tempo curvo 

 

“Maestro la trovo insolitamente pensieroso quest’oggi.” 

“Oh, beh, ragazzo, dici bene! È da questa mattina, appena sveglio che mi gira per la testa un pensiero alquanto….strano” 

“Se posso, di cosa si tratta?” 

“Mah, ha a che fare con la questione del tempo…. chissà magari mi sto troppo affliggendo intorno alla teoria delle stringhe…“ 

“Vada avanti. Sono curioso” 

“Allora…tutti noi siamo soliti scandire il nostro tempo in senso… alquanto…lineare. È normale, esiste un prima, un adesso e un dopo. E siccome spazio e tempo sono interconnessi sin dal primo millisecondo dopo il big bang o presunto tale … beh viene naturale, per la mente dimensionale umana, suddividere ogni esperienza di vita in un qui e quando che abbiamo formalmente identificato come eventi già accaduti nel passato – eventi che si manifestano nel presente – o eventi che si presuppone possano avvenire nel futuro…secondo un libero arbitrio” 

“Una sorta di visione alquanto semplicistica della relatività ristretta, in un certo senso, se posso permettermi, maestro…” 

“Si si ma ora arrivo al punto della questione. Prova a pensare: e se questa linearità, in fondo, non esistesse affatto?” 

“Mmmh…” 

“Se prendiamo il principio del tempo minimo di Fermat su un piano filosofico…” 

“Ovvero – Di tutti i possibili cammini che un raggio di luce può percorrere per andare da un punto a un altro, esso segue il cammino che richiede il tempo più breve…” 

“Si proprio quello…anche se a mio parere sarebbe più corretto affermare che la luce segue sempre un percorso estremo, un percorso cioè che minimizza il tempo di percorrenza o che lo massimizza. Ad ogni buon conto, dicevo, se consideriamo tale principio come variazionale in senso filosofico, deduciamo che il concetto di percorso più rapido non ha senso a meno che non esista una destinazione specifica che il raggio di luce dovrà per forza conoscere in anticipo, prima della sua partenza!!! Questo annulla il concetto di rifrazione in termini di causa-effetto, cioè la luce non cambia direzione perché tra due superfici esiste un indice di rifrazione diversa, la luce ha già come obiettivo quello di raggiungere un determinato punto!” 

“Bene maestro, la prego continui.” 

“Ora, se prendiamo ogni nostra singola esistenza come fosse un raggio di luce, applicando tale principio, si potrebbe indirettamente postulare che lo spazio – tempo in termini di causa – effetto non esistano come noi li percepiamo!” 

“Sinceramente non colgo il nesso” 

“Allora, prendiamo una delle mele sopra questo tavolo. Come la potremmo definire in termini spazio-temporali?”. 

“Mah, una bella mela rossa che vedo appoggiata sopra il suo tavolo in questo istante, mentre la osservo da questa posizione?” 

“Certo, non fa una piega in una logica spazio-tempo lineare. Ma osserva. Cosa è stata questa mela prima di essere tale? E cosa sarà una volta che , mangiata, ne avremmo gettato il torsolo pieno di semi sulla terra?” 

“Semplice, un fiore da impollinare al passato, una possibile pianta nel futuro!” 

“Esci dal concetto di tempo come prima e dopo.. ancora non ti accorgi che in questa singola mela le tre varianti del tempo sono in realtà racchiuse in un solo momento? Un fiore diventato frutto che contiene in se già una pianta in potenza? Passato, presente e futuro! Insieme! La natura coglie già la sua destinazione a prescindere da quale sia la variabile che incontrerà nel suo divenire!” 

“Quindi lei vorrebbe affermare che la nostra esistenza umana vivrebbe sin dal principio una sorta di ciclicità intrinseca votata al raggiungimento di un punto preciso nello spazio? E che in qualche modo minimizzare o massimizzare il raggiungimento di quel punto lo avremmo già deciso indipendentemente da quali siano i fattori che nel nostro cammino potrebbero influirne la direzione? 

“Esatto ragazzo!” 

“Mi perdoni maestro, ma se la nostra esistenza fosse ciclica, non saremmo mai destinati veramente a compiere il passo verso la destinazione finale! Non è un controsenso?” 

“Infatti, lo è. Ma se tutti noi curvassimo lo spazio-tempo della nostra esistenza fino a farlo diventare un unico punto di consapevolezza sulla vita, allora l’assurdo non avrebbe modo di esistere. Esisteremmo solo noi, singole entità, in un qui e adesso continuo che non lascerebbe, permettimi il termine, ne tempo ne spazio a nessuna sofferenza, ma solo alla percezione di essere principio e fine del nostro tutto”. 

“Maestro, credo sia arrivata l’ora del tè…” 

“Mi sa che prima proverò ad assaggiare questa mela, non credi, ragazzo?” 


 

Cammino 

 

In un tempo passato gli alchimisti sostenevano esistessero due cose, alla ricerca delle quali spendevano l’intera loro esistenza: la pietra filosofale e l’elisir di lunga vita. 

La prima aveva il potere di trasformare tutti i metalli in oro; il secondo conferiva all’uomo mortale una longevità mai vista prima. 

Qualsiasi persona sana di mente penserebbe che diventare alchimisti al giorno d’oggi sia una pura follia, oppure un atto di mera fantasia. 

Ma, a ben pensarci, perché non si dovrebbe credere che la mitica pietra filosofale sia insita dentro noi stessi? In fondo solo nostro è il potere di trasformare ogni cosa della vita che vediamo, tocchiamo o percepiamo in puro oro. Perché nostro è il potere di rendere tutto ciò che viviamo specchio del nostro più intimo pensiero e sentimento. 

E se questo pensiero e sentimento di bellezza altro non fosse il sentire profondo del nostro animo, non avremmo in quel caso scoperto anche l’elisir di lunga vita? Perché è solo quando il nostro corpo materiale si allinea al nostro animo che noi stessi diventiamo esseri di luce immortali. 

È per tutti questi motivi che desidero, in fondo, diventare un alchimista