Alessandra Dorigo - Poesie e Racconti

Czesława Kwoka

Cara dolce delicata farfalla.
Occhi gentili e innocenti di fanciulla.
L’esistenza ad Auschwitz traballa.
La vita là non conta più nulla.

Negli occhi ti si legge il terrore;
l’ordine di non dire una parola.
Il labbro insanguinato, un segno dell’orrore.
La voce della Kapò: una stretta alla gola.

Una fiorellino strappato con violenza
insieme a molti altri boccioli
con ferocia han rubato l’adolescenza
a te e a molti altri figlioli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Illustrazione di Mauro Nante

 

 

 

1975, Alessandra

Se non avete altre cose da fare
vi consiglio di starmi ad ascoltare.
Vorrei raccontarvi una storia personale
che parla di me, Alessandra, per gli amici Ale.

La caduta di Saigon, dopo vent’anni di guerra
portò finalmente la Pace in quella terra.
30 anni prima, nel ‘45, ci fu la fine di un dittatore
che aveva seminato in Europa paura e orrore.

“Aprile è il mese più crudele” il poeta Eliot scrisse,
il mese dell’attacco ai proci, per mano di Ulisse;
è dedicato a Madre Terra la ventiduesima giornata
il primo, sulle spalle, attacca un’orata!

Amo lo sport, la lealtà, la buona compagnia,
amo le persone sincere: mi trovo in sintonia.
Parlo tedesco e inglese, studiate all’università
Sono astemia: offrirmi del vino? Un’iniquità!

Un pelosetto felice che dimena la coda
è un cuore che batte, non è una moda!
Con loro il mio rapporto è speciale:
abbiamo un’intesa eccezionale.

Questa è Ale: sorridente, sportiva e pazzerella.
Così mi descrive anche mia sorella.
Ma del resto, si sa, lei è di parte
perciò fa di me una descrizione ad arte!

 

 

 

Artista ‘67

Prepara la base,
prepara il colore,
prepara i pennelli,
e con acqua, un contenitore.

Si lascia ispirare,
sceglie il soggetto,
si forma un’idea,
a matita fa un bozzetto.

Incerto è il segno,
ne traccia più d’uno,
la gomma cancella
ogni tratto inopportuno.

E’pronta la base,
scorre il pennello,
inizia il dipinto
ma il pensiero non era quello!

Lascia lo schizzo
lo riprende dopo
ne inizia un altro.
Distrarsi: questo è lo scopo.

Riprende il dipinto
dopo qualche giorno
“E’ così che si fa:
lo lascio e poi ci ritorno”.

Ritocca il disegno,
il tratto è sicuro
finito è il colore
sullo sfondo un chiaroscuro.

Firma ”Nante” i dipinti
il cognome può bastare
per marchiare nel tempo
ciò che solo lui può creare.

 

 

 

L’ubriaco

Procede dondolando verso destra
e poi verso sinistra
e quando è a sinistra l’ubriaco ritorna verso destra.
“Mi ci voleva un goccetto” è il suo pensiero,
se pensieri ancora ne fa,
ma la mente è annebbiata,
la vista offuscata
cammina a zig zag.
L’ebbrezza domina i sensi,
l’equilibro va perdendosi,
gli occhi stralunati,
le immagini dai contorni indistinti si sdoppiano
la stabilità inizia a vacillare
e lui cammina in modo scomposto.

  Cammina, inciampa, barcolla, va a zonzo
poi pesantemente cade a terra sbronzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Illustrazione di Mauro Nante

 

 

 

 

Anna

Nome dolcissimo di mamma
di donna dai capelli neri
di signora dinamica e sorprendente.

Ora carpentiere, ora seducente
a volte sguardi giulivi, a volte seri
ogni suo abbraccio il cuore infiamma.

Anna è il suo secondo nome
il primo non è di suo gradimento
ma“Eugenia”è presente e lo deve accettare.

Anche se per lei, sarebbe da cancellare.
“Eugenia”compare in ogni documento
perché il nome c’è, c’è eccome!

“V” è una lettera presente nella sua vita
alle persone, il motivo, non è dato sapere
a svelare l’arcano non sarò certo io!

Questo segreto rimarrà suo e….mio!
“V” è presente là, impettito come un alfiere.
sulle sue ginocchia e nei piedi, fra le dita.

Nome dolcissimo di mamma
di donna dai capelli neri
di signora dinamica e sorprendente.

Ora carpentiere, ora seducente
a volte sguardi giulivi, a volte seri
ogni suo abbraccio il cuore fiamma.

 

 

 

Amore materno

Mamma. Dal primo giorno Amore incondizionato.
Mamma. Nei momenti bui sostegno illimitato.
Mamma. Quando non ci sei, nulla può colmare il vuoto che regna.
Mamma. Mai una parola brutta o un’azione indegna.
Mamma. La tua voce è un suono soave che mi culla.
Mamma. Ci sei tu, e tutto il resto si annulla.

Mamma. Sei una musica nella notte.
Mamma: il sorriso che ogni dolore inghiotte.
Mamma. Di un adagio, ne sei la melodia,
di un trapezista, sei l’acrobazia.
Mamma. La prima parola che pronunciai.
Mamma!Sin dal mio primo gemito, così tanto ti amai!

 

 

 

La danza dei Pensieri

Se affollano la tua mente non dormi nella nottata;
se avversi, pesanti, la tua mente ne è colmata.
Tutto appare tenebroso, triste e irraggiungibile
ti chiedi se per sopravvivere devi fare l’impossibile.

L’emozione ti fa battere il cuore, quando non vedi l’ora.
La trepidazione ti avvolge, quando attendi ancora.
Attendi trepidante l’arrivo della bella notizia
che annuncia con allegria la fine della mestizia.

Capita di averne solo uno, e vorresti urlare a gran voce.
Non te lo levi di torno, diventa una pesante croce.
Finché improvvisamente si libera la mente
il pensiero si allontana e tu non senti più niente.

Talvolta sereni, talvolta turbolenti: non si è mai senza.
La mente si riempie, le riflessioni ne sono l’essenza.
Solo quando tutto è passato e la burrasca è conclusa
si torna alla normalità, ma la ragione ne resta confusa.

 

 

 

La Porta

Aprii gli occhi lentamente, come se mi stessi svegliando da un profondo sonno. Ero a terra in posizione supina. A fatica mi alzai in piedi.
Mi trovavo in mezzo a una stanza in penombra. La luce filtrava da sotto la porta e dalle fessure laterali degli stipiti. Mi guardavo attorno: nella semioscurità non riuscivo a scorgere nulla in modo distinto. Se ci fosse stata qualche altra forma di vita, persona o animale, ne avrei almeno percepito il respiro, ma non udivo il benché minimo rumore.
Provai ad aguzzare la vista nell’intento di distinguere qualche sagoma, ma la sensazione che provavo era quella di trovarmi in un ambiente buio, completamente vuoto.
Stesi le braccia avanti e cominciai a tastare nell’aria. Avevo il cuore che batteva all’impazzata: non riuscivo a capire se la mia speranza era di non toccare nulla oppure di sfiorare qualcosa o qualcuno. In quest’ultimo caso avrei potuto tirare un sospiro di sollievo, condividendo con un altro essere quella situazione, oppure avrei potuto avere una reazione improvvisa di timore non sapendo cosa o chi avevo vicino.
Girai per la stanza con le mani protese e, quando ebbi la sensazione di aver coperto tutta l’area con i miei passi, constatai che attorno a me non c’era nulla.
Rivolsi lo sguardo verso la poca luce che proveniva dalle fessure di quella che, con ogni probabilità, era la porta d’accesso. Una porta: una via d’uscita o un accesso a chissà quale posto ignoto….
Mi fermai qualche istante per cercare di raccogliere le idee e ricordare come mai mi trovavo lì e chi mi ci aveva portato, ma niente. La matassa non si dipanava. “Poco importa”, pensai, “ ora l’unica cosa che posso fare è aprire quella dannata porta e vedere se posso uscire di qui”.
Mentre facevo questi pensieri, mi assalì un dubbio cui non diedi importanza per timore che fosse confermato di lì a poco: e se la porta fosse chiusa a chiave?
Ben presto ebbi la risposta a questa mia domanda. Mi avviai verso quella flebile luce e, una volta raggiunta, iniziai con le mani a cercare la maniglia, nel luogo più ovvio in cui una maniglia può essere attaccata a una porta. Dopo averla trovata, l’afferrai e mi resi conto che si trattava di una comune maniglia a leva. Cominciai quindi ad abbassarla cautamente, adagio, cercando di evitare ogni rumore o cigolio. La porta non era chiusa a chiave e si aprì senza difficoltà.
Aprii una fessura tale da permettermi di spiare con un occhio cosa c’era oltre . Prima di distinguere bene ciò che riuscivo a vedere, cominciai a percepire delle voci indistinte, che sembravano rivolgersi ad altre persone ma, con mio grande stupore, anche a me.
Decisi di aprire sempre più la porta al fine di vedere da dove provenivano quelle voci e, mentre cercavo di attuare ciò che avevo in mente, cominciai a provare una strana sensazione, come se avessi dei capogiri. Quello stato di stordimento mi fece istintivamente scuotere un po’ la testa, cosa che mi permise di distingure in modo più nitido i suoni che udivo, ma mi consentì di vedere delle sagome di persone, dalle quali le voci provenivano. Queste persone indossavano tutte una camicia e un paio di pantaloni bianchi di cotone, senza distinzione di sesso.
Mentre il mio respiro si faceva più cadenzato, vidi una donna robusta avvicinarsi a me, guardarmi per qualche istante e poi sorridermi. Istintivamente avrei voluto rispondere a quel sorriso, ma faticavo a gestire la mimica facciale. La donna, senza smettere di sorridermi, mi accarezzò la fronte e mi disse:” Salve! Cerchi di aprire gli occhi e respiri profondamente. L’intervento è andato bene. Fra dicei minuti ritorno e le tolgo la flebo……”

 

 

 

La libertà dell’Essere

La nevicata, durante la notte, era stata abbondante. I fiocchi di neve erano caduti lenti, copiosi, leggiadri come farfalle e si erano delicatamente appoggiati su tutto ciò che si trovava all’esterno delle case. Le strade, i giardini, gli alberi, le auto: tutto era imbiancato e soffice.
Dalle finestre, che davano sulla via principale, si poteva ammirare il paesaggio monocromo. La strada sembrava il letto di un fiume, ricoperto di panna montata. Le poche persone che camminavano sul marciapiede ghiacciato, erano tutte imbacuccate per proteggersi dal freddo e le panchine avevano la parvenza di nuvole, pronte ad accogliere qualche stanco pedone.
Nel parco lì vicino, si poteva distinguere un pupazzo candido, che qualcuno si era divertito a formare con la neve e che era adornato da due grossi bottoni neri che fungevano da occhi. Il pupazzo si ergeva in mezzo al parco, silenzioso spettatore della vita della città. Immobile, osservava taciturno qualche solitaria auto procedere con cautela sulla strada ghiacciata.
La quiete, quasi surreale, fu disturbata dalle voci indistinte di alcuni ragazzi, quattro per la precisione, che entrarono nel parco con la convinzione che, camminare sull’erba ricoperta di neve risultasse più semplice piuttosto che procedere sul marciapiede diventato scivoloso a causa di una lastra di ghiaccio che lo ricopriva.
Mentre procedevano chiacchierando distrattamente, uno di loro notò quell’omino bianco che se ne stava tutto solo con aria meditabonda, e invitò gli amici ad avvicinarsi a lui.
“Ehi, qualcuno ha fatto un pupazzo di neve! Andiamo a vederlo!” li esortò a gran voce.
L’allegra brigata non esitò un secondo a dirigersi verso quel cumulo di neve e, fermatasi accanto, lo ammiarava compiaciuta.
I quattro giovani erano distrattamente intenti a formulare ipotesi sull’origine dell’omino di neve, quando, improvvisamente, notarono una cosa che, di primo acchito, li angosciò non poco. I due bottoni che rappresentavano le pupille del pupazzo, erano caduti a terra. All’interno delle due cavità rimaste, si intravedevano due occhi umani che guardavano i ragazzi con interesse e sbalordimento. I quattro giovani rimasero immobili e senza parole, con lo sguardo fermo su quella vista insolita e difficilmente accettabile dal raziocinio.
Eppure quei due occhioni che fissavano i giovani in modo dolce ma velatamente malinconico, erano veri e trasmettevano emozioni come gli occhi di ogni essere umano.
Dopo qualche istante di esitazione, uno dei ragazzi, ripresosi dallo sbigottimento iniziale, invitò i compagni a spalare via la neve con le mani, ritenendo che ci fosse qualcuno sepolto sotto quel cumulo bianco a forma di pupazzo, forse vittima di uno scherzo.
“Spaliamo via la neve! C’è una persona qui sotto!” esortò.
“Presto!Facciamo presto!” sollecitò un altro.
“Partiamo dalla testa!” suggerì il terzo.
“Facciamo delicatamente per non fargli del male!” si preoccupò il quarto.
Lentamente, con cautela, iniziarono a rimuovere la neve. Un po’ alla volta prendeva forma il corpo di una giovane ragazza la quale, rimossa tutta la coltre bianca, si mostrò in tutta la sua bellezza. Indossava solo un leggero abito chiaro, con maniche lunghe e morbide, che ricordava per la fattezza “la camicia da notte della nonna”.
La ragazza iniziò a fare dei movimenti per stiracchiarsi e sgranchirsi gli arti. In seguito si mosse come se volesse rannicchiarsi, ma mentre stava per assumere una posizione accovacciata, il suo corpo si trasformò in un uccello scintillante, simile a un airone bianco, dal quale proveniva un delicato profumo. Volse lo sguardo ai ragazzi, quasi a volerli ringraziare, voltò le spalle, spiegò le ali e, in modo leggiadro, spiccò il volo verso l’infinito.